Blog di Marco Castellani

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Quel volo di stelle

Conosci il respiro e
quel volo di stelle che la sera
riempie l’aria e ti lascia

sola, nello spazio stesso di quel respiro
sbigottita nella pace inedita
propria d’esser sola tra
quel pazzo flusso di astri, che ti inebria
d’orzo e grano il ventre.

Che poi solo il tuo sorriso lo sa,
lui soltanto lo sa il come ed il perché
le stelle volino, che qualsiasi

trito discorso le tirerebbe tutta a terra,
non splenderebbero più né mai ardirebbero
ancora, di volare.

Volan stelle solo, se il tuo sorriso le
tiene sempre per l’aria, il tuo dire e non dire che
c’è sempre questa via di gioia le mantiene
tutte slanciate nella loro corsa siderale, perché

alla fine è così proprio così, tutte le stelle
sempre ti guardano, ogni istante ti guardano
per sapere cosa fare per sapere se
un tuo dire di sì un tuo sorridere, le lascia esistere

ancora come sono,
ancora stelle.

Poesia inedita.

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Pineta

Una ragazza vestita di bianco

attraversa leggera

l’ombrosa pineta.

Gli alberi quasi a disegnare

volte ed arcate

di chissà quale antica civiltà,

sotto le quali lei procede,

silente.

Da "Come ogni altra cosa" (Lulu, 2009)

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Amazonia

In ultima analisi, il messaggio che ti viene addosso è lo stesso. L’urgenza di prendersi cura del pianeta più ospitale che abbiamo mai scoperto, ovvero il nostro. Identico messaggio, ma proposto in modo molto diverso. Forse per questo mi viene da mettere in relazione la bellissima mostra Amazonia, ora al MAXXI di Roma (rimane fino al 13 febbraio), con il film Don’t Look Up, di cui ho scritto di recente.

L’amazzonia raccontata dagli occhi di Sebastiano Salgado è prima di tutto poetica. Le grandi foto in bianco e nero scolpiscono i paesaggi della foresta immensa con decisi colpi di luce, giocano con i contrasti e con le ombre, per sgombrare il campo da ogni possibile indifferenza, annullare ogni diffidenza, azzerare ogni distanza.

Non importa cosa facevi, cosa pensavi, prima di entrare alla mostra. Certo, complice un allestimento pensato veramente bene. Un gioco di luci che valorizza al massimo le creazioni di Salgado. Complice anche la musica perfetta di Jean-Michelle Jarre. Dicevo, non importa nulla quello che eri e che facevi, tu adesso sei qui. Sei dentro la foresta amazzonica, sei circondato dal suo linguaggio, dalla sua poesia. Sei catturato. E questa è la vera poesia. Ti cattura, e basta. Salta tutti gli strati protettivi che hai costruito, punta dritto alle zone interne e avvia il dialogo, lo scambio dati. Punta al cuore, si sarebbe detto un tempo. Quello, comunque.

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L’opera della nostra guarigione

C’è sempre da stupirsi, di quanto un’opera di poesia, che sembra (a primo pensiero) quanto di più personale possa esserci, si possa rivelare inaspettatamente corale, posa dispiegare una sua potenzialità relazionale. Che certo all’inizio, non avresti detto.
No, affatto. Tu avresti pensato magari a lasciare questi tuoi versi in un cassetto, in un angolino di un hard disk, di un server di qualche grande azienda, in qualche Silicon Valley molto linda e molto all’avanguardia, dove tu incidi per un pezzettino, un pezzettino appena. Dove ci stanno le tue parole, riposano e respirano.
Poi la strada, sai. La strada. C’è la strada. Fatta di occasioni, di incontri. Quello con Marco Guzzi, intanto. Indubbiamente importante, per i tuoi anni recenti. Tanto che tu, vincendo la timidezza, avresti poi chiesto proprio a lui la prefazione per Imparare a guarire, il volume di poesie. E questa prefazione che c’è, ora c’è, c’è da tempo, ed è bella e solida e impreziosisce davvero queste pagine, le radicano più decisamente in un cammino di possibile guarigione, le restituiscono un accordo armonico di terapia, personale e forse anche un po’ comune. Che è poi quello che desideravi, quello che speravi.

