Blog di Marco Castellani

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L’ammasso dell’albero di Natale

Questa bella immagine mostra il cosiddetto ammasso dell’albero di Natale. Le luci blu e bianche sono prodotte da giovani stelle che emettono raggi X, rilevati dal satellite Chandra della NASA. I dati ottici del telescopio WIYN da 0,9 metri della National Science Foundation al Kitt Peak mostrano il gas nella nebulosa in verde, corrispondente agli aghi di pino dell’albero, e i dati a infrarossi della Two Micron All Sky Survey mostrano le stelle in primo piano e di sfondo in bianco. Questa immagine è stata opportunamente ruotata, in modo che la parte superiore dell’albero appaia verso la parte superiore dell’immagine stessa.

Nessun albero di Natale più grande di questo, decisamente…
Crediti: X-ray: NASA/CXC/SAO; Optical: T.A. Rector (NRAO/AUI/NSF and NOIRLab/NSF/AURA) and B.A. Wolpa (NOIRLab/NSF/AURA); Infrared: NASA/NSF/IPAC/CalTech/Univ. of Massachusetts; Image Processing: NASA/CXC/SAO/L. Frattare & J.Major

L’ammasso in questione è NGC 2264, un brillante ammasso aperto circondato da un esteso sistema di nebolosità diffuse.

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Passaggi di universo

In questo periodo mi viene sempre in mente. Il racconto si chiama Vuol dire nascita. Da quando l’ho scritto sono passati nove anni, e in nove anni molte cose sono accadute. Cose belle che rinforzano il canale di comunicazione tra la scrittura e l’astronomia, come il mio ingresso nel Gruppo Storie. Ora, anche in redazione di Edu INAF, il magazine di didattica e di divulgazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (a proposito, proprio oggi esce un articolo che fa il punto su di un bel progetto come il Concorso Gianni Rodari).

Molte cose da quel 2012, dunque. Grazie al cielo, molte. Però questo lo sento ancora molto mio, sento che c’è qualcosa che ogni volta mi fa affezionare, mi fa stare bene tra le parole di questo breve testo.

Era la mattina del ventiquattro e Alessandro non aveva risorse diverse dal guardare il tempo fluire via, senza poter intervenire. Ogni tentativo di intervento, ogni schema di pensiero di qualsiasi tipo, gli procurava solo fitte di mal di testa. Meglio sedersi a lato, ed aspettare.

Vuol dire Nascita

Sarebbe facile disquisire ed analizzare, ma non credo sia la cosa migliore. Appena un piccolo racconto, senza pretese. Visto che è legato al Natale mi piace riproporlo adesso.

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Nuove prospettive

Vorrei essere misurato con gli auguri di Natale. Del resto, chi se li ricorda più appena due giorni dopo? E rimanere in ambito astronomico, anche. Ecco che allora il tema specifico me lo suggerisce questa foto storica, appena ripubblicata da NASA.

La Terra sorge sull’orizzonte lunare, dall’Apollo 8 (Crediti: NASA)

Quello che è associato al Natale – qualsiasi cosa crediamo di credere – è senz’altro una nascita, un senso di ricominciamento, un soffio di nuove prospettive. Questo ci accomuna, sull’intero pianeta: mai come oggi abbiamo bisogno di nuove prospettive. Per la stanchezza di vivere in emergenza sanitaria, certo. Ma no solo.

Questa immagine della Terra che “sorge” sul panorama lunare, è stata acquisita dall’equipaggio dell’Apollo 8 in orbita attorno alla Luna. Bill Anders (l’autore della foto), Frank Borman, e Jim Lovell sono stati i primi uomini in assoluto a circumnavigare il nostro satellite, ottenendo questo interessante spunto di nuova prospettiva.

Possiamo augurarci questo, che un imprevisto renda la nostra vita più interessante. Siamo in un universo in perpetuo ed accelerato cambiamento, e in fondo è appena questo che ci è domandato, smettere di opporci e di puntare i piedi, lasciarci anche noi fluire nel cambiamento, tornare morbidi alla sorpresa. Aperti a quel che accade, meno serrati nella convinzione che la soddisfazione possa arrivare nel modo che ci siamo detti noi.

