Una panchina (anzi tre)

Proprio stamattina. Arrivo un po’ prima al Liceo Scientifico Vito Volterra, a Ciampino, per la prima lezione di un PCTO di evoluzione stellare, che devo svolgere in collaborazione con Laura, una collega di istituto.

Giro un poco tra gli edifici, prima che arrivi Chiara, la docente con cui devo interfacciarmi, ho tempo di guardarmi intorno. Sì, io ero rimasto al fatto che si chiamassero alternanza scuola-lavoro dove già si capiva un po’ di cosa si trattasse, ora dobbiamo chiamarli percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, frase estremamente sofisticata (in cui un po’ mi perdo).

Sono curioso. Questo è la mia scuola e non lo è, allo stesso tempo. E’ la mia scuola perché io ho studiato al Liceo Volterra, proprio questo. Era la fine degli anni Settanta, dunque un po’ di tempo fa. Ovviamente i ricordi sono tantissimi e vivaci, anche dopo tutti questi anni.

Abbiamo appuntamento davanti al bar, così rimango nei pressi. Sorpreso di questa scuola che è la mia e allo stesso tempo, non lo è. Infatti, al tempo, la sede della scuola era un’altra. Dalla storia dell’istituto, ritrovo che l’istituto era situato in Via Gorizia. Ricordo, a conferma di quanto leggo, che ai piani più bassi vi era un istituto d’arte (“Paolo Mercuri”, ricavo dalla medesima pagina).

Quindi è simultaneamente mio e non mio, come se tutto vibrasse tra questi due stati. È mio, il mio liceo, ma non ha niente del mio liceo. Non sono gli ambienti che ricordo. Certo, devo dire che probabilmente è meglio, più ampio, c’è il parcheggio, un bel giardino, la palestra interna, un vero bar. Niente di questo c’era, in Via Gorizia. Pure per la palestra, dovevamo uscire dall’istituto.

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Il compito essenziale

Più volte ci siamo richiamati alla necessità di pensare un cosmo accogliente, uscendo dall’arcaico (ma perdurante) teatro concettuale che ci descrive un universo freddo, statico, indifferente a noi. Constatata la necessità, dobbiamo ammettere al contempo che non ci viene facile: c’è come una resistenza, una forza di inerzia, che viene esercitata in senso contrario a questo nostro desiderato e fondamentale percorso di liberazione psico-cosmico.

Senza girarci troppo attorno, credo sia lo stesso assetto della società in cui viviamo, che esercita questa resistenza. Il sistema neoliberista (efficacemente definito da Marco Guzzi come “estremizzazione del pensiero economico-liberale che porta alla cancellazione di ogni limite per il mercato e, quindi, di ogni controllo da parte degli stati nazionali nei confronti di entità multinazionali e delle corporations”) – che si espande ormai in uno spazio vuoto, non incontrando più la pressione contrastante di visioni differenti – ha assoluto bisogno di persone che non lo contestino, che si accontentino, che non sia accorgano, soprattutto, di essere re o regine.

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La sana fatica di stare qui

Luigi Giussani mi piace, perché è spesso audace. Qualcosa che spesso ci manca in questo tempo liquido, in questo tempo di rivoluzioni morte, è proprio l’audacia: certo, proviamo a sopperire, talvolta, con la manifesta provocazione o la esibita trasgressione, ma è roba di seconda mano, materiale ormai a buon mercato, copia sbiadita di antichi e nobili aneliti al vero pensiero libero.

Sia nel percorrere quanto già detto, che nel cercare vie nuove, ci vuole audacia. Allora, il gioco è imparare da chi ha usato audacia a suo tempo, per ampliare ulteriormente l’orizzonte, allargare l’universo osservabile. In un cosmo ormai in espansione accelerata (perché nell’era moderna lo abbiamo ri-conosciuto così), le idee e i sistemi di pensiero, per sopravvivere, non possono più permettersi la staticità.

