Blog di Marco Castellani

Tag: vita Page 3 of 4

Come le cose cambiano

Tutto cambia, il principio dell’impermanenza è un concetto chiave nelle filosofie orientali, ma non solo. Mi accorgo di quanto è difficile far entrare questo concetto realmente in me, lasciarlo assimilare dai miei tessuti, farlo entrare nella realtà del pensiero, insomma toglierlo dall’astrazione.

C’è da scrostare i pensieri statici, e anche contemplare il cosmo aiuta. Mai come adesso siamo davanti all’evidenza di un cielo che cambia, quasi momento per momento. Guardiamo questa bellissima immagine di Giove, realizzata dal Telescopio Spaziale Hubble appena l’estate scorsa., quando il pianeta gigante si trovava a poco più di 650 milioni di chilometri da Terra.

Giove, in una bellissima e recente immagine di Hubble. Crediti:NASA, ESA, A. Simon (Goddard Space Flight Center), and M. H. Wong (University of California, Berkeley) and the OPAL team.

Gli scienziati la stanno analizzando per seguire l’evoluzione della atmosfera assai turbolenta del pianete. Sembra si prepari tempesta, su Giove. E ci sono formazioni particolari sotto la grande macchia rossa, che qualche anno fa non erano affatto presenti (come si può facilmente vedere da una foto del 2014).

Nell’immagine si vede anche la luna ghiacciata Europa che, con i suoi oceani sotterranei, potrebbe custodire più di qualche sorpresa, per i cercatori di vita extraterrestre. Tutto cambia, insomma. Fino a qualche decennio fa, pensare a cambiamenti su un pianeta poteva sembrare quasi una eresia, tanto collideva con l’idea di uno spazio immutabile, impalpabile, indifferente.

Non è così, grazie al cielo. La scienza ce lo mostra oggi, con scontri di galassie, pianeti in mutazione, buchi neri in collisione, universi in espansione. E se ce lo mostra solo oggi, è perché solo oggi siamo in grado di capirlo.

Loading

Immagina un vulcano su Venere

Non possiamo sapere con precisione come sembrerebbe un vulcano attivo su Venere, potessimo veramente osservarlo. Certo, abbiamo evidenza che ce ne siano. Tuttavia, per quanto si disponga di immagini a larga scala del pianeta, prese con dei radar, le nubi assai spesse di acido solforico ci impediscono di vedere nelle bande dell’ottico. Ossia, di guardare nel senso classico del termine.

Un vulcano su Venere, come potrebbe essere. Crediti: NASAJPL-CaltechPeter Rubin

Questo non ci ferma, perché la capacità di immaginare è sempre stata di grande aiuto nella scienza esatta. Questa qui sopra è una immagina artistica che ci aiuta a capire come potrebbe sembrare un vulcano sulla superficie del pianeta.

La faccenda dei vulcani di Venere, si ricorderà, potrebbe essere più che un semplice particolare per chi studia la geologia di altri pianeti, perché è strettamente connessa ad una storia che è esplosa a settembre dell’anno scorso, riguardante possibili segnali di vita nell’atmosfera superiore del pianeta. Nello scenario infatti sarebbero i vulcani a spingere in atmosfera alta i composti chimici destinati a diventare cibo per quei batteri affamati che sembrano dover fluttuare in quelle regioni.

La faccenda dei batteri galleggianti è certamente eccitante, ma al momento appare ancora controversa. L’iniziale certezza si è molto stemperata, sotto i colpi di indagini parallele, che hanno avuto buona cura di smontare la affidabilità di risultati proclamati con forse eccessiva convinzione. Ma è la scienza, bellezza! Va così.

Quello che è certo, è che – pur mancando al momento di una sola prova certa – le possibilità di vita extraterrestre appaiono di giorno in giorno più concrete, man mano che andiamo avanti esplorando il cosmo. Forse già questo, ci sta dicendo qualcosa.

Mi viene quasi da pensare, che ci stiamo preparando.

Loading

Senza vergogna (grazie al cielo)

Così scrive don Julian Carron nella bella lettera pubblicata sul Corriere di oggi.

“Dio non ha vergogna di noi, della nostra fragilità, delle nostre ferite, del nostro essere sballottati da tutte le parti”

Un Dio così è veramente interessante, è veramente “amabile”. Vale la pena, mi dico, lavorare per togliere dalla mente le altre immagini di Dio e tutte le paure, lasciando entrare questa, risanante e tranquillizzante.