Poi le cose ti sorpassano, e questa in effetti è (sempre) la tua unica speranza, che le cose appunto ti sorpassino, ti sorprendano e ti superino alla grande, e tu con tutte le immagini che hai di te, appesantito da tanti inutili pensieri, ecco, tu stesso rimani indietro. Ma sei felicemente indietro, perché se loro vanno avanti, va bene, lo sai che va bene. Va molto bene. Che diciamocelo pure, ormai è parecchio evidente, è chiaro, certo non sarai salvato per una tua abilità, per qualche tua guittezza, semmai, ma per una sovrabbondanza che arriva gratis (in allegra spudorata violazione di ogni regola di mercato) e che appunto ti sorpassa. E di molto.
Così dopo la lettura di Fabio Fedrigo di una poesia del volume, di cui hai già scritto, ora c’è questo altro regalo, la lettura che fa Pasqualino Casaburi di una particella dell’introduzione di Guzzi, e di alcune tue poesie (bella scelta, mi viene da dire).
Così mi scrive lui stesso,

Un filo sottile unisce le cose e tutte le creature. L’arte poi ha un suo particolare privilegio. Quello di lasciare dove passa una scia invisibile agli occhi, un’ armonia che RI-suona vibrando nel cuore. Quando le passi accanto succede anche questo. 

Pur non conoscendo Marco Castellani di persona (e poi, voglio dire, in questo periodo sarebbe stato oltremodo difficile che ciò fosse avvenuto) mi sono incontrato con il suo scrivere, ed è stato un colpo di fulmine. Il gancio è stato la sua vicinanza ai gruppi Darsi Pace, laboratori creati da Marco Guzzi, una persona alla quale mi sento molto legato per le affinità di pensiero. 

Dai testi poetici del filosofo e poeta Marco Guzzi è stato appena un passo per ritrovarmi dentro l’atmosfera dei versi di Marco Castellani. Ho apprezzato così il suo lavoro di astrofisico, lo studio della fisica dell’Universo, come territorio infinitamente esplorabile come del resto quello della sua poesia che mi si è presentata davanti un giorno, grazie ad una piccola raccolta dal titolo accattivante, Imparare a guarire

Ho trovato in quelle parole uno spiccato senso di profondità dell’essere ed allo stesso tempo la semplicità e la gratitudine di esserlo.

Questo mi ha portato a provare a far RI-suonare quelle parole con la mia voce per vedere le emozioni di ritorno. 

Dapprima ho fatto e riascoltato gli audio. Poi avendo saputo, tramite Elena, una mia amica di Roma, dell’iniziativa culturale ideata da Happening Cult ho provato anche io a fare un piccolo video con alcune poesie di Marco ed inviarlo alla redazione. 

Happening-cult in questo periodo di chiusura in casa ha creato questa vetrina di poeti in erba e non, ma anche di semplici lettori, che prestano la loro voce e diffondono ancora di più la bellezza della poesia. 

È stato un’esperienza nuova per me dovermi cimentare con la dizione (le pause soprattutto) ma soprattutto dover citare espressioni e parole che comunque fanno parte di un universo intimo. È per questo che non finirò mai di ringraziare Marco Castellani.

Vorrei correggere il tiro, solo per l’ultima frase, un po’ eccessiva magari. In realtà sono io a ringraziare Pasqualino, per la sua dedizione appassionata a questa piccola opera. Che nella misura in cui è la guarigione nostra, sorpassa e lascia indietro anche ogni valutazione sulla capacità poetica, essendo questi testi “a servizio” per un cammino.
Così che anche in questi periodi di chiusura, la realtà ti viene a trovare e ti stimola, ti porta ad una apertura inattesa. A uscire dalle tue private lamentazioni, e tornare a fare i conti con il noi. L’opera della guarigione è comune, è sociale, è politica.

E’ insieme, prima di tutto.