Trovo particolarmente interessante e meritevole di sviluppi (ora più che mai), quanto scrive Giussani a proposito dell’ideologia, nel suo testo più noto, Il senso religioso

L’ideologia è costruita su uno spunto che l’esperienza offre, così che l’esperienza stessa è presa come pretesto per una operazione determinata da preoccupazioni estranee o esorbitanti. Di fronte, per esempio, all’esistenza dell’uomo «povero», si teorizza sul problema del bisogno, ma l’uomo concreto col suo bisogno concreto diventa un pretesto; l’individuo nella sua concretezza viene emarginato una volta che ha dato spunto all’intellettuale per i suoi pareri, o al politico per giustificare e pubblicizzare una sua operazione. I pareri degli intellettuali, che il potere trova convenienti e che assume, diventano mentalità comune attraverso i mass-media, le scuole, la propaganda, così che quello che accusava Rosa Luxemburg con lucidità rivoluzionaria, «lo strisciare del teorico», morde alla radice e corrompe ogni autentico impeto di cambiamento.

Audace ma assolutamente pertinente, qui, l’aggancio di monsignor Giussani alla frase di Rosa Luxemburg (1871-1919), che non fu fine teologa quanto rivoluzionaria di manifesta fede marxista. Ma non c’è poi da stupirsi. Giussani è sempre stato un uomo libero e ha valorizzato anche posizioni molto diverse dalle sue. Resta celebre la sua valutazione della dignità dell’anarchico, al proposito. Che poi, a causa sua, ci furono illustri anarchici conquistati alla fede: penso con commozione, all’esempio chiaro della figura di Jesùs Carrascosa, del quale sono lieto ed onorato di essere stato amico.

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Un cosmo abbondante (e flessibile)

Una immagine come questa indubbiamente ci rimane addosso, non si scrolla via facilmente. Solo perché siamo inclini al dimenticare, solo quello ci mette “al riparo” dalla meraviglia continua. Ci dimentichiamo perfino di essere immersi in un universo abbondante, presi come siamo da mille (spesso piccole) cose.

L’ammasso di galassie Abell 370 (e molto altro…)
Crediti: NASAESA, Jennifer Lotz and the HFF Team (STScI)

A circa quattro miliardi di anni luce da noi, vive il gigantesco ammasso di galassie Abell 370, che qui ci viene mostrato in una immagine di Hubble, capace di coglierne tutto il suo splendore.

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Tramonti, stazioni e rivoluzioni

Gli ultimi raggi di un tramonto colto dall’orbita della Stazione Spaziale Internazionale, mentre orbitava sopra la parte più meridionale dell’America del Sud, ad una altezza superiore ai 430 chilometri.

Uno splendido tramonto osservato dallo spazio.
Crediti: NASA

La Stazione Spaziale Internazionale è veloce: compie ben sedici orbite terrestri nell’arco delle ventiquattro ore, così gli astronauti possono godersi ben sedici albe ed altrettanti tramonti.

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Per rimetterci in moto

Siamo abituati a credere che niente può davvero cambiare. O piuttosto, ci hanno abituati? In ogni caso, quando ero più giovane non era così. C’era un senso frizzante di rivoluzione, sentivo che il mondo stava per cambiare. Profondamente. In meglio. Non è tanto una questione politica, o esclusivamente tale, come poteva sembrare. Era proprio una questione esistenziale. Tutto stava per cambiare, finalmente. Lo sentivo, era nell’aria, era questione di pochi anni, forse pochi mesi, tutto sarebbe cambiato.

Tutto è in movimento, la stasi è una tentazione mentale, da superare…

Poi non si capisce bene come, e soprattutto quando. Lentamente, inesorabilmente, qualcosa si è definito, nella vita. Si è messo a fuoco, crescendo. Ma qualcos’altro si è affievolito, quasi spento. E intanto è cresciuta una convinzione, non detta, ma forte, limpida, inevitabile. Niente può cambiare a livello di società, niente. Tanto vale organizzarsi per quanto si può, nel proprio privato. Vivere alla meno peggio. Perché tutto il resto sono sogni. Le rivoluzioni non funzionano, le rivoluzioni non esistono.