Una Terra che sorge è speranza per ognuno di noi, di sorgere di nuovo, respirare in nuovi orizzonti. Vuol dire nascita, scrivevo in un racconto per Natale, tempo fa. Lasciamo pure la parte già vista della festa, estinguersi in pochi giorni, poche ore, con i suoi panettoni e le sue canzoncine, il suo buonismo grossolano e sterile. Invece, scommettiamo ancora sul fatto che questo universo ci possa ancora sorprendere, incantare. Possa ritornare interessante, nella nostra ricerca di senso. Di tutto questo, auguri!

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Ben piantati al suolo

Si vede bene la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), mentre sorvola i cieli della contea di Arlington, in Virginia. La striscia bianca è questo, è l’impronta dell’uomo nella sua inesausta esplorazione del cosmo.

La foto è appena di quattro giorni fa, il sei dicembre. A bordo della ISS si trovano, in questo momento, Kate Rubins, Shannon Walker, Victor Glover, Mike Hopkins (astronauti della NASA); Soichi Noguchi (agenzia spaziale giapponese, JAXA); e i cosmonauti russi Sergey Ryzhikov, and Sergey Kud-Sverchkov.

Interessante vedere come l’umanità in volo sia spesso più unita di quella che vediamo a volte un po’ troppo terra terra, a volte un po’ persa nelle piccole beghe da cortile: così penserebbe Carl Sagan, che già nel secolo scorso ammoniva a vivere armoniosamente su quel puntino blu che è tutto ciò che abbiamo.

Crediti: NASA/Bill Ingalls

Ma terra e cielo potrebbero essere visti in modo dicotomico, se non fosse che proprio l’albero, nella foto, ci ricorda una evidenza lampante. Si guarda in alto con i piedi ben piantati per terra, con radici solide. La concretezza è il cardine per ogni indagine, anche scientifica.

Il resto, lo sappiamo, son chiacchiere. Buone per riempire il tempo, niente di più. Niente di nemmeno paragonabile alla serena bellezza, di un albero di Natale. Con un cielo amico, di sfondo.

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Senza vergogna (grazie al cielo)

Così scrive don Julian Carron nella bella lettera pubblicata sul Corriere di oggi.

“Dio non ha vergogna di noi, della nostra fragilità, delle nostre ferite, del nostro essere sballottati da tutte le parti”

Un Dio così è veramente interessante, è veramente “amabile”. Vale la pena, mi dico, lavorare per togliere dalla mente le altre immagini di Dio e tutte le paure, lasciando entrare questa, risanante e tranquillizzante.

Lasciando che questa “nasca” in noi, trovi dimora, riparo.

Una immagine di Dio che ci può fare compagnia, che se impariamo a fare nostra, a farla entrare dentro di noi, può aiutarci e sostenerci. Nella vita normale, intendo. Ci vuole qualcosa proprio per la vita normale, la vita che viviamo fuori dalle festività. Ci vuole una ripartenza, una diversa esistenza, proprio per quello. Ci vuole un mondo nuovo, esattamente per il mondo ordinario. Mentre camminiamo, ci fermiamo, mangiamo, leggiamo, mentre siamo in un negozio, in un bar, mentre scorre la vita, ecco, ci vuole l’idea di una prospettiva diversa, fragrante, morbida. Su cui fermarsi a pensare e a volte, anche, fermarsi per gioire.

Gioire da fermi, pensando. Pensare in modo morbido e aperto, se da qualche parte c’è una gioia, diventa in qualche modo possibile, ritorna possibile in diversi modi, per l’alba di diversi mondi. Di pianeti che sono lo stesso nostro pianeta ma diversi, anche, e dove c’è vita ma più vita di qui, anche se siamo qui.

Ci vuole un’altra vita, come cantava Franco Battiato tanti anni fa. E così si dicono Anita e la sua mamma, questi giorni, sotto un cielo di stelle di puntini piccoli piccoli luminosi invadenti impertinenti. Lievemente, giocosi.

Lo sappiamo che ci vuole un’altra vita, lo sentiamo tutti che questa, per molti versi, ci sta stretta. Il fatto è che niente, a volte non lo riteniamo possibile. E questo c’entra con le immagini del divino, secondo me, c’entra parecchio, ci si professi credenti o no. Insomma una immagine così di un Dio amico e vicino e che “non ha vergogna” fa piazza pulita di tante incrostazioni mentali, e ci fa ripartire.