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La poesia ai tempi del Coronavirus

Non tutti i tempi sono uguali: se l’universo è in espansione, anzi in accelerazione, questo va da sé, ed ogni tempo è in fondo un tempo particolare. Secondo me, ci sono tempi particolarmente importanti anche per leggere di poesia. Non tutti i momenti sono uguali, anche per questo. I tempi particolarmente sfidanti, come è indubbiamente quello che stiamo attraversando, sono probabilmente quelli più adatti. Penso che i tempi in cui il senso di sopportazione per la retorica arriva al limite, sono sempre tempi di opportunità per l’espressione poetica.
Quest’ultima infatti è antiretorica per eccellenza (a parte la brutta poesia, ovvero la poesia mancata, la poesia che non è poesia). Nella poesia finalmente la parola è accudita, coccolata, protetta. Ogni singola parola, conta. In esatta salutare opposizione al diluvio di parole di questo tempo, dove si spinge sulla quantità forse per una percezione di difetto, di mancanza. Tutto il contrario nella poesia, dove anche tre parole contate si possono mettere insieme, con una tale alchimia segreta, che si pongono naturalmente in pool position per rimanere eterne nella storia della letteratura. Esempio facili ma importanti, possono essere Mattina, di Giuseppe Ungaretti, oppure Ed è subito sera, di Salvatore Quasimodo. La prima è stata giustamente definita come “uno dei componimenti più brevi dell’intero novecento”. Un uso quanto mai accorto delle parole, con un risultato splendidamente riuscito proprio nell’uso sapientemente ridotto di mezzi.
Foto di Eleonora Antoniella
E’ utile pensare in questo tempo, a risultati estremi come quello di Ungaretti. M’illumino / d’immenso, il testo di Mattina, sono appena quattro parole. Qui la potenza di fuoco della parola è evidentissimo: quattro parole, quattro parole bastano.
Quanto spreco di parole c’è adesso, quante parole ci buttano addosso i media? Da ogni angolo di casa connesso ad una sorgente informativa, fuoriescono a getto continuo tonnellate di parole. Alcune certamente utili, la maggior parte no. D’altronde, le parole utili sono pochissime, e quindi tale comunicazione è paradossalmente incomunicante.
Se già Nanni Moretti, in una celebre sequenza, urlava alla giornalista à la page che lo intervistava, che le parole sono importanti, lo faceva in ultima analisi per una rivendicazione poetica. La vera poesia usa con studiata parsimonia un ingradiente “magico”, la parola appunto, così che l’abuso ordinario diventa francamente intollerabile. Nelle parole il poeta tenta di dire il mondo, secondo come gli si rivela. Ogni sequenza di parole che mette in fila, è un tributo alla rivelazione del mondo, a come esso gli appare, oltre ogni razionalizzazione e normalizzazione. E’ il suo mondo unico e specialissimo, che per un mistero largamente insondabile, risuona anche nelle profondità di altre persone, di altri cuori. Creando un ponte misterioso e bellissimo tra universi che ordinariamente dispiegano i loro fiori (ed anche le loro spine), ad anni luce di distanza uno dall’altro.
La parole dunque sono materiale così prezioso che sprecarle appare intollerabile. Usarle male, è intollerabile. Depotenziarle, lo è. La parola che stordisce, che spinge sulla quantità e non onora la immensa pazzesca profondità di ogni vocabolo, è volgare, è pornografia verbale. E’ un gioco al ribasso, è pavimentare d’oro una strada per farla percorrere dai cani (niente contro i cani, ma non apprezzerebbero certamente lo sforzo e la spesa). La parola oggi, in questi giorni di clausura fisica e di media che fanno da surrogato al contatto umano, è spinta al massimo su questa deriva, è abusata, è trascinata su terreni dove non vorrebbe andare, è forzata ad un significato che non la rispetta, non la onora: è violentata, stuprata.
I diecimila talk show dove si analizzano all’infinito le coordinate esitenziali di questo tempo così peculiare, ripetendo all’estremo le cose che sappiamo già analizzandone in mille declinazioni, contaminando il silenzio necessario di parole rese inutili, disinnescate, sterilizzando alla radice ogni possibile percezione di un senso di mistero che pure ci avvolge, si pongono all’opposto esatto dell’espressione poetica, sempre molto cauta ed accorta sull’uso della parola.
Tornare a lavorare sulla parola è l’opera per uscire da ogni modello di universo stazionario ed abbracciare davvero lo schema evolutivo che anche lo studio del cosmo oggi ci suggerisce.
E’ un lavoro che ci attende, ci attende tutti, quello di ridefinire un dizionario, quello di restituire il carattere inaudito alla lingua, sottraendola da ogni incrostazione di già visto, già sentito. Per questo è opportuno, ora più che mai, riprendere a leggere poesia, a scrivere e leggere poesia.
E’ un lavoro che anche io voglio provare a fare ora, dentro questo tempo. Perché il vero terribile rischio di planare sul chiacchiericcio televisivo e di rimanere storditi, anestetizzati lì dentro, è quello di uscire da quest’epoca, esattamente come vi eravamo entrati. Dunque, vanificando e sporcando di inutilità anche una cosa enorme e drammatica come questa, che stiamo vivendo. Un rischio che mi spaventa, mi spaventa totalmente, che non vorrei proprio correre. Tornare come prima? No, non voglio, non ne ho voglia. Non mi piace l’idea, non mi piace l’ostinazione a dimorare in un universo stazionario, dove non cambia nulla e dunque il tempo alla fine è vano.
No, mi ribello! Mi piace invece respirare la primavera in corso e il germogliare di idee leggere ed ampie come il mare, come un mare azzurro e sereno di tante coste italiane, che orla ed adorna tanti miei ricordi, tanti nostri ricordi. Sentire la pace di un tempo che srotola un suo significato, un significato nascosto che a volte si fa strada fino al cuore e ti punge di un momento assurdo di felicità pazza, tanto eccentrico e fuori orbita che puoi vivere aspettando che ne torni un altro, e l’occupazione della tua vita allora è appena lanciare funi, agganciarle da uno di questi momenti al successivo, e percorrere il tuo tempo e il tuo spazio, fidandoti che vi sia un senso, scommettendo su un senso che irrobustisce il passo e rende solido il cammino. Anche se le funi scendono giù giù prima di risalire, verso l’altro aggancio.
E le parole che servono in questo viaggio sono poche e belle, poche e belle come la vera poesia che ci accompagna e ci parla di un mondo fatato, un mondo fatato che è decisamente troppo bello, in fondo in fondo troppo smaccatamente bello, per non essere anche vero.

