Blog di Marco Castellani

Mese: Aprile 2012 Page 2 of 3

Lo Shuttle Discovery arriva allo Smithsonian National Air & Space Museum

Il Discovery e l’Enterprise faccia a faccia durante la cerimonia ufficiale di trasferimento dello Shuttle Discovery della NASA al Smithsonian National Air & Space Museum del 19 aprile 2012. Più di una dozzina di comandanti dello Space Shuttle Discovery, nonchè il senatore e astronauta John Glenn, hanno volato a bordo dello Shuttle Discovery nel 1998 e hanno partecipato alla cerimonia ufficiale durante la quale è avvenuta la firma sull’atto di trasferimento dello Shuttle allo Smithsonian National Air & Space Museum. Crediti immagine: Ken Kremer. Fonte UniverseToday.

Lo Space Shuttle Discovery, la navicella più longeva tra gli shuttle delle missioni della NASA, è entrata il 19 aprile 2012 nella sua ultima casa, al Smithsonian National Air & Space Museum, in Virginia.

Il Discovery ha assunto il suo nuovo “status” di reliquia in un museo, monumento alla promessa e ai sogni di gloria dell’esplorazione dello spazio, ispirando le future generazioni di esploratori spaziali che raggiungeranno confini che andranno ben oltre la comprensione attuale.

Il programma dello Space Shuttle si è concluso e le tre navette spaziali sono andate in pensione. L’ultima missione Shuttle, la STS-135, si è compiuta nel luglio 2011 e ha lasciato l’America senza i mezzi economici per lanciare degli astronauti nello spazio a bordo di una navicella e anche verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS).

Il Discovery è diventato proprietà dello Smithsonian Museum in modo definitivo con la firma del passaggio di proprietà dell’amministratore della NASA Charles Bolden al Museo durante una cerimonia pubblica tenuta il 19 aprile scorso presso lo Steven F. Udvar-Hasy Center dello Smithsonian Museum, a Chantilly, Virginia.

Lo Shuttle fa il suo ingresso al Museo insieme agli astronauti. Crediti: Ken Kremer.

“Oggi, mentre guardiamo indietro alla straordinaria eredità del Discovery, voglio anche guardare avanti a quanto il Discovery e la flotta degli shuttle hanno contribuito per renderla possibile” ha affermato l’amministratore della NASA Charles Bolden. “Mentre la NASA trasferisce gli shuttle nei musei di tutto il paese, ci stiamo imbarcando in un nuovo viaggio di esplorazione spaziale. Basandoci sull’ingegno americano e sulla conoscenza passata del come-dove, la NASA sta collaborando con il settore privato per fornire equipaggio e cargo alla Stazione Spaziale Internazionale e mentre sta realizzando il razzo più potente mai costruito per portare la nazione più lontano nel nostro sistema solare”.

Un’altra inquadratura dello Shuttle Discovery mentre fa il suo ingresso ufficiale allo Smithsonian National Air & Space Museum. Cediti Ken Kremer.

Il Direttore del National Air and Space Museum, Generale John “Jack” Dailey ha affermato che “il Discovery si è distinto come il campione della flotta degli shuttle americani. Nella suo nuova casa, brillerà come un’icona americana, educando e ispirando la gente di ogni età per le generazioni a venire. Il Museo si impegna ad insegnare e a ispirare i più giovani, in modo che possano salire la scala del successo accademico e scegliere professioni che aiuteranno l’America ad essere competitiva e a raggiungere il successo nel mondo del domani”.

Gli astronauti, che sono stati membri di equipaggio a bordo dello shuttle Discovery, lo accompagnano mentre la folla applaude e saluta il suo ingresso. Crediti: Ken Kremer.

Bolden e Dailey hanno firmato i documenti di cessione di fronte ad un’immensa folla accorsa per celebrare l’arrivo del Discovery.

La cerimonia di consegna ufficiale ha visto l’arrivo di oltre una dozzina tra uomini e donne che hanno preso servizio come comandante dello Space Shuttle Discovery compreso anche il senatore e astronauta John Glenn (il primo americano ad orbitare intorno alla Terra 50 anni fa nel 1962.

Glenn ha volato per la seconda volta nello spazio, a bordo del Discovery come specialista di missione, nel 1998 all’età di 77 anni. E’ stato la persona più anziana a volare nello spazio.

