Blog di Marco Castellani

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Musica e rivoluzione

Cosa vuol dire rivoluzione? Cosa ha voluto dire per noi, in Italia, negli ultimi decenni del secolo scorso? Cosa vuol dire adesso? E soprattutto, innanzitutto: vuol dire ancora qualcosa?
 
E’ un modo di dire che evoca nostalgia, o risentimento, o comunque rimanda alla memoria di un tempo che fu, di speranze che furono, e che adesso comunque non sono più? In altri termini, rivoluzione vuol dire nostalgia, alla fin fine?
 
Oppure c’è dell’altro?
 
 
Leggo dalla quarta di copertina del libro di Marco Guzzi, Fede e Rivoluzione, una frase di Papa Francesco,

 

Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano!

Ora, lungi da me spiegare le frasi del papa, ovviamente. Dico solo, registro, quante suggestioni mi evoca questa frase. L’apparente incidentale in questo tempo — ecco— è soprattutto quella, che mi scombussola. Detto in maniera spiccia: il massimo rappresentante in terra della fede cattolica (una delle prospettive spirituali più seguite, comunque la si voglia pensare), mi avverte non solo che la rivoluzione mi compete in quanto cristiano, ma anche che mi compete ora. E mi compete così tanto, che se disattendo questa chiamata, la mia fede stessa è in qualche modo snaturata — non sarei davvero cristiano.

Mi interessa questo. Mi interessa capire perché.


E mi interessa soprattutto che cosa è e che può essere questa rivoluzione che proprio ora, proprio quando è stata ormai abbandonata dal mondo politico e sociale (perdonate la semplicità grossolana del ragionamento, ma si fa per capirci), diventa interessante e anzi quasi obbligatoria per me cristiano.

Fate caso. Non si parla quasi più di rivoluzione, non è tanto più di moda — fa effettivamente molto nostalgico, molto vecchia guardia. Si parla di riformismo, federalismo, costituzionalismo, e ogni altro ismo che volete, ma non di rivoluzione.

Allora vado a pescare nei miei ricordi di infanzia e adolescenza. Sì, quando ancora la rivoluzione era parlata, discussa, bramata, temuta, agognata, urlata. Una rivoluzione politica, certo, ma spesso così ardentemente sperata, da assumere connotati limpidamente extra-politici: di liberazione totale dell’essere umano da ogni schiavitù, non solo economica.
 
Ripercorro questi ricordi aiutandomi con le canzoni.
 
Già. Una canzone, più o meno riuscita, è una spugna, raccoglie gli umori che circolano — li prende dall’aria, nel momento della sua scrittura— li cristallizza, li richiude nell’ambra delle sue note, e ce li può riproporre, come una istantanea sonora di un dato momento storico. Spesso, se è ben fatta, di umori ne raccoglie parecchi.
 
Vediamo un po’. L’idea che il mondo stia cambiando in maniera radicale, che vi sia una energia nuova nel fare ogni cosa, è benissimo descritta — tra i molti— nel brano di Eugenio Finardi Musica Ribelle (1976). Brano che qui vi propongo nella eccellente rivisitazione con Ivano Fossati
 

Una rivoluzione come risposta ad un disagio esistenziale, come risposta compatta, credibile.

Anna ha 18 anni e si sente tanto sola
ha la faccia triste e non dice una parola
tanto è sicura che nessuno capirebbe
e anche se capisse di certo la tradirebbe…

Ma da qualche tempo è difficile scappare,
c’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare
è dolce, ma forte e non ti molla mai
è un’onda che cresce e ti segue ovunque vai…
E` la musica, la musica ribelle

Ed è come l’apice di una parabola assai stretta, assai veloce tanto nel salire quanto nel tornare giù. Esaltante e al contempo velocissimamente smentita dai fatti — slabbrata, smembrata e inaridita dal corso stesso del reale (i fatti sono testardi, come si dice). Una utopia subito illuminata da una luce fredda, dalla constatazione amara ed un po’ stordita di un fallimento. Così lo stesso Finardi arriva molto presto a Zerbo, di tono completamente dissimile.
 
Sì, siamo nel 1979, appena tra anni dopo.

Che cosa è accaduto? Che la parabola si è compiuta, quello che sembrava un progetto realizzabile si mostra in tutta la sua struttura di mito. E come dice la canzone…
Il mito era crollato / perso nei calci ad un pollo surgelato…
Così l’idea di rivoluzione, intesa in una orbita completamente razionale e politica, mostra una drammatica ed irredimibile inattualità.
 
E nel raffreddarsi del mito, anche ci ci ha creduto si ritrova quasi ad impersonare una parte, in cui una parte di lui non crede più.

… divento soltanto
un uomo navigato;
a dritta nostromo
il sogno è già passato.

Il tempo ha mostrato anche quali fossero i veri limiti di questa tentata rivoluzione. La riflessione pacata delle persone più attente aiuta a definirne i veri contorni, svaporati da quella utopia che intossica e inquina il giudizio.
 
Dalle parole di Aldo Brandirali, fondatore di “Servire il popolo” (persona dunque che con il concetto di rivoluzione ha qualcosa a che fare…) c’è una chiara consapevolezza di questo che stiamo dicendo:
Noi subivamo certamente l’attrattiva fortissima delle grandi ideologie e delle grandi e nuove tematiche mondiali. Sperimentavamo perciò una continua propensione a vivere all’interno di un noi, ma con un difetto fondamentale: non avevamo la capacità di dire io, non pensavamo alle nostre esigenze in quanto singole persone. In atto c’era una fortissima e inconsapevole massificazione. I giovani di oggi invece affermano prima di tutto il proprio ‘io’, e questo è un gran vantaggio sotto un certo punto di vista, ma non sanno cosa significhi giudicare le proprie esperienze. Quindi è come se conducessero una sorta di lotta con il niente. Quello attuale è, a tutti gli effetti, un ribaltamento esatto della nostra situazione di allora. Noi avevamo un ‘troppo pieno’ che ci soffocava, i ragazzi di oggi hanno invece un ‘troppo vuoto’ che non li fa crescere.
C’è qualcosa che non si è compiuto, dunque. O meglio, non si è riuscito a compiere nella forma che sembrava dovesse assumere. E’ una sorta di morte, in un certo senso. Da una certa prospettiva.