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Adesso

Capita che una poesia, nel tempo, si scavi un suo sentiero. Si provi a vivere anche in altre forme, esplori altre modalità comunicative. Capita che una poesia sia così, rappresenti una occasione di relazione e dialogo, un pretesto per stabilire ponti, rinsaldare connessioni. Esplorarne di nuove, anche.
La poesia che si è data da fare, che si è scavata il suo sentiero, è stata Adesso, che compare nel volume Imparare a guarire (Di Felice Edizioni, 2018).

Un amico, è stato il tramite. Perché le cose vanno in questo modo, corrono lungo il filo di amicizie, su binari invisibili e forti, di reciproca stima. Usano questi canali, questi ponti meravigliosi e lucenti tra le nostre interiorità. Quelle nostre parti interne così spesso avvertite come chiuse, come ambienti senza finestre, senza comunicazione.
Il pensiero creativo è fatto così, è relazionale, direi coniugale per eccellenza. Tende sempre a mettere insieme, mai ad isolare. A far baciare le cose tra loro, non a metterle di schiena. Parlo di creatività e non specificamente di arte, per riposare su un termine che non spaventa (o spaventa di meno), e perché non mi sto riferendo tanto al risultato quanto alla attitudine.
Porsi in attitudine creativa è come iniziare a cucire. A cucire dei ponti. Primo, tra le parti interne di me stesso, lenendo ed unificando, ammorbidendo le asprezze, realizzando connessioni tra l’inconscio e la parte razionale, tra le varie parti di me che normalmente non vogliono parlarsi, non desiderano veramente coniugarsi, appunto, e ordinariamente si voltano di schiena. Secondo, tra me e gli altri. Ma è un movimento inevitabile: nella misura in cui sono più unificato, mi relaziono più naturalmente con l’altro, lo vedo meglio, e mi faccio vedere allo stesso tempo, in modo più autentico. Sono un pelo più tranquillo, abbasso le difese, permetto all’altro di entrare in me (se lo desidera), lasciando uno spazio più largo di accoglienza. E’ come dire, vieni, non ti verrà fatto del male. Frase che ci fa sempre bene ascoltare, che fa bene al cuore, alla pelle, al sorriso, agli organi interni. Rimette a posto un sacco di cose, dentro e fuori di noi. E lo fa (appunto) adesso, lo fa nel momento presente, nell’attimo preziosissimo che stiamo vivendo.
Fabio Fedrigo, che ho sempre ammirato moltissimo per la sua abilità con cui “interpreta” alcuni testi del poeta e filosofo Marco Guzzi, si è reso disponibile a questa avventura. Di Fabio, mi rapiscono totalmente le sue letture, della poesia L’ora della ricreazione, ad esempio. Ma soprattutto, quella. Se c’è una poesia dove sento l’interpretazione di Fabio come parte integrante del processo creativo, come componente imprescindibile della riuscita, è certamente L’ultima lezione. Estrae dal testo, ogni significato più nascosto, lo porta in evidenza in modo brillante, perentorio. Così perentorio che mi lascia senza fiato, alla fine. Il suo lavoro di scavo nelle parole mi arriva, come un dono.
Questa ampiezza timbrica ed espressiva di Fabio la sento presente anche nella mia piccola poesia. Aggiunge quel qualcosa che già legittima, a mio avviso, il passaggio della poesia dal testo al video, al multimediale. Non è più solo mia (se mai lo fosse stata), ormai è frutto di una collaborazione, è un’opera comune.
Un’altra amica, Antonietta Valentini, si è resa disponibile e ha messo a servizio la sua perizia nella gestione e montaggio video, accostando in modo elegante la voce di Fabio ad alcune immagini che ho scattato nel parco sotto casa, in tempi diversi.
Vi risparmio considerazioni riguardo il significato della poesia. Mi appare supponente ogni atteggiamento che voglia indirizzare la comprensione della propria (piccola, piccola) opera, privando così il fruitore di una libertà essenziale – quella dell’interpretazione personale – attraverso la quale partecipa come protagonista nella dinamica del processo creativo.
Spero che vi piaccia!