Lasciando che questa “nasca” in noi, trovi dimora, riparo.

Una immagine di Dio che ci può fare compagnia, che se impariamo a fare nostra, a farla entrare dentro di noi, può aiutarci e sostenerci. Nella vita normale, intendo. Ci vuole qualcosa proprio per la vita normale, la vita che viviamo fuori dalle festività. Ci vuole una ripartenza, una diversa esistenza, proprio per quello. Ci vuole un mondo nuovo, esattamente per il mondo ordinario. Mentre camminiamo, ci fermiamo, mangiamo, leggiamo, mentre siamo in un negozio, in un bar, mentre scorre la vita, ecco, ci vuole l’idea di una prospettiva diversa, fragrante, morbida. Su cui fermarsi a pensare e a volte, anche, fermarsi per gioire.

Gioire da fermi, pensando. Pensare in modo morbido e aperto, se da qualche parte c’è una gioia, diventa in qualche modo possibile, ritorna possibile in diversi modi, per l’alba di diversi mondi. Di pianeti che sono lo stesso nostro pianeta ma diversi, anche, e dove c’è vita ma più vita di qui, anche se siamo qui.

Ci vuole un’altra vita, come cantava Franco Battiato tanti anni fa. E così si dicono Anita e la sua mamma, questi giorni, sotto un cielo di stelle di puntini piccoli piccoli luminosi invadenti impertinenti. Lievemente, giocosi.

Lo sappiamo che ci vuole un’altra vita, lo sentiamo tutti che questa, per molti versi, ci sta stretta. Il fatto è che niente, a volte non lo riteniamo possibile. E questo c’entra con le immagini del divino, secondo me, c’entra parecchio, ci si professi credenti o no. Insomma una immagine così di un Dio amico e vicino e che “non ha vergogna” fa piazza pulita di tante incrostazioni mentali, e ci fa ripartire.

Certo la mente è quello che è e le incrostazioni mentali tornano, amano tornare, a volte si trova una via luminosa e viene voglia di dire ma ecco è così! Ci siamo, ci siamo è così! e la vita ordinaria aspetta e vuole riprenderci nelle sue dinamiche e così i pensieri, nei soliti collaudati e un po’ esauriti pensieri.

Ecco perché penso che queste buone notizie sono, possono essere, l’inizio (o la ripresa) di un lavoro, su di sé, e quindi ipso facto  sul mondo, sul cosmo (fin fino alle lontane stelle,sì). Ci si può applicare, siamo lavorabili dice il poeta e filosofo Marco Guzzi, e il fatto che siamo lavorabili è una gran buona notizia, una notizia che spesso ci dimentichiamo. Il lavoro ha alti e bassi e siamo spesso “sballottati da tutte le parti” (almeno io, lo sono), e il fatto che c’è Chi non ha vergogna di questo, ci aiuta e ci intriga,ci incolla di più in questo lavoro, della vita.

Buon Natale!

Loading

Mondo sommerso

La grossa sorpresa, quella che ci aspettiamo da tempo, alla fine potrebbe essere questa. Vita nel Sistema Solare, ma non sulla superficie di un pianeta. Piuttosto, sotto la superficie di una luna, in un ambiente protetto, custodito, nascosto.

Tra le lune di Giove, ce ne è una che si chiama proprio come il nostro continente, Europa. E così come il sogno europeo così bistrattato in questi anni, potrebbe riservarci delle sorprese, delle belle sorprese. Se ci crediamo, se ci andiamo a vedere, se ci poniamo attenzione.

Crediti: NASAJPL-CaltechSETI InstituteCynthia Phillips, Marty Valenti

Magari, andando sotto la sottile superficie delle cose, guardando in profondità. Mondo Sommerso si chiamava una rivista mensile di genere (ovviamente) subacqueo, che si è chiusa qualche anno fa. Avendo il papà e lo zio che facevano immersioni, sono abbastanza certo di aver sfogliato qualche numero della rivista, quando ero bambino. Quello che non pensavo, io e forse nemmeno mio zio (magari mio papà, da astrofisico, forse sì) è che dopo qualche anno avremmo guardato con interesse ad altri mondi sommersi. Come questo di Europa.