Stupisce che già nel 1975, peraltro, certi sintomi di problematicità ci fossero già tutti. In realtà già tutto era compiuto, come è evidente in questo bellissimo brano di Juri Camisasca, qui cantato insieme con Franco Battiato.
 
Il brano di Camisasca, invero, ha un respiro ben più largo, e affonda la sua ragion d’essere in un sogno utopico di cambiamento che va al di là dell’espressione politica come l’ha assunta in Italia, ma si riferisce più marcatamente al fenomeno di liberazione che era strettamente connesso all’espressione musicale, ai grandi concerti.
 
Era quel finire degli ’60 che lo aveva portato alla sua massima espressione, al punto di sfolgorio davvero abbagliante. Il nome Woodstock viene come inevitabile, insieme alla bellissima canzone di Joni Mitchell, cantata da Crosby Still e Nash & Young. Siamo nell’anno 1970.
 

Vedete. Ancora il sogno è intatto, è quasi sfavillante nella meravigliosa utopia…

By the time we got to Woodstock
We were half a million strong
And everywhere was a song and a celebration
And I dreamed I saw the bomber death planes
Riding shotgun in the sky,
Turning into butterflies
Above our nation…

Nel 1970 si può sognare che i bomber death planes, quei giganteschi bombardieri portatori di morte, si possano trasformare in farfalle. Si può ancora fare.
 
Rientrando nel nostro territorio, e ritornando al 1975, anche Edoardo Bennato riesce a fotografare bene questo senso di disillusione che permea l’espressione collettiva, come un qualcosa portato avanti senza più convinzione. E’ dello stesso anno quel Feste di piazza che rivela lucidamente l’inaridirsi di un sogno, consumato dalla sua stessa sempre più plateale irrealizzabilità.

Non stupisca l’andamento temporale apparentemente contraddittorio, rispetto al primo brano di Finardi. C’è infatti un magma, che rende gli anno ’70 così anche difficili da descrivere, in cui convivono — con un certo attrito — sia ancora gli impulsi progressivi che i sintomi di una caduta e di uno scoramento, che si sarebbero poi consolidati negli anni seguenti.
 
Certo il discorso potrebbe continuare avanti per molto, con altri innumerevoli esempi musicali. Non mi interessa però tanto essere esaustivo (ci vorrebbe un intero libro, o più di uno), ma tracciare appena un percorso. Uno dei possibili, moltissimi percorsi. Quello che mi è venuto alla memoria, ripensando ad alcuni brani conosciuti, appunto.
 
Facciamo un salto in avanti, arriviamo alla fine del 1983. Già da questo punto di osservazione si può vedere il decennio passato, sotto un angolo che consente quella visione globale, che sempre viene a mancare nella descrizione del presente. E’ sempre Franco Battiato a regalarci una gemma come il brano Un’altra vita, dentro l’album Orizzonti perduti.

E si arriva sempre più vicino al punto, al punto nevralgico di tutto.

Sulle strade al mattino
il troppo traffico mi sfianca;
mi innervosiscono i semafori e gli stop,
e la sera ritorno con malesseri speciali.
Non servono tranquillanti o terapie
ci vuole un’altra vita.

e la sera ritorno
con la noia e la stanchezza.
Non servono più eccitanti o ideologie
ci vuole un’altra vita

Stupisce la lucidità di questo testo, che in poche parole racchiude la sapienza di infiniti testi e di tantissime analisi sociologiche. L’uomo di oggi si frammenta tra tranquillanti o terapie, eccitanti o ideologie, dove manca un aggancio con qualcosa d’altro, con una rivoluzione sotterranea perenne. Che non è quella dei figli dei fiori, né quella dei collettivi o del proletariato giovanile.
 
Dunque? Ci fermiamo sulle ultime parole delle canzone: ci vuole un’altra vita.
 
Semplice così. E difficilissimo. Siamo alla fine del post ma abbiamo appena lambito un territorio vastissimo.
 
Perché allora — dismesse le speranze di una rivoluzione esterna che avrebbe accordato il mondo con la disposizione interna del cuore, ci si accorge che il movimento è, magari, l’esatto contrario. Che probabilmente ci vuole anche una rivoluzione interna, un’altra vita, per guardare il mondo in modo diverso e probabilmente, per potervi incidere davvero.
 
Forse tutto quanto è accaduto ha un senso. Non ci credo alle vie sempre dritte — credo che a volte gli errori sono necessari per imparare davvero qualcosa. Spesso sono necessari.
 
Forse dovevamo provare tutte le possibili rivoluzioni, per capire veramente qual è quella da perseguire. Cos’è questo essere rivoluzionari in un tempo come quello che stiamo vivendo, se non riconnettersi a livello profondo con la propria interiorità, sovente così trascurata. Ciò che c’è dentro è più importante di quel che si vede fuori. Ciò che c’è dentro, modula la modalità stessa di percezione del reale.
 
Le tradizioni più profonde lo sanno da millenni. I loro rappresentanti ce lo ricordano in maniera instancabile.
La rivoluzione dunque parte dall’interno, dal cuore. Il moto è verso l’esterno, e non verso l’interno, come propongono le rivoluzioni esteriori.

Il Principio Attivo, se possiamo dire così, è dal cuore che parte, che inizia.

Dunque, non è sbagliato tentare di cambiare il mondo. Anzi è una esigenza insopprimibile del cuore umano. Rinunciarci vuol dire ammalarsi, di quella tristezza globale che a volte sembra pervadere tutto e tutti.
 
Non bisogna rinunciarci, no. Se un modo era sbagliato, o magari incompleto, non era il fine ad essere sbagliato, o inesistente.
 
E allora, forse forse, la mestizia da rivoluzione mancata, il disorientamento, è comprensibile, ma non inevitabile. Se ne può uscire.
 
Era in fondo, appena un passaggio.
 
 Era questo, azzardo. Era che dovevamo collimare i fasci, arrivare ad un diverso assetto, ad una coscienza più compiuta-— comprendere che c’è da fare un cammino personale e cosmico insieme. Che adesso possiamo essere ben più ambiziosi di quanto eravamo negli anni ’60 e ’70— possiamo operare nel creare una rivoluzione reale che si connetta ad un Principio Attivo Perenne, che è nella storia e la trascende allo stesso tempo.
 
E che in questo tempo, proprio adesso, si può essere — davvero e compiutamente — rivoluzionari.