Certo la mente è quello che è e le incrostazioni mentali tornano, amano tornare, a volte si trova una via luminosa e viene voglia di dire ma ecco è così! Ci siamo, ci siamo è così! e la vita ordinaria aspetta e vuole riprenderci nelle sue dinamiche e così i pensieri, nei soliti collaudati e un po’ esauriti pensieri.

Ecco perché penso che queste buone notizie sono, possono essere, l’inizio (o la ripresa) di un lavoro, su di sé, e quindi ipso facto  sul mondo, sul cosmo (fin fino alle lontane stelle,sì). Ci si può applicare, siamo lavorabili dice il poeta e filosofo Marco Guzzi, e il fatto che siamo lavorabili è una gran buona notizia, una notizia che spesso ci dimentichiamo. Il lavoro ha alti e bassi e siamo spesso “sballottati da tutte le parti” (almeno io, lo sono), e il fatto che c’è Chi non ha vergogna di questo, ci aiuta e ci intriga,ci incolla di più in questo lavoro, della vita.

Buon Natale!

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I pensieri illuminati (cioè, il bordo degli occhi)

Ma tu te li ricordi i nostri sogni / al tempo dei pensieri illuminati così canta Fossati e questo mi ritorna in testa adesso, che riprendo questo post, abbozzato tanto tempo fa e rimasto – chissà – in cerca di una soluzione, di una conclusione.

Sarà che uno tenta di ritornare a quello, al tempo dei pensieri illuminati, e tutte le gratificazioni al mondo che arrivano e continuano magari ad arrivare, non riempiono il cuore come faceva uno sguardo, un solo sguardo, in quegli anni… che tanti pensieri e tanta saggezza non serve a niente non scalda nemmeno come un cerino, finché rimangono solo parole non servono a nulla anzi… mai più saggezza mai più…

Sarà che uno vorrebbe a volte prendere tutto e via, scappare lontano diecimila miglia e tornare a vedere… vedere le spiagge i panorami i tramonti sentire l’odore di cibi esotici vedere le ragazze che ridono farsi sommergere dalle promesse dei loro sguardi dolci, ingenui e maliziosi e correre correre correre e non sapere cosa si potrà fare domani, non saperne proprio nulla, sapere appena che domani sarà una cosa nuova, una giornata diversa e nuova (molto diversa e molto nuova) e avremo ancora sorrisi e avremo ancora abbracci e corse e risate e gente che si stupisce con me, per me… gente che – per dire – può avere voglia di sorridere e amare, vestirsi e spogliarsi, senza stare a dosare e a sgocciolare assensi con parsimonia e inossidabile buon senso…

ma tu te li ricordi i nostri anni.. I tempi delle stelle in fondo agli occhi

E’ indubitabile. Ci sono momenti, periodi, che più facilmente si avvertono come magici. Periodi che sono un invito, un invito a venire a vedere, a coinvolgersi.

Perché poi alle volte si rischia di scambiare questo con il tutto. 

Non le bollette, le cose da pagare e le incombenze che ci sono e chissà se oggi magari piove e non i problemi scolastici dei ragazzi e non più le parole oggi sono stanca voglio dormire… e a volte (perché poi, non lo sai nemmeno) non trovi nessuno che ti sorrida più con le stelle in fondo agli occhi, non lo trovi o ti pare di no (forse appena non lo vedi, non lo vuoi vedere), hanno tutti molto altro da fare (ti sembra), molto altro da fare che occuparsi di te e della tua ricerca di stelline negli occhi (ti pare), e una lei che ti guarda normalmente magari ti ricorda di portare la roba in cantina ma lei è anche e soprattutto una bravissima persona e dunque forse è tutto normale, è la normalità, forse sei tu che stai scansando il reale con la tua ansia delle stelline e in qualche modo sei tu, non sono gli altri, in qualche modo sei sempre tu, eppure…

Cosa rimane, cosa rimane? Abbiamo il coraggio di chiedercelo? Cosa rimane adesso delle stelle nel fondo degli occhi? Dei tuoi occhi meravigliosamente intarsiati, amica mia, che ammiravo standoti vicina in metropolitana, dei tuoi maglioni larghi, delle tue esitazioni e della nostra scoperta del vivere nella carne e dei modi tutti nuovi e inesplorati per stare in comunione, in luminosa comunicazione? Cosa rimane se la sabbiolina dorata sembra scivolata tutta tra le mani e se le apri non la trovi più, la cerchi sugli altri e non la trovi più… cosa rimane ancora?

