Blog di Marco Castellani

Tag: lenti gravitazionali

Un cosmo abbondante (e flessibile)

Una immagine come questa indubbiamente ci rimane addosso, non si scrolla via facilmente. Solo perché siamo inclini al dimenticare, solo quello ci mette “al riparo” dalla meraviglia continua. Ci dimentichiamo perfino di essere immersi in un universo abbondante, presi come siamo da mille (spesso piccole) cose.

L’ammasso di galassie Abell 370 (e molto altro…)
Crediti: NASAESA, Jennifer Lotz and the HFF Team (STScI)

A circa quattro miliardi di anni luce da noi, vive il gigantesco ammasso di galassie Abell 370, che qui ci viene mostrato in una immagine di Hubble, capace di coglierne tutto il suo splendore.

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Abell 3322, bello e lontano

Si chiama Abell 3322 ed è un ammasso di galassie piuttosto grande. Per la cronaca, al centro si trova la galassia 2MASX J05101744-4519179 (lo so, non è esattamente un nome facile da ricordare, fortunatamente è improbabile che vi troviate a doverla citare in una conversazione con gli amici).

L’ammasso di galassie Abell 3322
Crediti: ESA/Hubble & NASA, H. Ebeling

Importantissimo è studiare gli ammassi come questo, perché da questi studi dipende molto della nostra comprensione dell’evoluzione della materia (oscura e luminosa) in queste gigantesche strutture cosmiche. Le quali si rivelano anche prodigiosi “telescopi naturali” che amplificano la luce di oggetti da noi lontanissimi, attraverso il fenomeno delle lenti gravitazionali.

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La ricerca tramite le galassie storte

A volte sono le cose storte che ci sono più utili. Succede nella vita quotidiana, lo sappiamo bene. Qualche accadimento che nell’istante rubrichiamo come contrattempo, come fastidio, poi ci porta a pensare o scoprire delle zone di realtà, dei risvolti di pensieri e sensazioni, che altrimenti avremmo perso. Ci aiuta un poco ad uscire dai binari soliti entro cui ci ostiniamo a correre. Anche in modo sgradito, certo: ma poi ci regala qualcosa.

Pure per la scienza è così. E non potrebbe essere altrimenti, essendo la scienza una cosa parecchio umana. In astronomia, per esempio, si fa ottima scienza con le galassie storte. Come questa qui sotto.

Si fa buona ricerca (anche) con le galassie storte…
Crediti immagine: ESA/Hubble & NASA

In questa immagine, una galassia molto lontana appare ingrandita e distorta per l’effetto dello spazio modificato dalla gravità. Sappiamo infatti da Einstein in poi, che lo spazio non è piatto come tendiamo a pensare normalmente, ma si incurva: in modo particolare intorno a delle grandi masse. La luce accarezza poi le curve dello spazio (non può fare altro) e dunque l’effetto è un po’ come se ci fosse una lente che distorce l’immagine. Una lente gravitazionale, infatti. Questa è una delle più belle che si siano mai trovate: la galassia distorta avvolge quella al centro della foto circondandola nella metà sinistra. Ma appunto è una distorsione apparente dovuta alla geometria dello spazio.

Analizzando questa immagine, gli astronomi hanno assegnato una distanza alla galassia distorta, pari a 9,4 miliardi di anni luce. Il che la posizione proprio all’epoca di punta della formazione delle strutture stellare nel quadro dell’evoluzione cosmica. In un universo ancora molto giovane, decisamente molto esuberante.

Quello che vediamo si chiama anche anello di Einstein, invero uno dei più larghi e quasi completi, che si sia mai visto. Una stortura spettacolare, possiamo ben dirlo.

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Una (bella) fetta di universo…

L’immagine è presa dal Telescopio Spaziale Hubble e ci mostra una bella fetta di universo, che comprende oggetti a differenti distanze e a diversi stadi evolutivi nella storia del cosmo. L’intervallo spazia da oggetti quasi contemporanei ad altri fotografati nello stadio in cui apparivano nei primi miliardi di anni di vita del cosmo. E’ una esposizione di ben quattordici ore e riesce a mostrare oggetti un miliardo di volte più deboli di quanto sarebbe possibile vedere ad occhio nudo.