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Il ritorno

Un viaggio, degli incontri. Una avvenente collaboratrice, un misterioso e autorevole scienziato. La possibilità inattesa di un ritorno a casa, di una discesa a picco nell’istante presente. Luca è ad un punto di svolta, un punto critico: nella vita, nel lavoro e negli affetti. Ora è chiamato ad affrontare i propri fantasmi, per riscoprire un cuore vivo.

“La questione è proprio semplice, Luca”, abbassò gli occhi, e in quel momento mi sembrò seducente come non mai. “Io sono nella mia storia, Luca. Lo sono ora come lo ero quando ci siamo conosciuti, tanti anni fa, quando ero appena una ragazza. Anzi, sono assai più nella mia storia ora di quanto lo potessi essere prima. Nella mia vita c’è una strada. Una possibilità sempre aperta di gioia, di essere abbracciati….”

Il mio primo romanzo è disponibile per l’acquisto su Internet in forma cartacea e digitale. Il primo capitolo è disponibile per la lettura gratuita attraverso il portale Wattpad.
La trama si dipana tra Roma, Monaco di Baviera e Parigi, integrando la suggestione dei diversi luoghi come attore partecipe delle vicende stesse del romanzo.
“Che visione stupenda! Basta guardare, alle volte, mi dissi, guardare fuori, intorno.
Avere occhi per guardare le meraviglie del mondo.“
Il tutto avviene sotto gli occhi del lettore, sempre a stretto contatto con una colonna sonora che si integra organicamente con lo svolgimento, chiamando idealmente chi legge a partecipare anche attraverso la magia del suono, e attinge ad una seri di brani (italiani e stranieri) che copre un ampio intervallo di stili e di epoche.
La playlist (in corso di sistemazione su youtube) comprende i diversi brani della colonna sonora del romanzo, nell’ordine corretto. L’avvicendamento dei brani può sembrare privo di un vero nesso logico, ma (vi garantisco) è pienamente comprensibile attraverso la lettura del romanzo.

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Il piacere di scrivere

C’è tutta una letteratura riguardo il modo di farsi pubblicare, le strategie da adottare, quello che bisogna sapere e quello che bisogna fare. Spesso con ottimi prodotti, anche con molti spunti di buon senso, e suggerimenti validi. Ritengo però che vi sia un rischio, in tutto questo, che è quello di sentirsi realizzato solo a valle di una consacrazione da parte di un editore vero e proprio.
Questo, anche se comprensibile, fa a botte con una serie di ragionevoli evidenze. Che ripercorro qui, intanto per mio uso personale.
Innanzitutto. Gli editori sono imprese fatte per trarre profitto, non sono enti benefici che si occupano di mettere in luce chi lo meriterebbe ma per qualche crudele caso del destino, ancora è in ombra. Se non mi pubblicano non vuol dire (necessariamente) che io non sono bravo, vuol dire che loro non pensano di poter trarre abbastanza soldi dal mio lavoro creativo.
Il che ci sta. E’ loro diritto. Io, scrittore, non ho il diritto di lamentarmi. Di gridare al genio incompreso, o peggio, di ammantarmi di questa aurea, indubbiamente romantica, ma anche un po’ patetica.
Perché cela una sottile pretesa, tutto questo. Che gli altri si “debbano” occupare di me. L’unico che si deve veramente occupare di me sono io stesso.
Sì. Devo avere cura della mia vita, delle mie relazioni con gli altri e con me stesso, del senso che sto dando alla mia esistenza, o che gli voglio dare. E’ chiaro. Gli altri non mi devono niente: hanno la loro vita di cui occuparsi, di cui rispondere. Se poi si intreccia con la mia, con mutuo vantaggio: ben venga. Ma è utile dissipare le sottili pretese che a volte si possono insinuare nel rapporto con gli altri, e quindi anche con gli editori.
Dunque nessuno “mi deve” qualcosa, per il semplice fatto che ho scritto.
Per dirla chiaramente: se adesso non mi pubblicano, non vuol dire necessariamente che il mio lavoro non è valido. E ancora. Se anche scrittori ora famosissimi, hanno passato anni ed anni collezionando rifiuti, come posso pretendere io a priori qualcosa di diverso?
Devo dirlo. E’ stato una recente chiacchierata con mia moglie che mi ha aperto gli occhi (le mogli servono anche a questo, ad aprirti gli occhi). Sì, mi stavo lamentando del fatto che un mio progettato volume di racconti, che sembrava — in un primo contatto— potesse essere apprezzato da un buon editore, non aveva avuto ancora riscontri concreti. E sì, avevo già innestato la litanìa dello scrittore incompreso, lo ammetto.
Piccolo e nero, per giunta.

E’ stata lei che con femminile felice intuito, mi ha ricondotto al nucleo della faccenda. E mi ha fatto delicatamente vedere che la mia posizione in questo caso era una posizione malata. Certo: dietro una serie di considerazioni apparentemente sensate, stavo semplicemente e sottilmente pretendendo che gli altri si occupassero di me, nel modo e nelle forme che decidevo io. In altre parole, avevo stabilito un trattamento al quale i miei racconti avrebbero avuto diritto, in forza del loro valore (giudicato da me e poche altre persone, anche se qualificate) e dunque mi stavo lamentando perché non ero trattato nel modo che mi era dovuto.
Ma accidenti, a me non è dovuto proprio niente.
Che liberazione riconoscerlo! Che libertà!
Può essere che siano racconti bellissimi e che per una sfortunata combinazione di eventi non saranno mai pubblicati da una vera casa editrice. Può essere invece che domani mattina mi telefoni il primo editore italiano, che non vede l’ora di pubblicarmi, offrendomi subito una cifra a sette zeri (ma con un numero davanti) per accaparrarsi l’esclusiva del primo libro. Nessuno dei due casi può essere escluso con sicurezza matematica (per quanto il secondo mi appaia un pelo più improbabile).
In ogni caso non cambia la faccenda, nel suo nucleo.
E il suo nucleo è: mi sto appena lamentando (indulgendo dunque in uno sport molto molto praticato), o invece sto facendo il possibile per emergere come scrittore? Che faccio, mi fermo davanti ad una (dieci, mille) difficoltà, o ne prendo spunto per radicarmi in me stesso, riprendere fiducia nei miei obiettivi, purificare la mia vocazione (se la ritengo tale) da fattori esterni? A me la scelta, che è una scelta di ogni momento.
Io non posso controllare gli altri. Nè devo.
Posso solo chiedermi: sto facendo veramente tutto il possibile per seguire il mio sogno? Per onorare la mia vocazione?
Non mi deve interessare altro. Punto.