Per far posto al Discovery, lo Space Shuttle Enterprise è stato prima rimorchiato e poi portato fuori da una porta potestiore del museo, di buon mattino. Enterprise e Discovery si sono trovati così, per la prima volta, muso a muso, per la cerimonia ufficiale di benvenuto.

Lo Shuttle Discovery prende posto allo Smithsonian National Air & Space Museum il 19 aprile 2012. Crediti Ken Kremer.

Nel tardo pomeriggio, il Discovery è stato rimorchiato per venir posizionato nella sua collocazione definita dentro al museo, nel punto esatto occupato in precedenza dall’Enterprise, che si trovava lì dal 2003.

Complessivamente, il Discovery ha volato per 39 missioni trascorrendo un intero anno nello spazio (365 giorni). Ha orbitato attorno alla Terra per 5 830 volte e viaggiato per 148 221 675 miglia nel corso di una carriera spaziale che copre 27 anni.

Il volo inaugurale del Discovery è avvenuto il 30 agosto 1984 ed è decollato nel suo ultimo viaggio il 24 febbraio 2011. La missione STS-133 è stata l’ultima per la navetta, che è atterrata al Kennedy Space Center il 9 marzo 2012.

Il Discovery ha messo in orbita il famoso Hubble Space Telescope, uno degli strumenti scientifici più importanti e innovati mai costruiti dall’uomo. Il Discovery ha portato molti altri strumenti scientifici in orbita anche per l’esplorazione del sistema solare, tra cui la sonda spaziale Ulisse. Non ultimo, ha giocato un ruolo importante nella costruzione della Stazione Spaziale Internazionale e nelle missioni verso la stazione spaziale russa Mir.

Fonte UniverseToday: http://www.universetoday.com/94727/discovery-enters-eternal-smithsonian-home-as-historic-relic/

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Meno male che ci sono le supernove…

Meno male che ci sono le supernove, possiamo dire. Una cosa bella di fare interventi divulgativi (una delle cose che dovrei fare più spesso), è che sono costretto a cercare una sintesi, un significato specifico, un filo rosso, che unisca diverse nozioni e le presenti in forma più omogenea. Lo scienziato si specializza in un ambito specifico, al giorno d’oggi: non sempre – nel lavoro quotidiano – ha la possibilità di cercare una sintesi, un pensiero unificante. Che magari, invece, viene fuori parlando delle cose della scienza.

Così l’esposizione che ho chiamato “La fine delle stelle”, tenuta venerdì scorso presso l’Osservatorio Franco Fuligni, mi ha portato a ripensare alla straordinaria catena di “coincidenze” che rendono possibile la vita.

La bellissima Nebulosa Velo, è in realtà un “resto di supernova”. Crediti: NASA, ESA, and the Hubble Heritage Team (STScI/AURA)

Come il meccanismo con cui le stelle più grandi (diciamo, da una decina di volte il Sole in sù, tanto per capirci) emettono nello spazio la materia che hanno via via “costruito”, prodotta a partire dai mattoncini fondamentali consegnati loro dal Big Bang, ovvero idrogeno ed elio (e tracce di altri elementi, ma poca roba davvero).

Ci si rende conto facilmente, studiando l’evoluzione delle stelle, di come possano facilmente essere viste come delle efficienti “fabbriche” di elementi pesanti. Elementi assemblati pazientemente nel corso di milioni o miliardi di anni (almeno fino al ferro…).

Interessante scoprire come il tentativo di proseguire nelle combustioni nucleari, una volta arrivati ad aver prodotto il ferro, per la stessa natura di questo elemento, porti la stella ad imboccare una strada radicalmente diversa da quella tenuta fino a quel momento, precipiandola  in una furiosa catena di combustione degli elementi più pesanti, fino ad una deflagrazione (che possiamo ben dire “cosmica”) che diffonde in una ampia regione di spazio gran parte degli elementi prodotti.  In pratica, dopo averli costruiti, la stella ce li mette anche a disposizione. Per fare altre stelle, condensare in pianeti, e via di questo passo. Tutta colpa di questo ferro, che inaspettatamente (diciamo), una volta che brucia, invece di rilasciare energia, la assorbe. Immaginate, voi mettete benzina in macchina, fate magari il pieno. Poi ripartite fiduciosi, e quella invece di darvi energia, vi prende pure quella che avevate.