Loading

Quel vapore, da così lontano

Ogni tempo ha le sue specifiche domande, e questo si applica certamente anche all’astronomia. E’ proprio in questi anni, infatti, che la questione della eventuale vita extraterrestre ha acquisito una densità e una rilevanza che, per certo, non ha mai avuto in tutta la storia della scienza.

La scoperta di un numero sempre crescente di esopianeti è senz’altro ciò che ci spinge e ci incoraggia su questo specifico binario: ancora sul finire del secolo scorso per contare gli esopianeti conosciuti bastavano le dita delle mani, mentre oggi il numero, sempre in aggiornamento, supera tranquillamente il valore di quattromila. In pochissimi anni, dunque, si è innestata una vera rivoluzione in questo specifico campo, assolutamente senza precedenti. In altri termini: nell’indagine sui pianeti esterni al Sistema Solare c’è un punto di svolta, e quel punto di svolta è adesso.

Dall’angolo di vista dell’indagine scientifica, peraltro, la domanda se esista vita in ambienti extraterrestri, è necessariamente preceduta dalla domanda sul quali e quanti sono gli ambienti “adatti” alla vita.

Un grande passo avanti nell’articolare risposte a questa domanda è per certo la recente scoperta di una significativa quantità di vapor d’acqua nell’atmosfera di un pianeta piuttosto distante, chiamato K2-18b.

L’esopianeta K2-18b, e la sua stella sullo sfondo (e anche, l’altro pianetino)
Credit: ESANASAHubbleArtist: M. Kornmesser

Il pianeta si trova a circa 124 anni luce da noi, verso la costellazione del Leone. Va detto, non è proprio come la Terra, anzi è decisamente più grosso e pesante di questa. Tuttavia, è certo che orbiti ben all’interno della fascia di abitabilità della sua stella. Ah, e riguardo a quest’ultima, possiamo dire che è ben più rossa del nostro Sole (sì, è una nana rossa, per la precisione), ma per le relative distanze, brilla nel cielo del pianeta più o meno con la stessa intensità di quanto faccia la nostra cara stella per noi.

Loading

Sporcarsi le mani

Che non si possa vivere senza sporcarsi le mani, è una cosa abbastanza evidente — se non si è troppo prigionieri di schemi ideologici di qualsiasi natura — ed è tuttavia qualcosa che, al tempo stesso, così facile da dimenticare, che (almeno per me) ogni accenno ad una maggiore consapevolezza, è benvenuto e salutare.
E’ dunque con gratitudine che leggo un accenno all’omelia del 28 marzo di papa Francesco. Perché colpisce nel punto giusto, risana esattamente dove c’è da farlo.

“Il Signore a ognuno di noi dice: ‘Alzati, prendi la tua vita come sia, bella, brutta come sia, prendila e vai avanti. Non avere paura, vai avanti con la tua barella’. Ma vai avanti! Con quella barella, anche se brutta, ma vai avanti! E’ la tua vita, è la tua gioia. ‘Vuoi guarire?’, prima domanda che oggi ci fa il Signore? ‘Sì, Signore’ — ‘Alzati’”.

Così è molto bello, davvero molto bello e liberante, questo far piazza pulita di quel pantano melmoso di obiezioni parziali, mezze dette mezze pensate (quasi mai teorizzate compiutamente), tipo ma non sono bravo abbastanza, non sono in grado, oppure sì , ma con calma, devo prima sistemare questa cosa, limare quel difetto, arrivare a quel punto di perfezione, poi certo…

No, non è così che vanno le cose. Insomma, non è così che funziona l’universo. Così ci dice Francesco, che dell’argomento ne sa più di qualcosa (e credo che dica una cosa qui così importante, in maniera così semplice, da interessare ogni uomo, a prescindere da quel che crede di credere):

Non avere paura, vai avanti con la tua barella.

Mi fa bene rileggerlo. Ecco, siamo tutti impastati da questi pensieri, questi propositi di perfezione, che in realtà sono niente altro che erbe infestanti, scorie tossiche per la nostra creatività e la nostra gioia di vivere. Ma ne siamo davvero così impastati che a volte non ce ne rendiamo conto: ci vuole davvero un percorso di liberazione. Concreto, quotidiano.
Diceva Don Giussani che non bisogna coltivare progetti di perfezione ma guardare in faccia Cristo. Ovvero non guardare sé ma guardare altrove, un Altro, la sorgente del bello e del vero. Comunque guardare fuori da sé, alzare lo sguardo.
Diceva anche, in Certi di alcune grandi cose,