Anzi no; punto e virgola.

Perché c’è un’altra cosa, un’altra tentazione sotto. Che io aspetti un riconoscimento ufficiale, come un permesso per seguire il mio sogno. Come dire “ecco, vedi, mi pubblicano, quindi finalmente posso scrivere davvero”.

Come se temporeggiassi, ultimamente, nell’attesa di ricevere un permesso da qualcuno.

Eh no. Qui l’unico che mi deve dare il permesso, ancora una volta, sono io stesso.

Scrivere, in sintesi, non è farsi pubblicare (non lo è mai stato, e soprattutto ora, nell’epoca del web che sta cambiando un po’ anche il concetto di editoria tradizionale). Scrivere è una scelta — per chi si sente chiamato — è una decisione personale non legata a nessuna contingenza esterna, è abbracciare un nuovo modo di vedere il mondo e sé stessi, è un intimo assenso ad una istanza irreprimibile radicata nella profondità di sé stessi, è un dire sì alla vita, è cedere.

Ma questo, chiaramente, è un altro discorso.

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Tre domande a… LICIA TROISI

Licia Troisi non ha bisogno di molte presentazioni, e non è certo un modo di dire. Scrittrice fantasy in assoluto tra le più note in Italia (e diffusa anche all’estero), autrice della saga del Mondo Emerso, di Pandora, e molti altri libri che sono diventati autentici best seller, e che contano ampissime schiere di appassionati lettori. Non potete gironzolare in una libreria italiana senza incontrare i suoi volumi, riconoscibili fin dalla grafica  – sempre molto curata  – delle copertine. Arriva adesso in libreria il suo primo libro divulgativo, Dove va a finire il cielo.

LiciaTroisiEcco: forse non proprio tutti sanno che Licia Troisi è anche e prima di tutto una scienziata. Il percorso scientifico è stata infatti la sua prima attività, tanto che si è definita qualche anno fa una astrofisica che scrive fantasy: così titolava un post per il Carnevale della Fisica #27 ospitato proprio su questo sito.  Un percorso di tutto rispetto, peraltro. Si è laureata in Fisica con specializzazione in Astrofisica nel 2004 all’Università di Tor Vergata, con una tesi sulle Galassie Nane (quante cose in comune, cara Licia…)  e ha lavorato tra l’altro presso l’Osservatorio Astronomico di Roma. Domani sera (venerdì 11) sarà proprio in Osservatorio per presentare il suo ultimo libro, Dove va a finire il cielo (e altri misteri dell’universo). Un libro diverso dalla sua produzione “tradizionale”, dove Licia attraversa la sua passione per l’astronomia, facendone – se possiamo dire così – un racconto.

La figura stessa di un astrofisico che sia a pieno titolo nella produzione letteraria, è per noi e per il tipo di approccio alla ricerca che promuoviamo (come un sapere amico e in continuo e produttivo interscambio con gli altri modi di fare cultura) una persona di grande interesse, perché lavora – direi quasi inevitabilmente – a colmare questo divario ancora esistente tra due modi di fare cultura, residuo di uno schematismo talvolta ancora propagato nei media e nel sentire comune, ma ormai (grazie al cielo!) senza più alcuna vera ragion d’essere.

DoveVaCieloAbbiamo dunque approfittato della gentile disponibilità di Licia, per porle tre domande, sui temi che più ci stanno a cuore. Qui di seguito potete leggere la piccola intervista: piccola credo nell’estensione, ma di grande interesse. Proprio per quello che arriva a dire su letteratura e scienza, l’Autrice di Dove va a finire il cielo.

La nostra prima domanda, per un libro sul cielo, è abbastanza.. terra terra: puoi dirci quando hai maturato l’idea di scrivere un libro divulgativo? Soprattutto, ci piacerebbe sapere se è – diciamo – la realizzazione di un antico desiderio o se solo di recente hai definito i contorni specifici di questa impresa, e che fattori (interni o esterni) abbiamo giocato nella decisione.

Era una cosa che volevo fare da un po’ di tempo, almeno cinque o sei anni come idea più concreta, ma forse anche da prima. In effetti con la divulgazione scritta mi sono un po’ cimentata sul mio blog, sul quale per qualche tempo ho tenuto una rubrica, Astronomica, in cui rispondevo a domande o commentavo le notizie astronomiche del giorno. Poi ho lavorato per tre anni come divulgatrice all’Osservatorio Astronomico di Roma, quindi è un vizio di vecchia data. Non sono riuscita a farlo prima perché i ritmi della mia scrittura sono piuttosto sostenuti, e trovare il momento buono per tentare una cosa nuova come questa non è stato facile. Quest’estate ci è sembrato quello giusto perché la mia ultima saga di più ampio respiro, I Regni di Nashira, si era appena conclusa, e quella nuova, Pandora, era appena avviata. Così mi sono buttata.”

Da appassionati artigiani della divulgazione, vorremmo ora entrare (in punta di piedi per non disturbare…) nel tuo laboratorio. Cosa puoi dirci della modalità di stesura di questo saggio? Sappiamo bene che hai scritto molti libri di narrativa di grande diffusione, e dunque siamo certi tu abbia una tua collaudata modalità di lavoro, in questo ambito. Siamo curiosi però di sapere quanto la diversa materia di questo libro abbia influenzato la modalità di approccio all’opera. Puoi dirci qualcosa, su questo?

“Diciamo che la parte più complessa è stata trovare una voce; di libri di divulgazione ce ne sono tanti e moltissimi ottimi, per cui occorreva trovare una chiave per declinare la materia in modo personale. Finora mi ero sempre misurata con la narrativa, e non avevo provato la saggistica di ampio respiro. Ho dovuto fare un paio di prove prima di capire che la soluzione era sfruttare proprio la mia vena narrativa, e raccontare la scienza come fosse un contenitore di storie: la mia, in primis, di studentessa e ricercatrice, e quella di tutte le persone che il cielo hanno ammirato e studiato. Trovato questo, la stesura è andata abbastanza liscia; ho avuto un paio di difficoltà su alcuni argomenti un po’ più ostici (l’inflazione su tutti), e ho penato non poco per ritrovare le fonti di tutti i dati e le citazioni che ricordavo solo a spanne. Ho avuto però anche un ottimo editor scientifico in Luigi Pulone, ricercatore dell’Osservatorio di Roma, che mi ha dato molti spunti interessanti.”