Cosa rimane, se a questo punto non allargo lo sguardo, cerco un senso più ampio che – cadendo dentro tutto questo, smascherando anche la parzialità fallace delle mie percezioni  – lo invera e allo stesso tempo lo ricompatta in una orbita di senso, in una orbita che abbia senso pieno anche adesso?  Cosa rimane se rinuncio a pormi io stesso, prima di tutto, in un orbita di guarigione, se non imparo sempre e di nuovo a guarire?

E’ una decisione fondamentale, è uno spartiacque sempre drammatico. Perché se questo non avviene, se non lo lascio avvenire, ebbene ha ragione (ancora una volta) Fossati, in quella meravigliosa canzone, in quel profondissimo quadretto che è D’amore non parliamo più,

Con la bellezza non discuto / la bellezza se ne va

Ed è una frase che ti rimane dentro e chiama un senso profondo, una riscoperta di senso globale, perché altrimenti rimane appena il dolore, quel dolore purissimo per la scomparsa apparente della cose. Lo dice un altro grande, lo dice il Boss, nella sua Atlantic City

… everything dies, baby, that’s a fact …

Perché allora uno si deve appena rassegnare alla progressiva scomparsa delle cose, all’indebolirsi del senso totale. Ma la rassegnazione è amara, è devastante. E forse, tutto sommato, non è inevitabile. Forse no. It’s a fact dice il Boss e non sembra lasciare margine alle interpretazioni. Del resto lo vediamo anche noi, è sotto gli occhi di tutti: La bellezza se ne va. 

Così Natale dovrebbe avere qualcosa da dire su tutto questo, qualcosa da dire in tutto questo, dentro tutto questo. O naturalmente dentro drammi peggiori, drammi veri. Perché il rischio è che se Natale non ha niente da dire e non incide su questo rimane confinato in una melassa retorica buonista (oggi si direbbe così) che fa soltanto molto male allo stomaco.

E’ anche chiaro cosa non vogliamo. Non qualcosa di strategico, non l’ennesima nostra strategia. Nessun manuale di self help potrà veramente servirci. Ci vuole qualcosa di esterno che ci venga a trovare, ci venga a visitare, per rinegoziare il rapporto con il mondo e ritornare ad una freschezza originaria, alla freschezza di un inizio, di un nuovo inizio. Qualcosa che è fuori di noi e che si propone al fondo di noi; ma è fuori di noi, dice Luigi Giussani, uno che comunque dell’uomo e del suo desiderio profondo, se ne intendeva parecchio.

Basterebbe un semino luminoso, che alla fine possa contrastare credibilmente questo everything dies di Bruce, innestato così profondamente nei nostri cuori. Un semino ancora più profondo, che dice che tutto muore, apparentemente, ma la morte non è l’ultima parola. Cioè, a noi sembra che tutto muore, solo perché non abbiamo sotto gli occhi il quadro completo.

Ripartire allora. Ripartire sempre e di nuovo, dalle profondità abissali di questa notte, di questa vigilia. Accogliendola, accogliendomi e accogliendoti, amica. In fondo, come avverte Marco Guzzi, non dobbiamo avere paura, in fondo è nella notte che nasce il nuovo.

E’ anche una scommessa, ma non solo: è la premessa di una vita veramente vissuta. Non è vissuta davvero fino in fondo quella vita trascorsa ai margini della disperazione del tutto muore. Affatto. Se tutto viene conservato, se non muore davvero, ecco che allora io sono libero di vivere profondamente, di fare tutti gli sbagli che voglio fare e che debbo fare (come diceva in maniera innegabilmente evocativa Luca Carboni, potremmo essere felici fare un mucchio di peccati), ed intanto – come valore aggiunto di grande spessore – essere sicuro, tranquillamente sicuro che il bordo, quel bordo degli occhi, quel tuo bellissimo bordo degli occhi, non lotta più con la disperazione, ma accoglie la quieta consapevolezza di un viaggio che ha una sua Destinazione Buona – così sconvenientemente buona da infastidire tutti i benpensanti, costantemente impegnati a limare e limitare il loro desiderio d’infinito.