Sono diverso da come dovrei essere, ho vergogna, le Sue parole sono ben lontano da quel che faccio io. Lo scarto. Questa è la prima cosa tremenda, che bisogna che avvenga; anzi, prima di qualunque tentativo di coerenza, questa è la suprema coerenza. Qual è la suprema coerenza con Cristo, nel riconoscere Cristo? Che anche se tu sei un mucchio di letame, Cristo è più grande del tuo mucchio di letame…

Credo che siano parole che investono chiunque, qualsiasi cosa pensi dell’uomo Gesù Cristo, vissuto duemila anni fa in Palestina. Perché non si scappa dalla partita: si creda o no, comunque siamo soggetti a certe dinamiche di vita, che sono sempre quelle. Conoscerle, approfondirle, è parte importante di quel lavoro di ogni giorno, che accomuna uomini di ogni fede e ogni credo.
Mi dimentico facilmente questa verità elementare. Ogni bilancio che faccio su di me è incompleto, errato, deformato, alienante. Se prescinde da una Sorgente di irradiazione di bene e di gioia, che per la sua stessa esistenza permette una continua (e felice) rinegoziazione del reale, per come lo percepiamo.
E’ poi quello che si riverbera nella bella canzone di Samuele Bersani, La fortuna che abbiamo. Questo invito a vivere si appoggia alla bella musica e mi ricircola felicemente nelle vene, alleggerendomi di pesi non necessari.


Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti. Sono tutto. E ogni rivoluzione è anche linguistica.

Voglio spremere il tubetto fino in fondo
La fortuna che abbiamo
Ridipingere con un colore più intenso, meno opaco
E finalmente indelebile

Non è ipotizzabile, non è fisico, spremere il tubetto fino in fondo (cosa che in fondo tutti vorremmo) senza sporcarsi le mani (cosa che non vorremmo mai). E’ la dinamica della vita, né più né meno.
Annotava già Cesare Pavese nel suo diario, “No, non sono pazzi questa gente che si diverte, che gode, che viaggia, che fotte, che combatte — non sono pazzi, tanto è vero che vorremmo farlo anche noi.”

Il punto è che (solo) se c’è una Presenza amica, se dietro ai miei tentativi parziali e perfettibili esiste uno scenario di benevolenza, di amore incondizionato a me stesso e alla mia povertà creaturale, io posso sempre ricominciare. Posso riprovare, imparare dagli scarti di strada. Che spesso servono per crescere.
Il punto in fondo è vivere. Come mi ricorda Don Juliàn Carron (Appunti della “Scuola di Comunità” del 22 marzo)

Il segno è se noi siamo sempre di più coinvolti, se siamo sempre più intensamente implicati nel reale, se abbiamo la voglia di mettere la mani in pasta, senza pretendere che un altro ci dia la soluzione. È questo che potrà veramente far crescere la persona, farla partecipare di quella pienezza che Cristo vuole comunicare all’uomo nella storia. E questo, invece di svilire il cammino, fa sperimentare una tale energia da consentire di entrare nelle pieghe della storia, nella concretezza dei problemi.

La questione di urgente attualità, per chi crede, è anche redimersi da un concetto sbagliato di cristianesimo, da un modo errato di intenderlo, per il quale la cosa giusta sia porsi fuori dal mondo, o perlomeno contaminarsi il meno possibile.
Invece io credo che sia esattamente l’opposto. Dobbiamo entrare sempre più nella storia, non cercare di uscirne. Per tornare a Giussani, l’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale.
Sporchiamoci le mani. Possiamo farlo, se c’è un destino buono che ci attende. Lì, tra le stelle. Scrive Marco Guzzi in una sua poesia,

Chiara, te lo prometto, risorgeremo ./ Io, te, mamma, e Gloria e Gabriele/ Rideremo in eterno e un nuovo gioco / Impareremo a vivere tra Sirio / E l’Orsa Maggiore.

Abbiamo questa barella, sì? Ebbene, portiamocela appresso.
Camminiamo. Anche zoppicando, saltellando. Le stelle ci aspettano.