A tuo avviso, in che senso e in che misura la divulgazione della moderna indagine del cielo può assumere i tratti specifici di un “racconto”? Quanto spazio c’è per la fantasia nello studioso che descrive il cielo, o che appena lo indaga? Letteratura e scienza sono veramente campi così diversi, o forse (azzardo) lo sono stati e ora pian piano si apre – anche con iniziative come il tuo libro – una stagione nuova? 

“Credo siano cose diverse, ma assolutamente non contrapposte, e che soprattutto si possono ibridare spesso. Quella del racconto io credo sia un modo per veicolare un contenuto, uno dei più efficaci, nella mia esperienza. Ci sarà del resto una ragione se il racconto di storie sia una costante dell’avventura umana, dalla preistoria a oggi. In questo senso è possibile “raccontare” la scienza come fosse una storia, perché ogni scoperta, ogni teoria, si tira dietro appunto molte storie: quelle degli scopritori, quella della teoria, a volte anche i miti di culture lontane. L’evoluzione stellare, che è il mio campo, ad esempio, è una storia: la storia dell’eterna lotta tra la pressione di radiazione delle reazioni termonucleari e la forza di gravità. Ripeto, è una questione di come si vuole veicolare un certo contenuto. In questo senso, non c’è grande differenza con la narrativa. 

D’altronde, la mia esperienza è che la fantasia sia un fattore importantissimo nell’indagine scientifica. Qui in genere mi piace citare Carlo Rovelli, che nelle sue Sette Brevi Lezioni di Fisica dice appunto che la scienza è prima di tutto una questione di visione e immaginazione. E mi torna sempre in mente il giovane Einstein che immagina di trovarsi con una torcia a cavallo di un raggio di luce. La fantasia è necessaria per produrre idee nuove che riescano a spiegare fenomeni nuovi. Senza capacità di immaginare non c’è progresso. 

Io spero che in futuro non si debba più assistere a questa divisione in compartimenti stagni che vediamo oggi nella cultura italiana: scienza di qua, figlia di un dio minore, e letteratura nell’empireo, una cosa che fa male tanto alla prima che alla seconda. In parte ho scritto questo libro anche per dire che la scienza, come tutti i prodotti dell’intelletto umano, è cultura, e di altissimo livello.”

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Atmosfere notturne, lo stupore costante del nostro cielo

Lo sapete, noi di GruppoLocale cerchiamo di guardare al cielo con una meraviglia quotidianamente rinnovata, convinti che dallo stupore possa arrivare la vera conoscenza, quella che coinvolge tanto l’intelletto quanto il cuore e le emozioni. Emozioni che riteniamo essere parte ineliminabile del cammino umano.

Ecco perché siamo particolarmente lieti di presentare il nuovo libro fotografico di Gianluca Li Causi, ricercatore INAF e divulgatore di FISICAST, il podcast di fisica del quale ci siamo occupati più volte (e nel quale ha fatto una recente “comparsata” il nostro amico Phòs, tra l’altro). Perché va esattamente nella direzione che a noi più esalta, quella della instancabile coniugazione del rigore scientifico con lo stupore inesausto della contemplazione del bello.

Curiosi come siamo, abbiamo raggiunto l’Autore per rivolgergli qualche domanda….

foto del libroGruppoLocale: Caro Gianluca, iniziamo con una domanda tanto semplice quanto, probabilmente, inevitabile: perché hai voluto realizzare questo libro?

Gianluca: Nel mondo contemporaneo, a causa dell’inquinamento luminoso che vela i cieli urbani, è purtroppo ormai inconsueto volgere lo sguardo al cielo stellato, o anche soltanto rendersi conto che c’è qualcosa da vedere sopra le nostre teste… Ecco, il mio libro fotografico vuole semplicemente far questo, ovverosia riportare il lettore alla contemplazione del cielo notturno e della sua magica atmosfera.

GruppoLocale: Però! Questa ci sembra davvero una splendida occasione per recuperare l’essenza di una visione romantica (nel senso etimologico del termine) oramai quasi dimenticata…

Gianluca: Si è così, sai. La spinta del fotografo notturno è proprio quella capacità di stupirsi di fronte alle manifestazioni della natura, come se fosse davvero lanciato alla continua ricerca dell’infinito… penso ai quadri di Caspar Friedrich, tanto per fare un esempio. I luoghi più remoti e solitari delle lande deserte o dell’alta montagna, le notti di plenilunio, o quelle piene di stelle con la Via Lattea che solca il cielo, devo confidarti che mi suscitano sempre emozioni molto intense.

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GruppoLocale: Questo è bellissimo, e tra parentesi è proprio l’atteggiamento di “stupore” che noi di GruppoLocale cerchiamo di coltivare e di diffondere. Permettimi però a questo punto di entrare un pochino nello specifico: che tipo di fotografie hai pensato per evocare questa particolare atmosfera?

Gianluca: Guarda, nelle mie immagini ricerco gli accostamenti che esaltano il contrasto tra la dinamica immensità del cielo stellato e la immutabile staticità del paesaggio terrestre, per così dire. E’ difficile trasmettere soltanto con una foto, a chi non l’abbia vissuto in prima persona, il fascino di una notte cristallina in alta montagna o della volta celeste che circola ampia e avvolgente sulle rovine del passato. D’altronde, è proprio questa la sfida delle Atmosfere Notturne: rievocare con l’immagine fotografica quelle emozioni. Nel dettaglio, la mia ricerca fotografica tenta di riprodurre il realismo della percezione visiva, che però è molto diversa da quella della pellicola o dei sensori digitali, e per questo utilizzo specifiche tecniche di ripresa e di elaborazione.

GruppoLocale: Beh, allora immagino che i tuoi scatti siano realizzati tramite le macchine digitali più avanzate e costose…

Gianluca: No anzi… tutt’altro, direi! Considera che quasi metà delle foto pubblicate sono state riprese su pellicola, quando ancora c’era l’emulsione fotografica. E in ogni caso anche la fotocamera digitale viene sempre utilizzata in modalità manuale per queste foto. Le macchine costose e piene di automatismi qui non servono.

GruppoLocale: Sempre più interessante, Gianluca! Ma ora, se non ti dispiace, dicci qualcosa di te: che fai nella vita, oltre ovviamente le foto?