Ogni nostro atomo è passato dentro una stella. Così, dobbiamo la nostra esistenza anche ad altre stelle, a noi sconosciute, che sono vissute ed esplose in questa zona di universo, regalandoci tutti gli elementi che vediamo intorno a noi, e in noi stessi. Ne possiamo esser certi, qui c’erano altre stelle prima del Sole (sì, perché il Sole è ancora occupato – grazie al cielo – a convertire idrogeno in elio)…

Meno male che ci sono le supernove. E che il ferro ha questa sua fame di energia.

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La fine delle stelle…

Venerdì 13 aprile, sera. Arriviamo un po’ in anticipo, per preparare il computer e tutto il resto. La sala si è poi riempita piano piano, arrivava gente alla spicciolata. Verso le nove e un quarto eravamo una trentina di persone. Questo nonostante la serata fosse piovosa e la posizione probabilmente non sia comodissima da raggiungere. 
No dico, non vi piace il sottotitolo che ho trovato…?
Mi era stato chiesto da una amica di fare una presentazione di un’oretta, su un tema stellare. L’intento di trovare un tema accattivante, aveva prodotto l’idea di parlare de La fine delle stelle. In effetti raccontare la vita delle stelle con una enfasi particolare su cosa accade quando “muoiono”, mi pareva una cosa eccitante: la scoperta delle nane bianche (così straordinarie che per dieci anni non ci hanno creduto nemmeno gli astronomi, come si può leggere nella relativa voce di Wikipedia) e poi, proseguendo in un cammino di stranezze, le supernovae, le pulsar, i buchi neri… 

Quello che mi ha dato la carica, già giorni prima, è stato il sottotitolo che mi è venuto in mente (vedi a fianco). Mi sono divertito già da quel momento, ormai non potevo più tirarmi indietro… 
Torniamo a venerdì sera, comunque. Abbiamo iniziato e la saletta conferenze dell’Osservatorio Franco Fuligni (gestito dall’Associazione Tuscolana di Astronomia) era piena. Il clima disteso e l’interesse delle persone mi ha aiutato a vincere l’impaccio e l’emozione iniziale. Poi, è andata sempre meglio. Ogni tanto arrivava una domanda, a rassicurarmi sull’interesse delle persone e a farmi capire se il livello della spiegazione era adeguato all’uditorio. Siamo andati avanti fin dopo le dieci e trenta, senza che si addormentasse nessuno (…eroici) !
Ho anche avuto l’occasione di conoscere persone che avevo conosciuto sul web tramite l’esperienza di GruppoLocale, ed è stata anche questa una bella opportunità.
Confermo: mi sono divertito. Ho riscoperto il piacere di raccontare, che è sempre – se vogliamo – un modo per avere a che fare con le parole. In un modo diverso rispetto a quando si usano per raccontare una storia, una novella, un romanzo. Ma non troppo, in verità. Perché la scienza può essere vista lei stessa come una storia, l’universo come un romanzo che si svela piano piano. Un libro nel quale siamo sprofondati dentro a leggere. Abbiamo passato molti capitoli, ma davvero tanti ce ne rimangono davanti.
In realtà, da come la vedo io, è come se più andiamo avanti, più il libro si infoltisse da sè di nuovi capitoli (messi sempre in fondo, nella parte ancora da leggere). Più andiamo avanti più ci accorgiamo che c’e molto da imparare. Dico, mica li trovi dappertutto, libri che si allungano man mano che prosegui a leggere! Ogni risposta crea nuove domande, apre sporte su stanze che poco prima non ci accorgevamo nemmeno ci fossero. Sappiamo quando è nato l’universo, sappiamo quanto è grande, sappiamo molto anche sul suo destino ultimo: cose che quando io andavo al liceo non si sapevano affatto, o si sapevano con margini di imprecisione veramente enormi.