Quel bordo ridente dei tuoi occhi, amica mia: che così diventano ancora più lieti, ancora più belli.

Natale, alla fine, non sono tanti discorsi; è una questione di sguardo, una purissima e decisiva questione di sguardo. Di un volto, di un sorriso, del bordo degli occhi, del bordo ridente dei tuoi occhi, amica: di nuovo, ridente. E’ una questione di danza il Natale, alla fine. Di quella danza segreta e primitiva che ti impregna il cuore e i muscoli, amica mia, ti fa scorrere linfa nuova nel tuo sangue selvaggio, ti incatena, finalmente ti incatena al tempo che vivi e ti riscatta, ti riscalda continuamente.

Auguri.

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Natale. La rivolta contro il nonsenso

Vado dritto al punto. Non è la cosa più pesante del mondo, una vita priva di significato? Trovo che sia curioso come tanto spesso, tutti quanti, ci mettiamo con dedizione certamente degna di miglior causa, a scansare le domande fondamentali, ci compiacciamo di indulgere in regolamenti, in normative, in analisi di coerenza di questo e quello, nell’analisi bilanciata delle cose piccole, tanto minuziosa quanto splendidamente inutile. Perché a volte sembra che tutti, credenti e non credenti, non si interroghino sulla portata straordinaria di una proposta. O meglio, di una pretesa, come quella cristiana.

Così il rischio è che tanta gente, tanti di noi, si augurino buone festività  e passino il periodi di Natale senza capire cosa stanno festeggiando. O peggio, smettendo di chiederselo. 

Seguitemi, che prendo la cosa da un altro angolo. Facevo pensieri in questi giorni, non mi davo pace. Ci deve essere qualcosa che ci unisce, qualcosa che una volta almeno faccia piazza pulita delle barriere, degli steccati, dei distinguo. Che per carità, hanno pure la loro ragion d’essere, nessuno lo nega. Ma ci deve pure essere qualcosa di altro, qualcosa che si muove in uno spazio diverso, in un altro ordine di rapporti. 

Ecco, anche il Natale. Non si tratta certo di svuotare una festa del suo significato “scomodo”  per renderla palatabile a tutti. Certo no. Si tratta piuttosto di vedere come una cosa enorme debordi e interroghi, travalichi i pensieri pigri. Si imponga.

Ci deve essere – c’è – una nostalgia del cuore che unisce tutti. 

Cosa è il Natale se non una sfida lanciata contro il nonsenso, quella disperazione quieta che conosciamo fin troppo bene? Quel senso di andare avanti senza un obiettivo chiaro, ma sopratutto grande, enorme. Qualcosa capace di rendere ragione di tutto, di tutto. 

Accidenti. Messa così, c’è ancora qualcuno che può dire di non essere interessato? 

Piccolo U-Turn (con rientro in corsia)Pensando a questi anni, vedo questo. Siamo ancora come un esercito in ritirata. Dopo le grandi esaltazioni ideologiche, siamo rimasti scottati. Siccome una rivoluzione collettiva non è riuscita – o è riuscita solo a spargere sangue di nostri fratelli – ci siamo fatti furbi. Per così dire. Ci siamo rinchiusi. Se abbiamo capito che la salvezza non viene dall’imposizione di un nuovo ordine politico e sociale (come era nell’aria anni fa) abbiamo cominciato a credere che possa venire – semmai –  da un ambito più privato. Da una certa modalità di rapporto, dei rapporti.

E ci siamo tutti, in questa barca.

Il sentire comune permea chi crede e chi non crede. E poi anche credere non è mettersi una tessera in tasca e dire “ora sto a posto”. Tutt’altro. E’ partire per un’altra avventura. Dinamica. Non è un punto di arrivo ma di partenza. Dirsi credenti – normalmente – non mette al riparo dalle prove, dallo sconforto, dai dubbi.

Non è diventare automi. Si rimane uomini, grazie al cielo. Anzi, si dovrebbe diventare più uomini (se non si guadagna in umanità, la cosa inizia a rendermi perplesso…). 

Per questo mi sembra che quello che ci unisce, che ci può unire, è una sfida alla ricerca di senso. Una sfida, da qualsiasi posizione pensiamo – o ci raccontiamo – di partire. Quella che affrontiamo tutti i giorni, che può trovarci attenti, che ci fa ribellare ad una vita automatica. 

