Blog di Marco Castellani

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Frenk, il puro fascino del Cosmo

L’Universo ha una storia affascinante, che comprendiamo ogni giorno di più: ogni giorno studiamo il cielo e facciamo luce su un altro piccolo tassello, nell’architettura generale della nostra conoscenza del Cosmo. Ed è una storia affascinante, quella che ci si dispiega davanti. Una storia accessibile a tutti, perché tutti condividiamo il fatto di essere immersi in una sterminata infinità di galassie, stelle e pianeti, che ci invita – direi quasi ci sospinge – a prenderne coscienza.

Per questo è meritorio ogni sforzo ben fatto per raccontare la storia del cielo in modo equilibrato, senza banalizzazioni ma anche senza inutili astrusità matematiche. L’Universo ha una storia raccontabile, dopotutto, ed è necessario raccontarla. Lo è sempre stato, in ogni epoca, fin dai miti dei popoli primitivi. Oggi che finalmente abbiamo a disposizione un modello scientifico di Universo, non siamo certo esentati dal racconto. Anzi, forse l’urgenza di esprimerlo, di parlarne, di narrare le nostre origini, risulta oggi ancora più pressante.

Il cosmologo Carlos Frenk

Stupisce infatti quello che possiamo capire del nostro smisurato Universo, osservandolo – come facciamo – da un piccolo pianeta alle periferia di una grande galassia. Stupisce che le leggi fisiche che lo descrivono siano esattamente le stesse che abbiamo potuto derivare con la paziente analisi dei fenomeni a noi più prossimi, di quel che abbiamo potuto imparare facendo cadere a terra dei sassi, osservando il moto delle nuvole, vedendo l’acqua scorrere nei fiumi.

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L’universo che non si muove

L’universo non è (più) qualcosa di statico, se si percepisce così vuol dire che siamo noi che abbiamo bisogno di guardare meglio. L’universo era statico per gli antichi. Non è che sembrava, lo era davvero. Cioè lo era a tutti gli effetti, esistenzialmente. Era percepito così, dunque era così. Ora Paola canta di un universo che non si muove segnalando come un disagio sotterraneo. Perché l’universo che non si muove, adesso, è antistorico, è fuori dal tempo, realmente fuori dal nostro tempo.

Il bisogno di cambiare che c’è in me si rispecchia in un universo che – appunto – non si muove e chiede che inizi a muoversi oppure ritorni a muoversi. L’espansione accelerata che ci riporta la ricerca cosmologica attuale non può essere un semplice dato tecnico, da addetti ai lavori. Ci deve dire qualcosa di importante, per noi. L’universo ci ha sempre detto qualcosa di importante, a volerlo ascoltare.

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Occhi chiari sul cosmo

Posso ben concordare sul fatto che una stella di nome 2MASS J17554042+6551277 non sia esattamente facile da ricordare né, magari, da menzionare agli amici. Tuttavia la sua importanza è indubbia, anche se questa figura di diffrazione ci dice molto di più sulle bellezze che potremo scoprire in futuro, che sulla stella in sé stessa.

La stella 2MASS J17554042+6551277 osservata da JWST.
Crediti Immagine : NASASTScIJWST

Questa figura di diffrazione infatti è creata dai diciotto segmenti esagonali del James Webb Space Telescope. Dopo essersi dispiegato nello spazio, i diversi segmenti si sono assemblati per far sì che possano operare in modo concertato come un singolo specchio dal diametro di 6.5 metri. Uno specchio così grande ovviamente non poteva essere spedito intero nello spazio, e la manovra di assemblaggio automatico – per la sua indiscutibile complessità – è sempre stata oggetto di grande preoccupazione.

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L’universo che osserviamo

In un certo senso c’è tutto. Tutto il nostro mondo fisico. Il modello di mondo che conosciamo, che riteniamo il più valido. A volte capita che mi chiedano, in occasioni pubbliche, come mai ci riteniamo contenti dei nostri modelli, quando sappiamo a malapena di cosa è fatto il 5% del contenuto di massa ed energia del cosmo.

L’universo osservabile. Crediti & LicenzaWikipediaPablo Carlos Budassi

Risposta facile. Siamo contentissimi, non contenti. Per la prima volta nella storia dell’umanità, ed esattamente in questi anni, abbiamo tra le mani una mappa scientifica del (nostro) Universo. Mai accaduto prima. Mappe come queste si sono sempre fatte, certo: ma erano basate sul mito e non sulla scienza. Il mito è fondamentale, riempiva un vuoto e inseriva la vita dell’uomo in un contesto di senso. E in fondo era un modello anch’esso, sia pur difficilmente falsificabile.

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Un mondo di relazioni

Smart working. Due parole di strettissima attualità, in questo tempo così particolare.

Le ricerche sullo smart working indicano che il lavoro a distanza ha livelli di efficienza simili a quello in presenza, ma ci si interroga meno sugli effetti di lungo periodo di una società sempre più smaterializzata e delocalizzata.

Così scrive Davide Prosperi, Presidente ad interim della Fraternità di Comunione e Liberazione, in un recente articolo apparso sul Corriere della Sera.