Eppure non sappiamo un mucchio di cose. Cose che prima non sapevamo nemmeno di non sapere. Come il fatto che l’universo è composto per il 99.6 % di … qualcosa che ancora non si sa! Quello che sappiamo, quello che conosciamo (stelle, pianeti, galassie…) è solo il quattro per mille di quello che c’è. Mica male come ignoranza eh? Ditelo a quelli che pensano che l’astronomia abbia in pratica scoperto tutto, che la scienza non abbia più cose da dirci. 
In realtà, negli ultimi anni, abbiamo risposto a qualche domanda fondamentale (come quelle citate) e nel contempo abbiamo aperto la porta su un orizzonte enorme di altre questioni, di interrogativi nuovi. Come sempre, la domanda arriva quando si comincia ad essere in grado di elaborare una risposta (potevi parlare di meccanica quantistica ad un fisico del settecento? Credo proprio di no…)
Così la scienza diventa interessante, per me. A me piace raccontare, e la scienza bisogna che pure lei si faccia raccontare, altrimenti mi annoio io prima di tutti. Bisogna proprio viverla e spiegarla come una storia. Anzi, come un romanzo di formazione, dove quelli che sono formati siamo noi stessi: noi tutti, scienziati o non scienziati che possiamo essere. Qualcosa che lasci spazio alla meraviglia.  Allora viene voglia di conoscere, di capire. E ci si diverte, a ricercare e a raccontare…

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L’impatto su Giove del 2009 studiato in maggior dettaglio

Nel luglio 1994 astronomi professionisti e non furono affascinati dalla Cometa Shoemaker Levy 9 che, dopo essersi frammentata in numerosi pezzi, penetrò nell’atmosfera del gigante Giove. Mentre questi impatti di nuclei cometari su pianeti sono estremamente rari, un secondo evento si verificò quindici anni più tardi, nel luglio 2009. L’oggetto responsabile dell’impatto del 2009 non fu osservato direttamente, così che i ricercatori hanno potuto fare solo delle supposizioni sull’oggetto caduto in base alle interferenze nell’atmosfera gioviana. Qui sopra, Giove nel 2009 dopo essere stato colpito dall’oggetto. Crediti: Infrared Telescope Facility, NASA.

Una nuova ricerca compiuta da Jarrad Pond dell’University of Central Florida e da un team di ricercatori dell’University of Central Florida e dell’University of California a Santa Cruz, ha lo scopo di aiutare a determinare l’oggetto responsabile dell’impatto avvenuto nel luglio 2009 che non è stato osservato in modo diretto. Non avendo un’osservazione diretta di quanto è avvenuto, i ricercatori hanno utilizzato delle simulazioni numeriche alla scopo di comprendere meglio l’oggetto responsabile dell’enorme disturbo prodottosi nell’atmosfera gioviana.

Utilizzando un codice di idrodinamica in 3D, il team ha modellato gli impatto di otto differenti oggetti (impattatori), in particolare di 0,5 e di 1 chilogrammo, con differenti densità e composizione (di tipo basaltico e di tipo ghiacciato). Utilizzando lo stesso angolo di incidenza (69 gradi) e la stessa velocità di impatto (61,4 km/s) il team è stato in grado di restringere la dimensione potenziale e la composizione dell’oggetto responsabile dell’impatto del 2009.

Confronto tra la distribuzione di densità atmosferica durante la penetrazione di due oggetti, uno simula l’entrata di un frammento della Shoemaker Levy 9 nel 1994 (a sinistra) e l’altro quello dell’oggetto del 2009. Crediti: Pond et al, 2012.

Confrontando i risultati delle simulazione dell’impatto del 2009 con le simulazione dell’evento della Shoemaker-Levy 9, sono state osservate delle differenze nello sviluppo del pennacchio. L’angolo di impatto del 2009 sembra aver portato ad una profondità inferiore come anche alla formazione di un pennacchio più piccolo e più lento nel suo sviluppo. Le simulazioni hanno rivelato che gli eventi con oggetti di 0,5 chilogrammi produtono pennacchi più piccoli e più lenti, mentri gli eventi con impattatori di 1 chilogrammo portano a pennacchi più grandi e più rapidi.

La struttura a forma di pennacchio nel caso dell’impatto del 2009. Viene riportata la velocità dell’impatto lungo l’asse x. In alto a sinistra l’oggetto di 0,5 chilogrammi è composto di ghiaccio poroso; in alto a destra invece è di un chilogrammo e composto di ghiaccio poroso; in basso a sinistra l’oggetto è di 0,5 chilogrammi di basalto poroso; a destra, di un chilogrammo dello stesso materiale. Crediti Pond et al., 2012.