Gianluca: Sono ricercatore all’Istituto Nazionale di Astrofisica, dove lavoro soprattutto nel campo tecnologico. La passione per l’astronomia è nata quando ancora andavo alle elementari, quella per la fotografia è venuta dopo. Ora devo… convivere con entrambe!

GruppoLocale: Senti un po’, ma oltre che sul libro, per caso si possono vedere anche su Internet le tue foto?

Gianluca: Certamente, ne trovi una buona selezione sul sito www.notturni.it, che curo ormai da molti anni e dove metto anche gli annunci delle mostre che ogni tanto organizzo. C’è anche qualche breve articolo divulgativo che spiega un po’ di trucchi e di tecniche per iniziare a ritrarre il cielo stellato, per chi ne avesse il desiderio (potete per esempio consultare questo link, per iniziare).

GruppoLocale: Ma se, poniamo caso, un nostro lettore volesse acquistarlo: lo trova in libreria?

Gianluca: Niente libreria, ho scelto di realizzarlo e stamarlo su Blurb per la perfetta riproduzione dei colori, che come capisci bene per questo tipo di fotografie è cosa molto delicata. Si trova on-line a questo indirizzo internet, dove è anche possibile sfogliarlo dalla prima all’ultima pagina, prima di decidere se acquistarlo.

GruppoLocale: Beh, potrebbe essere una buona idea per un regalo natalizio fuori dal coro! Allora grazie per l’intervista e… cieli sereni per le prossime foto.

Gianluca: Grazie a voi per questa bella opportunità! E naturalmente… cieli sereni!

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Il caso non esiste. Oppure sì…?

«IL CASO NON ESISTE. Perchè le cose incredibili accadono tutti i giorni», di David J. Hand, Rizzoli Edizioni. Recensione a cura di Stefania Genovese.

CasoNonEsisteIl libro inizia con una prefazione di Marco Malvaldi decisamente intrigante, e che solletica la nostra curiosità su quanto sia importante e fondamentale la sperimentazione nella scienza. Il curatore infatti riporta brani di un famoso e feroce dibattito tra il gesuita Orazio Grassi e Galileo Galilei riguardo l’origine di un inusuale spettacolo celeste (tre comete ignote apparse nel cielo sopra Firenze, nel 1618): in seguito leggiamo di altri aneddoti tratti dalla vita reale, mentre lo stesso Malvaldi invita ad approcciare il libro con una forma mentale «aperta» e «ludica» in quanto l’autore, ha sì corredata la sua opera da regole e ferree statistiche matematiche, ma ha anche invitato il lettore a riprodurre e comprovare le sue asserzioni che inducono a considerare, quanto eventi straordinariamente improbabili possano accadere con ragionevolezza, e per quale motivo continuino ad avvenire nel mondo fatti incredibilmente inverosimili.

Gli esempi riportati sono molteplici; dall’uomo colpito sette volte da un fulmine, all’avvocato scampato alla morte in numerose occasioni durante diversi attentati mondiali, a coincidenze significative ma inusuali occorse a celebri personaggi che, decisamente non solo sbalordiscono, ma fanno sorgere domande riguardo l’apparente aleatorietà e inintelligibilità del caso, e soprattutto se esso necessiti di spiegazioni realistiche o piuttosto sia costituito da eventi sconcertanti e da arbitrarie forze invisibili…

Detto ciò, l’autore si cimenta a svelare questo mistero, introducendo il principio di improbabilità secondo cui eventi estremamente improbabili sono comuni, ed anche il principio di Borel, il quale asserisce che eventi sufficientemente improbabili sono impossibili…Superfluo aggiungere che da buon matematico, D. Hand è fedele al celebre postulato logico Popperiano : <<…Le regola secondo cui si devono trascurare le improbabilità estreme … concorda con l’esigenza dell’ oggettività scientifica>>.

E non possiamo che plaudere ed essere tutti concordi con le sue affermazioni e restare intrigati da tutti i simpatici racconti di cui l’autore ha corredato il libro per sostenere questa massima; tuttavia nel secondo capitolo, quando l’autore affronta le superstizioni, le profezie, le chiaroveggenze, il deismo, i messaggi soprannaturali, pur condividendo «in toto» le argomentazioni che confutano queste forme insane di ignoranza e cieco fideismo, e, riconoscendogli un’ ottima acutezza nel scegliere a sostegno delle proprie tesi, esperimenti ed elaborazioni sociologiche (da Skinner a Merton ad esempio), ho trovato una nota veramente stridente…Premetto che anche io come sostenne il celebre Carl Sagan, continuo a ritenere che «Il mondo sia infestato dai demoni» cagionati dall’analfabetismo scientifico e dall’imperante superficialità ed ignoranza, e che quindi sia necessario sottolineare quanto siano stati detrimenti e lo siano tutt’ora per l’intera umanità le cieche e fanatiche credenze, ed il pensiero cosiddetto «magico», tuttavia non ho assolutamente apprezzato che l’autore abbia accluso la teoria della sincronicità junghiana nell’alveo dell’ESP, del paranormale e delle false credenze, denominandola al pari delle altre come una delle «crepe» che hanno inficiato la visione della natura basata sull’Universo meccanicistico del XX secolo!

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Dallo stallo, al pieno volo

Ci voleva probabilmente questo. Rimanere fermi in autostrada. Un suocero, un cane, la moglie, due figlie (non in ordine di importanza). Tra Valle del Salto e Tornimparte, per la precisione. Nemmeno questo, nemmeno riuscire ad arrivare al casello, portarsi fuori dall’autostrada.

Per la cronaca, alla partenza tutto a posto. Però l’aghetto della temperatura dell’acqua, dopo un po’, inizia a muoversi spiacevolmente verso le alte temperature. Strano. Sarà il traffico. Allontanandosi da Roma le macchine si sgranano, si cammina più spediti. Bene. Mi aspetto che la temperatura si riallinei a valori più tranquillizzanti. E invece no. Che strano. Mi fermo e rabbocco acqua. Il benzinaio mi rassicura, mi dice di farla raffreddare un po’ e ripartire. Così va tranquillo fin dove deve arrivare.

Prendete nota. Non è sempre bene fidarsi di chi ti rassicura.

Infatti si riparte ma è soltanto, come si suol dire, l’inizio della fine. La situazione precipita, l’acqua bolle come in un pentolone per la pasta (ma la pasta non c’è, il sugo nemmeno), la spia dell’olio si accende pure lei, tanto per fare compagnia e partecipare alla festa.