La scoperta della possibilità di lavoro agile è senz’altro una bellissima cosa, peraltro avvenuta tardivamente (da noi) e solo sotto l’incalzare dell’emergenza sanitaria. Ma dobbiamo tener presente che la vita è relazione, tutto l’universo è una trama di relazioni, se scendiamo nel regno delle particelle elementari troviamo al fondo di tutto sempre questo, la relazione (e a dirlo non sono certo fisici misticheggianti). Ebbene, elidere la relazione sostituendola con l’azione a distanza, non è un gioco che si può rilanciare indefinitamente. Le conseguenze si pagano. Psicologicamente, prima di tutto.

Lo smart working è senza dubbio una conquista di civiltà. Ma i rapporti umani vanno comunque difesi e protetti, se vogliamo crescere noi e far crescere davvero i nostri figli.

Si tratta allora, secondo alcuni, di agire in maniera plastica e dinamica, reagendo agli eventi (diffusione del virus, varianti, eccetera) in modo intelligente e flessibile. Cauti e prudenti, certo. Ma anche consapevoli che le chiusure drastiche e i confinamenti prolungati oltremisura risultano sempre più indigesti, dopo mesi e mesi di cultura dell’emergenza. E che i ragazzi, per crescere, hanno bisogno di intessere vere relazioni umane, non di ricadere dietro l’ennesimo schermo luminoso. Anche se su questo venissero proiettati corsi formativi stupendamente ideati, anche se si cercasse (giustamente) di rendere il tutto più interattivo possibile.

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E la macchia non c’è più

Niente dura per sempre, si dice. Anche nel cosmo è così (le stelle fisse sono ormai un ricordo del passato). Cosa rimarrà della Grande Macchia Rossa in futuro? Giove è il mondo più grande tra quelli che ruotano intorno al Sole, circa 320 volte più massiccio della Terra. Giove è anche sede di uno delle tempeste più estese e durevoli mai conosciute. Così grande che potrebbe contenere l’intero nostro pianeta, sebbene – attenzione – si stia riducendo. Il confronto con la storia delle osservazioni parla chiaro, ci dice infatti che la macchia oggi si estende per un terzo delle dimensioni che aveva appena un secolo e mezzo fa.

Questa stupenda immagine ci mostra Giove e la sua macchia nel 2016 (processata in modo da far risultare particolarmente intensi i colori della macchia stessa, visibile sulla sinistra). La NASA sta monitorando già da un po’ la tempesta perfetta su Giove per capire cosa ne sarà in futuro. E questo, ancora nessuno lo sa. Potrebbe anche continuare a restringersi, per condividere il destino delle più piccole macchie di Giove, ovvero… scomparire. Privando così il pianeta gigante di quella che sembra veramente il suo marchio di fabbrica.

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L’universo ci riguarda

Viviamo in un mare di parole, un cosmo verbale, spesso inquinato. Di questi tempi, più che mai. Cosa può dire un astrofisico, in questo periodo? Io cosa posso dire, cosa posso augurare, dal mio punto di vista, per il 2022 che sta arrivando? Mi sembra che l’unica cosa seria, da augurare ed augurarsi – nel prossimo anno che viene – è comprendere sempre meglio che l’universo ci riguarda.

Guadagnarsi uno sguardo ampio. Capire che viviamo su un un piccolo puntino blu, e che su quel puntino blu è in corso un esperimento meraviglioso chiamato vita (se vi sia anche altrove è ancora materia di supposizione), che è il punto in cui il cosmo guadagna una sorta di autocoscienza: siamo parte del cosmo che guarda il cosmo e si interroga.

La Via Lattea è forse la dimostrazione più palpabile delle meraviglie cosmiche che esistono fuori dalla nostra porta. Potremmo davvero volerla aprire, di fronte a tale spettacolo.

Il cosmo. Chi ci pensa normalmente, chi gli fa spazio tra le faccende della sua vita? Nessuno (spesso, nemmeno noi astronomi). Eppure è lì che accadono tante cose, e accadono sempre. C’è in atto come una danza, la danza intima del reale, possiamo scegliere di partecipare, di accordarci a questa danza, o farci da parte, rimanere scollegati.

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Passaggi di universo

In questo periodo mi viene sempre in mente. Il racconto si chiama Vuol dire nascita. Da quando l’ho scritto sono passati nove anni, e in nove anni molte cose sono accadute. Cose belle che rinforzano il canale di comunicazione tra la scrittura e l’astronomia, come il mio ingresso nel Gruppo Storie. Ora, anche in redazione di Edu INAF, il magazine di didattica e di divulgazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (a proposito, proprio oggi esce un articolo che fa il punto su di un bel progetto come il Concorso Gianni Rodari).

Molte cose da quel 2012, dunque. Grazie al cielo, molte. Però questo lo sento ancora molto mio, sento che c’è qualcosa che ogni volta mi fa affezionare, mi fa stare bene tra le parole di questo breve testo.

Era la mattina del ventiquattro e Alessandro non aveva risorse diverse dal guardare il tempo fluire via, senza poter intervenire. Ogni tentativo di intervento, ogni schema di pensiero di qualsiasi tipo, gli procurava solo fitte di mal di testa. Meglio sedersi a lato, ed aspettare.

Vuol dire Nascita

Sarebbe facile disquisire ed analizzare, ma non credo sia la cosa migliore. Appena un piccolo racconto, senza pretese. Visto che è legato al Natale mi piace riproporlo adesso.

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