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Quel volo di stelle, oltre le parole

Le cose sono fatte di memoria e di novità, insieme. E’ come una filigrana tessuta insieme stretta stretta. A volte ci vuole solo questo, appena questo: un posto dove mettere le cose, dove sistemarle e farle respirare. Perché si intreccino con la vita, la vita di adesso, perché reagiscano con l’istante, lo fermentino e gli restituiscano profondità e spessore. In gioiosa rivolta contro la civiltà ultrapiatta che lavora a togliere, lavora a togliere colorito e sapore e a disperdere quella ultima carnalità infinita delle cose, che sola porta al respiro profondo e alla pace.

Ci sono cose belle, sì. Mi guardo indietro e vedo cose belle, in realtà vedo tante cose da qui, certo anche delle cose da sistemare, o meglio da lasciar respirare. Da tornare a guardare con occhi nuovi. E certe cose belle, che sono passate e passano nello scrivere, come architettura possibile, come possibilità non invasiva, risanante, ricostituente. 

Così ho pensato di aprire una piccola sezione, dove inserire piano piano alcuni testi, da qualcosa che è passato in alcuni libri, o anche senza passarci, è arrivata direttamente qui. Dalla stessa vita, dall’idea costante di sporcare il foglio con tracce di vita, di farlo per un desiderio di più vita ancora, ecco che arriva qui. Magari con qualche immagine, qualche disegno. Qualche collaborazione, innesco di relazione, possibilità di un cammino di guarigione. Cercando intrecci, modi per cui parole e immagini possano incontrarsi, possano baciarsi. 
Spesso le cose belle sono legate alle parole, per me. E’ strano, sono cose legate alla parole, ma a parole che cercano sempre di esondare da sé stesse. Il discorso di parole oggi è qualcosa di molto particolare. Ci affezioniamo sempre tanto, ai discorsi. E’ facile, viene semplice, con poca fatica. Rischiamo, in un certo modo, rischiamo di rimanere in un certo mondo. Un mondo dove le parole non dicono che sé stesse, qualcosa che è strutturalmente incompleto. Dove la parola amore rimane una parola, per esempio, e non si sporca di niente che abbia a che vedere con l’amore, quello vero. Quello che si riceve e quello che si dà, che è immensamente più bello e disordinato e profondo e sporco e slabbrato e doloroso ed incantevole, della parola amore. Dove perfino dire stelle ti mette comunque al sicuro dallo sperdimento del cuore e della pelle e della coscienza che ti può accadere sotto un cielo stellato. Ma no, tu usi le parole per distanziare il tuo corpo dall’accadere purissimo, per quella ultima paura di metterti in gioco, di giocare a vivere tra tutta l’irrazionalità magica che ti immagini, quando lasci la briglia, finalmente lasci correre, ti godi l’aria addosso e basta.