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 Crediti: ESA/NASA

Personalmente, davanti a queste immagini “profonde”, la prima cosa che invariabilmente  mi colpisce è la quantità e la varietà delle galassie. E’ veramente uno zoo di galassie diverse ancora tutto da esplorare, come dicevamo in un uno degli ultimi post. C’è anche da dire che oggetti che sembrano vicini nella foto, in realtà possono essere anche assai lontani tra loro: di fatto, molti gruppi di galassie – pur trovandosi a diverse distanze . si trovano a convergere lungo la linea di vista, creando qualcosa di simile ad una illusione ottica.

Un altro fenomeno che rende ragione di una analisi dettagliata della foto, come di molte altre riguardanti l’universo profondo, è il fenomeno delle lenti gravitazionali. Questa è una conseguenza della prescrizione della relatività generale secondo la quale (incredibile a pensarci) la massa ‘incurva’ lo spazio dove si trova, tanto che un oggetto molto massivo può agire esattamente come una “lente” deviando i raggi luminosi che provengono da oggetti alle sue spalle, poiché la luce stessa segue la geometria locale dello spazio. Così dei gruppi di galassie ci appaiono distorti esattamente per questo effetto, perché magari nella linea di vista la luce che da loro proviene si trova a pesare vicino ad un concentrazione di massa particolarmente elevata (ammassi di galassie o altro). 

E’ interessante notare che i fenomeni legati alle lenti gravitazionali furono previsti dalla teoria appena dopo l’introduzione della teoria della relatività generale (che ricordiamo fu elaborata da Albert Einstein e pubblicata nel 1916) , per quanto per averne conferma empirica si sia dovuto aspettare molti decenni: le prime osservazioni di lenti gravitazionali risalgono infatti soltanto alla metà degli anni ottanta. Del resto, un modello teorico che “funziona” quasi sempre ci regala predizioni che risultano “avanti” rispetto alle tecniche osservative, le quali poi raffinandosi pian piano, arrivano sovente a porre problemi che mettono il modello in crisi. In un continuo gioco al reciproco superarsi, che è il cuore stesso del progresso scientifico così come noi lo conosciamo.

Da uno spunto di spacetelescope.org

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Le prime galassie? Più vecchie di quanto si pensava!

Utilizzando il “potere di amplificazione” di una lente gravitazionale cosmica, gli astronomi hanno scoperto una galassia distante, le cui stelle risultano esser nate “inaspettatamente presto” nella storia del cosmo. Il risultato è importante perché getta nuova luce sia sui meccanismi di formazione delle galassie, sia sulle prime fasi dell’evoluzione dell’universo stesso.

Johan Richard, a capo della ricerca appena pubblicata su Montly Notices of Royal Astronomical  Society, ha affermato “Abbiamo appena scoperto una galassia lontana che ha iniziato a formare stelle appena 200 milioni di anni dopo il Big Bang. Questo mette alla prova le teorie su quanto rapidamente si siano formate ed evolute le galassie, nei primi anni dell’universo. Ciò potrebbe anche aiutare a risolvere il mistero di come sia stata dissolta la ‘nebbia di idrogeno’ che riempiva l’universo primordiale.”

La ricerca è stata condotta tramite osservazioni a diversi telescopi, incluso il Telescopio Spaziale Hubble, lo Spitzer (entrambi nello spazio) e il W.M.Keck Observatory alle Hawai.