Però perché allora il cuore desidera ardentemente qualcosa se essa non esiste? Una super beffa cosmica? Mi dispiace, non mi convince, non ci credo: il cuore mi sta dicendo realmente qualcosa. Qualcosa a cui la mente non vuole aprirsi.

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Il ritmo della Luna

In fin dei conti il problema è questo, soprattutto. Che ci siamo progressivamente affrancati dai ritmi della terra, delle stagioni, del cosmo. Fino a costruirci una vita sintetica e appunto, artificiale, con delle scansioni temporali che sono fuori dal mondo, che ci straniscono e ci affaticano. Perché noi siamo nel mondo, siamo fatti di stelle, intrecciati di materia universale. I cicli del cosmo sono i cicli del nostro corpo, il ciclo stesso della fertilità femminile è in suggestivo accordo con il ciclo di rivoluzione della Luna attorno al nostro pianeta.

Ecco perché capisco bene quanto scrive il musicista Peter Gabriel nelle note che accompagnano l’uscita del brano Panopticom, primo dell’album i/o di prossima pubblicazione (traduco di seguito, in modo libero).

Alcuni brani di quelli di cui sto scrivendo per questa occasione, ruotano intorno all’idea che sembriamo incredibilmente capaci di distruggere il pianeta che ci ha dato alla luce e che se non troviamo il modo di riconnetterci alla natura e al mondo naturale perderemo moltissimo. Un modo semplice di realizzare una maggiore adesione a tutto questo è è guardare il cielo… ed osservare la Luna mi ha sempre portato qui.

Saranno infatti le fasi lunari anche a dare il ritmo alle uscite dei brani di questo nuovo attesissimo album, da parte di un musicista che insieme ai Genesis ha davvero scritto la storia del rock progressivo, per poi intraprendere una carriera solista caratterizzata da una grande originalità espressiva. Nello specifico, verrà resa pubblica una nuova canzone ad ogni plenilunio. Abbiamo già iniziato, appunto, con la canzone Panopticom, che è stata svelata in occasione della luna piena del giorno 6 gennaio 2023.

Per gli affezionati, un motivo ulteriore per attendere quei giorni in cui la Luna è massimamante presente – quasi invadente – nel nostro cielo. Per me astrofisico, estimatore dell’arte di Peter, un espediente che collega efficaciemente due miei universi affettivi, musica ed astronomia.

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La rivoluzione nel cuore

Se ci penso, mi sorprende quanto in fretta sia cambiato tutto. Funziona così, ti abitui ad un certo clima e pensi che sia immutabile, che sia il modo di vedere il mondo. I buddisti parlano di impermanenza mettendoci dunque in guardia: ma non ci siamo molto abituati, noi occidentali.

Sono cresciuto convivendo con la viva speranza (ed il progetto spesso impaziente) di cambiare il mondo. Ricordo bene, in questo senso, i miei tempi del liceo (siamo a cavallo tra i settanta e gli ottanta). Il mondo nuovo sembrava fosse veramente all’uscio, che stesse ormai premendo per entrare. Finalmente tutto cambia. Poco conta alla fine che mi sentissi “di sinistra” o meno, che guardassi alla sedicente rivoluzione proletaria con un senso di ammirazione o invece con paura. Perché in quel clima, in quell’aria che parlava di cambiamento imminente, c’eravamo dentro tutti. Destra o sinistra, dunque, io c’ero. Le cose si vedevano in un certo modo, si mangiava, si dormiva, si amava in un certo modo. C’era questa rivoluzione da fare: comunque le cose sarebbero cambiate. Presto. [Continua a leggere sul sito di Darsi Pace…]

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