Propongo un breve video di Jung, qui di seguito, inserito poco tempo fa nella pagina Facebook di Darsi Pace. Jung mi piace perché si muove in uno spazio complesso, articolato, direi sano. Mentre lo spazio delle nevrosi è sempre scarno e privo di sfumature, è una verità impazzita, è tutto un bianco/nero ideologico senza toni di grigio, senza modulazioni.

Ecco. C’è una vera rivoluzione che va condotta, finalmente, ed è la rivolta contro il nonsenso. Una rivoluzione che volge all’esterno come all’interno di noi stessi. O meglio, volge all’interno per poter cambiare l’esterno. Basta poco per capire che non è minimamente in questione una qualche coerenza etica, non si parla punto di “essere più buoni”: si va davvero al di là, perché se anche la bontà o l’impegno non è recuperato nell’ottica di un senso più grande, più esteso, niente ci salverà dal cedere al cinismo, prima o poi.

Ebbene. Non so voi, ma io per Natale chiedo questo. Chiedo di capire, ma no…  di sentire, con la testa, il corpo, la pancia, le mani, le gambe, il sesso, i piedi, il respiro… che la vita ha senso, chiedo di avvertire che la mia esistenza in questo punto dello spazio-tempo non è un mero accidente casuale, un evento freddamente atomico e molecolare di uno spazio fisico in movimento perpetuo insensato ad evoluzione casuale, ma è un qualcosa di profondamente significativo per l’Universo stesso e per tutto il reale. Che attraverso di me si deve realizzare qualcosa e che nella libertà di adesione a questo io posso realizzarlo – o meglio, posso permettere che si realizzi, posso essere non artista ma appena strumento. 

Chiedo di capire che ho un ruolo e che la mia vita ha un fine.

Che posso realizzarlo, dicendo  – sussurrando appena – il mio “sì”.

Questo è il regalo che chiedo. Niente di meno. Non so come e quando arriverà e in che forma, in che pacchetto, con che bigliettino sopra, ma in fondo non è un mio problema. 

Il mio problema è appena un altro, e sta nel non dimenticarmi di chiederlo.

Questo auguro anche a voi, di cuore. Buon Natale.

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Nel freddo, una nascita

Nasce nel freddo. E vieni in una grotta al freddo e al gelo, canta il celebre inno.

Vuol dire tanto. Anche questo, che il freddo non è l’ultima parola. Vuol dire che il freddo, pur sentito, drammaticamente avvertito, non è conclusivo di nulla, non implica logicamente nulla, non delimita nulla in senso definitivo. Perché non può mai essere l’ultima parola. Meglio, perché non può evitare – anche il freddo più freddo – che l’Universo si pieghi alla categoria della possibilità, che debba piegarsi a questa legge. Che ogni momento possa accadere qualcosa di nuovo.

Dio sceglie quelle circostanze che possono mettere di più davanti ai nostri occhi chi è Lui e quale straordinaria novità può generare nel mondo. E questo dovrebbe rallegrare ciascuno di noi, perché significa che allora non c’è situazione, momento della vita o storia che possa impedire a Dio di generare qualcosa di nuovo (Juliàn Carron)

Photo Credit: AlicePopkorn via Compfight cc

Ci sono momenti in cui uno può sfidarsi a prendere certe frasi alla lettera. A me piace farlo con la frase di Carron appena riportata. Parlo di sfida perché il mio pensiero gravita sovente attorno ad una diversa attitudine, prevale spesso il già visto, il già saputo. Ma – mi dico – è solo una ennesima distorsione dell’ego, che resiste ad aprirsi alle infinite possibilità dell’esistenza, che trascendono allegramente noi e tutte le nostre ottocentesche riduzioni dell’imponderabile complessità del reale e del suo perenne scintillante mistero. Perché? Perché non ama perdere il controllo, non ama cedere. E non ama le sorprese.

E invece la suprema saggezza è cedere. Alle infinite possibilità nascoste, incorporate, in ogni situazione. Ogni freddo può svelare dolcissime sorprese, se accolto con pace, con pazienza. Come la neve il freddo custodisce, copre, prepara ad una nuova nascita.

Il Senso dell’esistenza, l’Essere, nasce nel freddo. Dove nessuno se lo aspetta.

Pensiamoci. Ora. Buon Natale.

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