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Photo Credit: Rossco ( Image Focus Australia ) via Compfight cc 

Ok, non proprio così, ma quasi… 😉

Siamo in caduta libera ormai. Tocca fare del nostro meglio, subito.

Falling, falling… 

Five miles out

Just hold your heading true

Got to get your finest out

Climbing Climbing

Mike Oldfield, Five Miles Out

Ok, calma. Tra poco siamo al casello. Si esce, ci si ferma, e si ragiona sul da farsi. Dieci chilometri, cinque… l’acqua scalda sempre più. Sudo freddo. Siamo al collasso. Un beeeep beeeep mai sentito prima a bordo, segnala che l’automobile – o la sua parte elettronica – giudica inaccettabile proseguire in queste condizioni, e spegne tutto.

Faccio appena in tempo a mettermi in corsia d’emergenza.

Vi risparmio il seguito. Carro attrezzi, officina, prospettiva di costi esorbitanti, rientro tramite pronto (e generoso) soccorso del cognato. D’altra parte, è una cosa che capita a molti. Peraltro, non è questo che mi preme di raccontare.

E’ quello che è capitato dopo. Il giorno dopo.

E’ domenica. Mi ritrovo inaspettatamente a casa (quando avrei dovuto essere in montagna). Mi ritrovo inaspettatamente senza un programma di cose da fare. Se il mio umore già  il giorno prima non era dei migliori (per varie vicende), quel giorno è a pezzi. Quello che mi preoccupa di più è che non ho nemmeno un fondo di voglia di reagire. Sai quando ti ritrovi a pensare ci mancava solo questa e se uno ti dicesse ma che altro c’è che va male? tu sei pieno di eccezioni e rimproveri verso questo e quello ma in fondo sai che è il tuo atteggiamento che è sbagliato. Dopotutto il guasto ad una macchina non è la fine del mondo. E non si è fatto male nessuno.

D’accordo. Ma sono a terra, comunque. A torto o ragione è così. Lungi dal volare alto, sono a terra.

Volare alto. Volare. 

Got to get your finest out …

Mi ricordo che c’è un progetto pronto al 99% dentro al MacBook. Al 99%, proprio il momento in cui è più difficile completare, c’è sempre il demonietto bizzarro che ti dice ma non ti esporre, non vale la pena, perché rischiare, se poi non piace… 

Chi scrive lo sa. Chi è artista in qualsiasi modo lo sa. La maledetta paura di esporsi, di svelarsi, di sentirsi dire appena un non mi piace.

Che poi è strano. Almeno per me. Mille mi piace molto non riescono a temperare lo sbigottimento doloroso che provo davanti ad un solo non mi piace. Orgoglio? Probabilmente. Sta di fatto, come ho detto anche alla psicologa varie volte, i complimenti li prendo e metto via, li depotenzio abilmente, con qualche pretesto (mi vuole bene, lo dice per compiacermi, etc…), le critiche – legittimissime, per carità – mi colpiscono e mi affondano come quei cacciatorpedinieri a battaglia navale: non so se avete presente, una volte indovinate due caselle, il resto è inesorabile, come l’inabissarsi.

Ma sto divagando. C’è quel progetto fermo in dirittura d’arrivo. Mancherebbe pochissimo, verificare il file, la copertina, fare il volume e farsi mandare la prova di stampa. Ci siamo, Marco, ci siamo. Non puoi mollare ora. Non puoi abbandonare. E’ solo orgoglio, abbandonare.

Riconoscere i limiti di ciò che facciamo, senza abbandonare stizziti il gioco, significa maturare. Questa è la vera umiltà: tornare ogni giorno sull’opera, perfezionarla, invece di disperarsi perché non è già perfetta.

Marco Guzzi

Allora, inizio.

Mi rimetto all’opera. Dove manca la convinzione, c’è la paura. La paura del senso di nonsenso che arriverebbe inesorabilmente nel rinunciare. Che poi va così. Superata la paura, fatto quel fatidico salto, poi le cose si riallineano. Stai facendo quello che ti piace, Marco, quello a cui ti senti chiamato, e questo sistema tante cose. Sì, perché non ti opponi al flusso, non fai inutile resistenza. 

Smetti di pensare, di sollevare eccezioni. Fai quello che devi. E la ricompensa psicologica è immediata. 

Ti senti meglio. Davvero meglio (e non hai assunto psicofarmaci, come valore aggiunto).

Non sei più in panne. Puoi ripartire. Piano, senza strappi, senza esagerare. Ma riparti.

Vedi, stai viaggiando. Piano piano potrai pensare anche di alzarti in volo. In pieno volo. 

E ti accorgi che lavori tutta la mattinata. E non ti pesa. Così il volume di poesia è pronto. Fatto, sistemato il testo. Trovata la copertina. Ordinato.

Pieno Volo

La domenica è salva, io mi sento un po’ meglio. 

La verità è così sfacciatamente semplice, che io non la voglio mai vedere (perché ci sguazziamo così bene nelle complicazioni?). Se non scrivo non sto bene. Punto. Lo so e non lo voglio sapere. Fosse per me, per la mia endemica insicurezza, scriverei solo dopo avere avuto certificazioni in carta bollata che sono proprio bravo. Non procederei senza le debite autorizzazioni, gli indispensabili permessi. Con il nulla osta di un qualche autorevole comitato. 

Ma è così, c’è poco da ricamare. Non posso decidere.  Devo saltare. 

Così per quella domenica è come se fossi passato vicino ad un abisso di desolazione, e l’avessi scansato per un pelo. Non male come risultato.

E non è tutto qui. Perché dopo qualche giorno, quando inaspettato arriva il pacchettino con il libro, è una soddisfazione profonda dolce e indescrivibile. Toccarlo, aprirlo, leggere. Vedere che sono riuscito a dire quello che volevo dire, riconoscere che (almeno in qualche parte) sì, ci sono riuscito. Quello che rischiava di rimanere per sempre dentro di me è affiorato, ha preso dimora sulla pagina. E non ha perso i suoi colori, ancora li trattiene. 

Questo è commovente, è delizioso, è un bagno di fiducia. Questo fa gioire il cuore.

Così ora è a voi, se vorrete. Io sono sollevato. E’ come se avessi fatto una strada difficilissima e avessi corso il rischio di fermarmi mille volte. Con tutte le spie accese. E il motore in panne, che sbuffa e fuma. Ma è anche come se, quasi miracolosamente, fossi riuscito a ripartire. Prima a camminare, poi a correre. A volte, per qualche attimo almeno, a spiccare il volo. A trovarmi, appunto, in pieno volo.