Le profondità di penetrazione degli impattatori sembrano essere legate alla natura dell’impattatore stesso, ossia dell’oggetto della simulazione. Dato un angolo di impatto fisso, tanto più grande e più denso è l’oggetto che impatta tanto più profondamente l’oggetto penetra nell’atmosfera di Giove. Quando il team di ricercatori ha confrontato le conseguenze dell’impatto della Shoemaker-Levy 9 con quello del 2009 sono state osservate numerose differenze. I disturbi prodotti dalla Shoemaker-Levy 9 nell’atmosfera gioviana erano significativamente più grandi e più rapidi di quelli prodotti durante l’impatto del 2009.

In questa tabella sono riportati i vari oggetti utilizzati dal team nelle loro simulazioni. Crediti: Pond et al, 2012.

Degli otto oggetti modellati dalle simulazioni del gruppo di ricercatori, la maggior parte degli oggetti di 0,5 chilogrammi non ci permette di spiegare i disturbi osservati nell’atmosfera di Giove durante l’impatto del 209. Gli oggetti più piccoli sembrano non possano penetrare abbastanza da giustificare la presenza di ammoniaca osservata nella stratosfera del pianeta. Visti i risultati degli oggetti di 0,5 chilogrammi, il team è stato in grado di selezionare un limite più piccolo per quanto riguarda la dimensione e la stima della densità per l’oggetto impattato nel 2009. Sebbene la maggior parte degli oggetti di 0,5 chilogrammi non siano in grado di spiegare l’evento e siano stati  perciò scartati, in realtà un oggetto di basalto di 0,5 chilogrammi e tutti gli impattatori con 1 chilogrammo di massa sono penetrati abbastanza nell’atmosfera gioviana da raggiungere il livello delle nubi di ammoniaca allo stato ghiacciato nella troposfera.

Il gruppo di ricerca afferma che sono necessarie ulteriori simulazioni allo scopo di trovare dei vincoli nelle caratteristiche di impatto con parametri addizionali. Inoltre, il team afferma che bisognerà analizzare il trasporto di ammoniaca dall’alta troposfera alla stratosfera prodotto dai pennacchi.

Si spera che, con ulteriori ricerche, sarà possibile perfezionare il modello e trovare le cause dei disturbi atmosferici legati all’impatto del luglio 2009.

Il lavoro è stato pubblicato su The Astrophysical Journal: http://iopscience.iop.org/0004-637X/745/2/113 .

Fonte: “Numerical Modeling of the 2009 Impact Event On Jupiter”, Jarrad W. T. Pond, et al., ApJ, 745:113, 1 febbraio 2012, disponibile anche su ArXiv alla pagina: http://arxiv.org/pdf/1203.5356v1.pdf .

Per ulteriori informazioni: Un altro colpo inferto al pianeta Giove (2009): http://tuttidentro.wordpress.com/2009/07/25/un-altro-colpo-inferto-al-pianeta-giove/

Per volete leggere sull’impatto avvenuto nel 2010:

Un nuovo impatto su Giove (2010): http://tuttidentro.wordpress.com/2010/08/25/un-nuovo-impatto-su-giove/

Impatto su Giove (2010): http://tuttidentro.wordpress.com/2010/10/28/impatto-su-giove/

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Sul lungofiume…

Una delle fortune di vivere in questo posto dove vivo, è che si è nei pressi di un grande parco. Una possibilità di apertura e di meraviglia a portata di mano. Due secondi e ci sei dentro. Lasci tutti gli incastri e le tristi efficienze cittadine, e respiri del parco. Entri nel parco con i ritmi tuoi e subito scopri che ti devi arrendere, devi stare ai suoi ritmi, devi rallentare. 

Il parco dell’Aniene ha qualcosa di antico, di stabile nel tempo. Mischia foglioline e cespi erbosi con una storia che ti arriva addosso, anche se non la sai, non la conosci bene: ma non serve, perché la respiri. Ed é una storia che ti tranquillizza, ti ristora. 