La galassia distanta è visibile attraverso un ammasso di galassie noto con il nome di Abell 383, la cui gravità influenza il percorso dei raggi di luce che lo attraversano, un pò come fa una comune lente ottica nel caso della luce solare (anche se ovviamente il principio è diverso). Di fatto, l’allineamento “fortunato” tra la galassia, l’ammasso di galassie e la Terra si traduce in una amplificazione della luce che proviene dalla galassia lontana, il che permette agli astronomi di condurre osservazioni dettagliate. Va detto che senza l’ausilio di questa lente gravitazionale, infatti, la galassia sarebbe sicuramente risultata troppo debole per poter essere osservata, nemmeno utilizzando i migliori telescopi oggi a nostra disposizione. Potremmo dire dunque che, in questo caso, è  la natura stessa che ci viene in aiuto!

Tramite analisi ottiche e spettroscopiche, è stato determinato lo “spostamento verso il rosso” (redshift cosmologico) della galassia, pari a 6,027. Questo vuol dire che stiamo vedendo la galassia come era quando l’universo era vecchio appena 950 milioni di anni (l’età oggi stimata dell’universo, come sappiamo, è di 13,7 miliardi di anni, dunque era davvero molto piccolo…).

Un redshift così rilevante, comunque, non fa di questa galassia quella più lontana mai osservata: ne sono state trovare diverse con valori di redshift circa 8, e una addirittura con reshift intorno a 10! La peculiarità di questa galassia infatti non risiede nella sua distanza, ma nel fatto di presentare caratteristiche drammaticamente diverse da altre galassie distanti che si siano già osservate, le quali generalmente brillano gagliarde della luce di stelle esclusivamente giovani.

Benché le indicazioni di redshift, come abbiamo menzionato, piazzino la galassia molto presto nell’evoluzione cosmica, tuttavia i dati di Spitzer indicano come la galassia sia fatta di stelle sorprendentemente vecchie e relativamente poco luminose (come spiega Elichi Egami, che ha preso parte alla ricerca). Vi sono segnali di stelle vecchie addirittura 750 milioni di anni, il che porta l’epoca della prima formazione stellare indietro fino a circa 200 milioni di anni dopo il Big Bang, molto prima di quanto pensavamo!

L’ammasso di galassie Abell 383… più “potente” del miglior telescopio a nostra disposizione! (Crediti: NASA, ESA, J. Richard (CRAL) and J.-P. Kneib (LAM). Acknowledgement: Marc Postman (STScI))

La scoperta presenta implicazioni che vanno molto al di là del periodo di prima formazione delle galassie, e può aiutare a capire come ha fatto l’universo a diventare trasparente alla radiazione ultravioletta nei primi miliardi di vita dopo il Big Bang. All’epoca, una nebbia diffusa di idrogeno neutro bloccava la diffusione della luce ultravioletta. Deve essere allora intervenuta una qualche sorgente di ionizzazione per il gas neutro, che “spazzasse” la nebbia e lo rendesse trasparente ai raggi ultravioletti, come lo è ora. Il processo è noto con il nome di “reionizzazione”

In effetti gli astronomi erano persuasi che la radiazione che ha fatto da “motore” alla rionizzazione dovesse aver avuto origine dalle galassie. Però fino ad ora, nessun candidato era stato trovato per confermare questa tesi. La presente scoperta potrebbe aiutare a sciogliere questo perdurante enigma.

Se infatti le galassie lontane, con stelle già “mature”, fossero molte più di quanto prima ipotizzato (come la recente scoperta porta a credere), ecco che la “radiazione mancante” per la reionizzazione potrebbe finalmente trovare una sua origine, del tutto plausibile.

Una ultima osservazione: fino ad ora dobbiamo affidarci alle (potenti) “lenti cosmiche” per effettuare simili scoperte. Questo vuol dire che possiamo sfruttare solo alcune configurazioni geometriche particolari (come in questo caso, l’allinemaneto Terra – ammasso di galassie – galassia lontana). Con il previsto avvento del James Webb Telescope, nella prossima decade (speriamo), potremmo essere nella posizione ideale per risolvere questo mistero, una volta per tutte (e aprirne, come è sempre per la scienza, mille  e mille altri….)

SpaceTelescope Press Release

 

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