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Leggere, digerire

C’è voluto il passaggio al digitale, in un certo senso. C’è voluto – come spesso accade – il transitare in un altro territorio, per tornare arricchito di una consapevolezza diversa. Che poi, uno nemmeno si rende conto che sia davvero una nuova consapevolezza, o chissà che altro. C’è che una cosa a cui eri abituato, improvvisamente ti sta stretta. 

C’è voluto questo, per me. L’abituarsi alla lettura di ebooks ha comportato un diverso modo di avvicinare il testo. Sì perché il mezzo non è irrilevante, quello che fruisci è tutto un misto tra quello che è davvero scritto e i modo con cui ti arriva. E’ così tutto intimamente legato e non riesci a separare, a dividere i vari fattori. Grazie al cielo. 

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Photo Credit: pedrosimoes7 via Compfight cc

Nello specifico, la lettura in digitale mi ha riabituato – senza che lo mettessi a programma – ad un certo lavoro sul testo (quello che dirà è vero principalmente per i saggi, ma non ne sono completamente esclusi nemmeno i romanzi). Il fatto tecnico assai banale, se vogliamo, per il quale si può agevolmente evidenziare un passaggio – senza di fatto alterare o rovinare il libro – mi ha riportato inevitabilmente all’attitudine di leggere sottolineando i brani più importanti, le frasi che più mi colpiscono: insomma, quelle che vorrei ricordare, o perlomeno alle quali vorrei poter tornare, per digerirle meglio.

Il libro digitale ha un grosso limite, comunque, allo stato attuale. E il grosso limite è che non vi si trova tutto: molti libri sono ancora, e forse lo saranno sempre, disponibili esclusivamente in formato cartaceo. Quello glorioso, quello di sempre (la carta, la sua consistenza, il suo profumo.. etc etc..). Non è come per la musica digitale, lì più o meno se cerchi bene, trovi l’emmepitre praticamente di tutto. Qui no. Diversi saggi ed anche romanzi, o libri di poesia – anche di recente pubblicazione – vivono allegramente (e misteriosamente) soltanto nel formato cartaceo. 

Allora, ecco. Se mi trovo a leggere un saggio pubblicato su un libro di carta , ora sento che mi manca qualcosa. Mi manca la possibilità, appunto, di sottolineare. Per chiarire, va detto che io aderivo, fino a poco tempo fa, a quella disgraziata corrente di pensiero per la quale il libro non può essere alterato in alcun modo (facevo eccezione per la firma e la data di acquisizione nella prima pagina, come avevo visto fare da mio nonno materno). Ovvero, a parte un libro di testo, non reputavo ragionevole sottolineare un libro che leggo per interesse.

E infatti comprendo che il motivo è tutto lì. E’ lì il fraintendimento.

Perché in fin dei conti dietro il fatto che il libro debba rimanere intonso il più possibile, c’è l’idea che tu ci debba passar sopra in modalità leggera e non invasiva, come a volo d’uccello, immergendoti in modo elegante e discreto in quello che ha da dire, per poi salutarlo lasciandolo il più possibile senza traccia del tuo passaggio.

Eh no, invece no. La cosa non funziona così.

Il rapporto con un libro è un rapporto carnale, un rapporto in cui i due partecipanti si modificano, si compenetrano, si sporcano l’uno dell’altro. Non si può far finta che non sia mai avvenuto (io? Quel libro? no, no mica l’ho mai toccato… non è come pensi, posso spiegarti tutto…). Perché le idee non le sorvoli elegantemente. No, con le idee ti devi misurare, ci devi lottare, devi permettere che ti saltino addosso, devi respingerle o accoglierle, resistere e poi cedere, oppure cedere subito e poi cambiare idea. 

Così diceva Giorgio Gaber, in una della sue intuizioni più folgoranti, Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione. L’idea va ruminata, andrebbe fatta propria, perfino mangiata, se possibile.  

Così anche mi conferma una frase di un poeta, Davide Rondoni, quando nell’Avvertenza che prelude al bel libro (cartaceo, soltanto) sulle poesie di Ada Negri, Mia giovinezza, mette in guardia, Si legge per crescere in umanità. Leggere fa parte del lavoro.

Così maturo il distacco dalla scuola il libro non si tocca con un senso di sollievo, finalmente. Perché c’è anche la concezione che leggere sia un passatempo, una cosa per riempire i vuoti. No, non sono d’accordo. Leggere è qualcosa che arricchisce, è proprio un lavoro. E questo vale anche per molta letteratura leggera, secondo me. Puoi imparare molto, da come sono messi in fila aggettivi, avverbi, dalla lunghezza delle frasi, dalle situazioni. Leggere accende sempre la mente. Io sospetto che un si impari di più, per dire, da un brutto libro – ma uno scritto proprio male, vorrei dire – che da uno spettacolo televisivo di qualità media (eccezioni ve ne sono e ve ne saranno sempre, ma in media mi sembra sia così).

Beh, tutto questo per dire che ad un certo punto di questa evoluzione (o involuzione, a seconda di come la pensiate) ho guardato con occhi diversi quell’evidenziatore giallo: quello che era qui appoggiato sul comodino, a non far nulla.

Ecco (i puristi smettano di leggere) … l’ho preso, ho preso il saggio che stavo leggendo (Dennis Gira, La scelta che non esclude. Buddismo o cristianesimo), e ho iniziato a sottolineare. Prima con un senso di disagio, come mi guardassi nell’atto di compiere una marachella. Poi con un vero senso di liberazione. Finalmente. 

E poi ancora, emozionato dalla mia trasgressione, invece di smettere e pentirmi, ho continuato. Le altre vittime sono state, per ora, Imparare ad amare, di Marco Guzzi, e lo stesso libro delle poesie di Ada Negri (limitatamente alla parte di Rondoni).

Niente va perduto, niente è sprecato. Leggere fa parte del lavoro (e anche l’evidenziatore giallo  ne fa parte, aggiungo di mio). Che bello che sia così. Che bello che il libro sappia di me, dopo che l’ho incontrato. Vuol dire che se qualcuno viene dopo di me a leggerlo, sarà non appena un lettore, ma un testimone di un passato incontro d’amore. 

Passato, sì: ma sempre rinnovabile.

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