Così quando arrivo, in bicicletta con Agnese, papà e bimba ognuno sulle sue due ruote (ma papà, la tua bici va più veloce perché ha le ruote più grandi?), nei pressi dell’Aniene, vedo le case dall’altra parte del fiume, sento addosso la gloria sommessa e florida di un pomeriggio romano di sole: sento una dolcissima pace del cuore, come preso da una bellezza, come davanti ad un bel quadro. Mi fermo a fare una foto e mi vengono in mente i quadri di Roma sparita. Anche da quelli mi viene incontro una dolce e contemplativa tranquillità. Come una pace data da radici solide, estese nel tempo. 
Roma sparita (ma presente nel cuore)

Certo, ammetto che le costruzioni intorno al fiume, perlomeno nel punto dove io e la vispa Agnese siamo arrivati, non hanno (probabilmente) niente di particolare. Eppure la combinazione tra il fatto di essere arrivati presso il fiume, il bel parco tranquillo – un verde acceso costellato di fiorellini gialli che avrebbe sicuramente destato l’interesse di un Van Gogh – i ricordi dei dipinti antichi, mi conquista. Ora il mio cuore respira per qualcosa: prima ancora di sapere per cosa, lui respira. Il cuore ti frega, fortunatamente: la mente analizza, razionalizza. Il cuore accoglie. E vince.

Sul lungofiume dell’Aniene…
La mente, appunto. Che cosa strana. Non è vera la misteriosa disillusione che tante volte attraversa la mia mente,   spaventandola. Basta essere qui per capirlo. Ma a volte non serve ragionare, serve semplicemente stare in un posto. E farsene prendere. E’ una legge della vita. Del resto, sono convinto che abbia guadagnato molto di più un personaggio “discutibile” come Zaccheo in un solo momento, a salire sopra un albero, rispetto a tanti dotti e sapienti di specchiata fama, che abbiano magari  speso la vita a interrogarsi su grandi questioni e su ponderosi testi…
Allora forse, vuoi vedere che questa cosa di stare più che cercare di essere, di cui ragionavo qualche settimana fa, ammette declinazioni anche minime, suscettibili di essere trovate in una gita di Pasquetta? La domanda è squisitamente retorica: se me lo chiedete, vi dico di sì…

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La Pasqua dei sogni

Ogni Pasqua è una ripresa. La Resurrezione è un conforto, per quanto uno si senta stretto oppure anche soffocato nelle contingenze della sua vita, c’è un messaggio che arriva attraverso tutti gli strati opachi. Si può ricominciare. Siccome il bene ha vinto, la positività assoluta della vita ha vinto, nonostante tutto, si può ricominciare.
A me capita questo. Di aver voglia di ricominciare, di seguire un ideale, un progetto, una vocazione, quando si ha questa percezione – anche indistinta, un po’ vaga – che la vita non è vana, che è ultimamente positiva, nonostante tutto. Cioè, che tutto il nonostante non è obiezione di niente. Nonostante il male, nonostante le mie cadute, i miei limiti, c’è Chi mi assicura che il male (mio e di altri) non è tutto. Che si può ridere e sorridere e anche fare le capriole, perché le cose finiscono bene. 
Allora sì che ho voglia di ricominciare. Allora sì che nonostante tutte le contraddizione e le incompiutezze che sento dolorosamente addosso, ho voglia di credere nei miei sogni, di investire energia per realizzarli.
Colors are the smiles of nature :) [Explored]
Disegniamo la vita con i nostri colori… è più bello così
Ecco cosa voglio per Pasqua, cosa auguro a tutti voi. Ricominciare a seguire i propri sogni, fare spazio al silenzio dentro di sé, per sentire a cosa Dio ci chiama, e incamminarci. Occhio e croce, questa mi sembra una vera fonte di soddisfazione, l’unica vera fonte di profonda soddisfazione. Questa mi sembra una maniera per combattere quel fastidioso senso di vuoto. Su questa vale la pena di investire. 
Cavoli, la vita è positiva: seguiamo i nostri sogni. Smettiamo di aver paura di noi stessi: mostriamo i nostri veri colori, sono quelli davvero interessanti. Buona Pasqua.