Oltre la parola, è l’immagine che ci guarisce… 

Dobbiamo svelare il gioco, dobbiamo tornare alla connessione tra parola ed immagine. Dobbiamo legare le parole al mistero perpetuo ed istantaneo del flusso del sangue nelle vene e delle pulsazioni periodiche dei tempi, della luna piena, del mestruo e della fecondità, del respiro del cosmo. Delle stelle in volo, adesso. Dal giorno e della notte, fuori da questa architettura artificiale di iperattività al neon, che non ci appartiene, che non ci soddisfa, che non ci rispetta.

Le parole da sole, sono così e a volte da certi usurati percorsi verbali sbuchiamo fuori e ci accorgiamo he non abbiamo toccato niente, e non ci siamo fatti toccare da niente. Così le parole sono sterili, tratteggiano un mondo senza carne, un mondo abitabile soltanto in apparenza. Infatti arriva il momento che ci accorgiamo di non farcele bastare, le parole, e stiamo male. Non ci stiamo più in questi confini, soffriamo. Un sorriso, uno sguardo, un tocco, un profumo, un odore, un corpo. Certe parole disegnano involucri vuoti, più ne costruiamo più sentiamo la mancanza di un pieno che ci sostenga. 
La civiltà televisiva è un fiume di parole, ma tutto rimane strutturalmente confinato in uno schermo piatto, asettico. Un sorriso di donna attraversa lo schermo ma è appena una manciata di pixel, lei non mi vede, non riorganizza il suo universo corporeo, per mia presenza. Non modula gli sguardi, la sua biochimica non ritorna a negoziare la tavolozza degli odori, il ritmo del respiro, per il fatto semplice d’esserci, insieme. Così gli schermi dei computer, le baruffe sui social, le dispute politiche e le foto dei piatti cucinati. I sorrisi per i follower. Manca carne e sangue in questo mondo virtuale, manca sempre di più. 
La parola che buca l’universo stesso al quale appartiene, è la parola poetica. Lo buca non perché è più capace, ma perché è più onesta. E dunque il passaggio è facile che si apra da sé, il passaggio in un cosmo diverso, più carnale. Dove dire una parole vuol dire quasi mangiarla, dire un’idea è assimilarla (sempre geniale Gaber, soprattutto quando cantava se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione), è farei conti con il nostro corpo, il nostro respiro. 
Insomma la parola onesta è quella che non nasconde, non nasconde il suo immenso bisogno. Il suo bisogno strutturale, cosmico. La poesia vera non nasconde mai il bisogno strutturale dell’uomo. Di amore, affetto, di senso, di essere salvato. Possiamo provarci a nascondere questo bisogno quotidiano, a volte così scomodo. Possiamo esercitarci in questo, ma ci allontaniamo da noi stessi, e dalla poesia. Lei, proprio non può nasconderlo questo bisogno. 
C’è un pieno da ricercare dietro le parole, oltre le parole, e le parole hanno senso quando ti lanciano oltre, ti spingono verso qualcosa che loro non ti possono dare, ti fanno da trampolino e si arrestano all’imbarco, al tuo imbarco verso il centro di te, verso le stelle, verso quell’ambito sacro dove le parole non arrivano.

E tu ritorni a guardarti amorevolmente, e le stelle ritornano tutte in volo. 

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Nominare le cose

La poesia è bella, è importante, mi dico, soprattutto per questo. La poesia prende sul serio le parole, le prende sul serio e le ama una per una. Il poeta smonta e rimonta un verso, ed è attento ad ogni singola parola. La rispetta, la onora. Anche una congiunzione, addirittura un carattere sospensivo, una virgola. Ecco, anche questa. Muovere un virgola in un verso a volte è cambiare tutto.
Il poeta ascolta le parole e ne estrae il succo, le mette insieme alle altre e controlla la miscela, gestisce l’alchimia. O almeno prova a farlo, perché poi la vera poesia, sfugge sempre di mano, esonda dai calcoli ordinari, acchiappa quell’aggancio di infinito che ha appena sfiorato e ci fa dimora, ci fa casa. Da lì si comunica anche ad altri, perché è irresistibilmente missionaria. E si realizza la magia, la rinnovata fratellanza tra gli uomini, legati dal comune anelito del cuore. 
Viviamo in una epoca diametralmente opposta alla poesia. La quantità di parole scritte è altissima (sui social, sulle reti di messaggistica), ma una gran parte di queste è utilizzata al minimo potenziale, è svilita, è prostituita. La parola così depotenziata è volgare, sempre volgare. E’ questa, a ben vedere, la vera pornografia. Perché è la più perniciosa: induce un pensiero parimenti depotenziato, servile, non libero. La vera poesia è liberante, non sopporta costrizioni ideologiche o morali, non le sopporta affatto.