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Messenger scopre un satellite attorno a Mercurio

Il satellite naturale di Mercurio scoperto dalla sonda Messenger della NASA il 31 marzo 2012. Crediti: NASA/Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory/Carnegie Institution of Washington Immagine disponibile su: http://messenger.jhuapl.edu/gallery/sciencePhotos/pics/Caduceus%20Composite.png

In base alla data di pubblicazione dell’articolo, 1 aprile 2012, possiamo concludere che questo è un bel pesce d’aprile del team dii Messenger.  Al momento non vi sono satelliti intorno a Mercurio, anche se la sua superficie è fortemente craterizzata e quindi, in passato durante la sua formazione, dei satelliti “momentanei” devono esserci stati attorno al pianeta.  Ve lo propongo, con qualche giorno di ritardo.

Questa immagine è la prima prova che Mercurio ha un piccolo satellite naturale. Visibile come un punto luminoso, l’immagine è stata scattata il 31 marzo 2012 dalla Wide Angle Camera (WAC) a bordo del Mercury Dual Imaging System (MDIS) della sonda Messenger della NASA a circa 16 200 chilometri di distanza dalla superficie del pianeta. La luna è di circa 70 metri di diametro e orbita ad una distanza media di 14 300 chilometri. Un nome suggerito per questo satellite è Caduceus, o Caduceo, in onore al nome romano del dio Mercurio e tale proposta è stata presentata all’International Astronomical Union (IAU), che è responsabile dell’assegnazione dei nomi agli oggetti celesti.

Questa scoperta offre un’opportunità che non ha precedenti per prelevare dei campioni dal sistema di Mercurio come Nat Mac Rulf, Project Scientist della Missione Messenger, ha spiegato. “Dobbiamo ancora identificare un campione da Mercurio in una qualsiasi delle collezioni di meteoriti che abbiamo qui sulla Terra. Tale campione potrebbe permetterci di avere una visione critica della composizione chimica di Mercurio e dell’evoluzione nel tempo della sua crosta terrestre, portando ad una migliore comprensione di come il pianeta si è formato ed evoluto. Se riuscissimo ad ottenere un campione del satellite Caduceo, tale campione darebbe valore scientifico alla missione Messenger al di là di tutti i più fantasiosi sogni”.

Un progetto per un ipotetico rientro a Terra del campione di roccia del satellite di Mercurio è già in fase di progetto. Burt Panini, Project Manager della missione Messenger, ha tenuto una riunione urgente qualche giorno fa con il team che si occupa delle operazioni e della navigazione/rotta della Missione Messenger per capire se la sonda spaziale potrebbe venir inviata verso la nuova luna. Dopo un lungo e difficile dibattito, si è presa una decisione unanime: quella di abbandonare le manovre di correzione dell’orbita, in programma per i prossimi mesi che avrebbe dovuto posizionare la sonda in un’orbita con periodo di otto ore. Il nuovo piano prevede di utilizzare il rimanente carburante per far scendere Messenger sul satellite Caduceo. “La nostra analisi dettagliata ci dice che se operiamo ora con la giusta traiettoria, Messenger potrà impartire un un sufficiente momento alla luna per liberarla dall’azione gravitazionale di Mercurio e posizionarla in un’orbita che interseca quella terrestre sufficiente per il recupero di un meteorite di Mercurio” ha affermato Panini.

Questa azione costituirà la base di una nuova richiesta alla NASA dal team di Messenger per una missione avanzata, provvisoriamete chiamata “Messenger Infinitesimally Nudging Caduceus” (MIN-C). Una volta che MIN-C verrà approvato dalla NASA, la sonda sarà destinata per una traiettoria collisionale. Se il satellite di Mercurio, Caduceo, verrà con successo slegato dalla forza di attrazione di Mercurio e posto su una traiettoria in modo da raggiungere la Terra, possiamo aspettarci che questo piccolo satellite arrivi sulla Terra entro il 2014. “Il rischio per la popolazione è effettivamente piccolo” ha affermato Adam McJames, a capo della missione Messenger. “Abbiamo previsto un percorso che porterà questo satellite verso la Terra in una remota località ghiacciata, chiamataTerra di Wilkes, in Antartide. Questa traiettoria permetterà di evitare tutti i centri abitati e il sito dell’impatto della luna sarà in una posizione strategica, a portata di mano per il recupero da parte del personale scientifico della Stazione McMurdo americana”.

In caso di successo, la missione MIN-C di Messenger segnerà il primo successo riportato dell’arrivo sulla Terra di materiale dal sistema di Mercurio. Inoltre, servirà come base per una nuova classe di missioni scientifiche attualmente in sviluppo presso l’Applied Psychics Laboratory per una missione che si poserà su Mercurio per un’analisi in situ in raggi X della composizione della superficie. Questa missione verrà denominata Hermean On-s.urface Analysis with X-

Crediti: NASA/Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory/Carnegie Institution of Washington.

Fonte Messenger/NASA: http://messenger.jhuapl.edu/gallery/sciencePhotos/image.php?page=1&gallery_id=2&image_id=811

Sabrina

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Nuovi studi di depositi di argilla in vecchi laghi su Marte


La mappa mostra la posizione di 226 laghi antichi su Marte. Circa un terzo contengono ancora oggi dei depositi visibili di argilla. Crediti: Goudge, T.A., Head, J.W., Mustard, J.F. e Fassett, C.I./MOLA/NASA.

Marte un tempo era un mondo molto più umido di quanto lo è oggi, con sorgenti calde, fiumi, laghi e forse anche oceani. Quanto umido esattamente fosse e per quanto tempo lo è stato non è ancora possibile affermarlo con certezza. Un indizio fondamentale arriva dai depositi di minerali argillosi e dai sedimenti rimasti dopo che l’acqua scomparve e che sono ancora oggi visibili. Essi forniscono un valido punto di riferimento per analizzare com’era Marte in passato e per capire i motivi per i quali oggi il pianeta sia un posto freddo e arido.

Un team di ricercatori della Brown University ha appena completato un nuovo studio basato sui differenti letti di antichi laghi su Marte, in particolare con l’obiettivo di analizzare i depositi di argilla al loro interno, per cercare di capire quanti di questi laghi contengono ancora tali depositi  e qual è la loro composizione.

Che cosa possono dirci sulle condizioni del passato di Marte? Come può questo risultato influenzare la ricerca di prove di vita marziana?

In base a quanto è emerso, circa un terzo dei letti dei laghi esaminati ancora oggi mostrano prove di depositi di argilla. 79 letti di laghi su 226 totali studiati mostrano che tali laghi sono meno comuni su Marte che non sulla Terra. La ragione di questo risultato può essere trovata nel fatto che la chimica dell’acqua non era ideale per la conservazione dell’argilla o che  laghi dovevano essere di “breve durata”.

Le immagini di questo studio derivano dal Mars Reconnaissance Orbiter, dal Mars Odyssey e dal Mars Express della NASA.

I depositi di argilla sono diventati un obiettivo primario nello studio da parte dei rover marziali e dalle sonde in orbita attorno a Marte, dato che potrebbero conservare tracce fossili dei primi anni di vita, proprio come è accaduto sulla Terra. Anche se meno comuni su Marte, il fatto che queste tracce fossili possano esistere su Marte è davvero emozionante e c’è ancora molto interesse in questo ambito di ricerca e nei prossimi anni si continuerà a cercare. A prescindere dal sottosuolo, i depositi d’argilla sono i posti migliori per cercare queste prove di vita marziana. E’ anche possibile che degli ulteriori depositi siano stati sepolti sottoterra e forse basta solo che vengano scoperti.

Il rover Opportunity della NASA è attualmente molto vicino ad un tesoro ricco di argilla nel cratere Endeavour, e ci si aspetta che possa continuare il suo lavoro dopo la fine del suo periodo di “ibernazione”, che si concluderà nei prossimi mesi. Il rover Curiosity, in rotta verso Marte, verrà a posarsi sul cratere Gale il prossimo luglio, dove ci sono anche dei depositi di argilla vicini alla base di un picco montuoso al suo interno. Il cratere Gale è ritenuto essere un altro sito di un ex lago marziano.

L’articolo recentemente apparso su Icarus (2 marzo 2012):

“Ananalysis of open-basin lake deposits on Mars: Evidence for the nature of associated lacustrine depositsand post-lacustrine modification processes”, Timothy A. Goudgea, JamesW. Heada, John F. Mustarda, Caleb I. Fassetta; Icarus, 2012; disponibile su: http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0019103512000759?v=s5

Sabrina

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