Nacque il tuo nome da ciò che fissavi è il titolo del meeting di Rimini di quest’anno, ed è soprattutto un verso di una poesia di Giovanni Paolo II. Il segnale che raccolgo è positivo, confortante. In tempi di slogan e pensiero semplice, dove i cinguettii informatici di illustri ministri fanno a gara in inciviltà e nel rilancio del pensiero pigro, mettere un verso di una poesia a titolo di qualcosa, è andare in salutare controtendenza.

Come dice assai bene l‘articolo di Fabrizio Sinisi,  Tornare a nominare le cose, riscoprirne il nome, è un modo di sancire un nuovo inizio: è come nascere di nuovo. E cosa chiede il mondo d’oggi più di ogni cosa, se non il dono di poter rinascere? 

Abbiamo bisogno di un nuovo inizio, ne abbiamo sempre più bisogno. Ne abbiamo bisogno a livello personale e a livello sociale, in maniera inscindibile. Abbiamo bisogno di riprendere a sperare, di comprendere che erigere muri (dentro e fuori di noi), chiudere gli accessi (personali e nazionali), serrare i confini (di ogni tipo), non è la risposta alla sete di sicurezza, che è solo un ingabbiamento ulteriore nelle nostre paure e nella nostra solitudine. E chi fomenta tutto questo, giocando sporco sulle nostre paure e le nostre fragilità, non sta facendo un buon servizio, ai singoli e alla società.

La poesia è un superamento allegro e curioso, di ogni recinto… 

Abbiamo bisogno di un riscatto, di una ripresa. Diceva Don Giussani, alcuni anni fa, che abbiamo una sola legge: riprendere, ricominciare, risorgere. La poesia ci aiuta in questo, solo che le diamo udienza. Se accogliamo il suo modo di parlare al cuore, il nostro cuore si riapre, si allarga di nuovo. Possiamo ascoltare, di nuovo, il canto del mondo. E noi, di nuovo, respiriamo.

Ritorna bella e invitante, seducente e accogliente, la prospettiva di guarire, di ritrovare un modo e un mondo di rapporti più sereni, distesi, pieni ed appaganti. Ed il cielo ritorna a vivere dentro di noi, come recita il titolo della mostra su Etty Hillesum al meeting (e questa, a Dio piacendo, dovrò proprio contemplarla nella mia visita).

Etty non ha scritto poesie, che io sappia, ma il suo diario è un’opera incredibilmente poetica, e profetica anche. E’ un punto di partenza prezioso per ogni progetto di umanità nuova, che non eriga a sistema le sue paure, non le congeli dentro la vergogna di controversi decreti di sicurezza, ma le attraversi costantemente, slanciandosi verso l’ideale e la sua scintillante bellezza.

Non abbiamo bisogno di tanti discorsi, non c’è bisogno di retorica. Abbiamo bisogno di poesia, che è l’antidoto emozionante ad ogni sclerotizzazione ideologica, è una delle poche risorse per venire a galla dai discorsi, dai discorsi che non servono più.

Come già scriveva Alda Merini, nella lirica Ho bisogno di sentimenti,

Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

Il meeting (se uno non si fa imbrigliare dai discorsi, appunto, e dall’idea che si è fatta di Comunione e Liberazione, ma semplicemente procede ad occhi aperti e cuore allargato) è una splendida occasione di sperimentare una umanità in ricerca, aperta agli stimoli della modernità e affezionata al valore buono delle tradizione, ai valori della cultura e della solidarietà (cosa non troppo banale, di questi tempi). Ed è sempre propositivo, un calderone – anche a volte affastellato, piacevolmente confuso – di proposte perché si comprenda che una vita migliore, più umana, è sempre possibile.

E non si ottiene certo chiudendosi dietro un limite, ma attraversandolo continuamente.

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