Loading

No alla violenza di genere

Forse sto per scrivere qualcosa di poco politically correct, ma perdonate, mi viene proprio dal cuore.
Eh sì, perché ad un certo punto, passando e ripassando nelle stesse occasioni (come la celebrazione dell’otto marzo, appunto) è come se uno ad un certo punto, intravedesse una trama. Come potesse finalmente vedere oltre i burattini e scorgere i fili. O se volete, scoprire quel gioco delle parti che ad un certo punto diventa difficilmente digeribile.
Quello a cui certo, puoi anche partecipare. Puoi ancora scegliere di partecipare.
Così fai i tuoi discorsi, punti il dito su tante cose esecrabili, ti vergogni un po’ — come maschio — delle prevaricazioni che tu o i tuoi amici o i tuoi antenati hanno compiuto.
Ma alla fine, il giorno della celebrazione svapora, e con esso tutto l’apparato ideologico a cui hai dato il tuo ennesimo tributo, tanto per tenerti in piedi, per essere moderno, ecco — non regge più.
Si sfalda, ed ora sei solo con te stesso.
La gente intanto, tra traffico e televisione, rientro e riaccompagno dei figli — allo sport, ai corsi di lingua — già archivia l’otto di marzo, pensa ad altro. Carica la mente con nuovi slogan, nuove distrazioni. Nuove giustissime celebrazioni, fresche sacrosante indignazioni (violenza di genere, sfruttamento del lavoro, muri con il Messico, scandali e mazzette, e così via).
Tutto questo evitando quasi sempre di scendere davvero alla radice. Come potesse rimanere un gioco di superficie, da farsi abilmente sul pelo dell’acqua.
Come se tributassimo ancora credito alla velenosa menzogna, per cui basta essere cittadini consapevoli per rifuggire dalla violenza verso le donne, o da ogni altro comportamento giudicato esecrabile.
Ecco, a questo mi sento di dire no, non ci sto.
Non ci credo. Mi state ancora prendendo in giro. L’educazione è necessaria e preziosissima. Ma non basta.
Se la mia vita (in ultima analisi) non ha senso, se mi raccontate tutti i giorni che è un accadimento casuale di un universo indifferente, qualcosa che termina con la mia morte, no: non chiedetemi pure di non essere “violento”.
Con le donne, con gli uomini o gli animali. Con le cose e con i miei pensieri, i miei sogni. Con le stelle, e la loro bellezza. Solo tempo perso, solo l’ennesima insopportabile retorica. Sarò violento comunque, al limite con me stesso (con la benevolenza “illuminata” della società progressista).
Datemi invece un senso, un senso per morire e dunque per vivere. Datemi questo infinito conforto. E io sarò docile e in pace, con la parte femminile e maschile dentro e fuori di me, e con le cose.
Ma fatelo, vi prego, fatelo subito. Del teatrino delle chiacchiere non se ne può più. E nemmeno di certe celebrazioni, quelle che due giorni dopo sono già dimenticate. Le donne non hanno bisogno di ipocrisia, non hanno bisogno di essere prese in giro.
E nemmeno gli uomini.

Loading

Vivere, davvero

A prescindere da tante fredde “battaglie per i diritti”, non so se c’è chi può davvero sentirsi sollevato, da come si è tragicamente conclusa questa triste vicenda del Dj Fabo. Di come una società civile non abbia di meglio da proporre che una uscita anticipata dal gioco a chi soffre un disagio, sia pure un disagio enorme. Credo sia piuttosto un caso in cui perdiamo tutti, a prescindere dalle nostre idee sul fine vita, o sulla vita in generale.
E in momenti come questi, non ritengo utile dare giudizi, tranciare sentenze. Sarebbe comunque ingannevolmente facile, vivendo in una condizione diversa. No. Non è questo il mio punto.

Il dolore umano è “sacro”. Ed è una domanda aperta, per tutti.
Il fatto non è, ancora una volta, quello dividersi per nuovi e vecchi diritti, facendo baccano per giunta in un momento in cui si dovrebbe riflettere, tacere, pregare. Non è ancora cedere alla lusinga della dialettica, dare spago alla nostra inesausta voglia di dividerci, di polemizzare. Di affermare un punto.
C’è infatti qualcosa di molto più profondo, di una limatura alla legislazione, in un senso o nell’altro. Di più cogente, del fatto che lo stato dica cosa puoi o non puoi fare.
Il fatto che mi sembra chiaro, è che abbiamo — come società secolarizzata — un fortissimo problema nella comprensione del dolore. Che il dolore abbia un senso, un significato, per la nostra comunanza umana, è quasi come una bestemmia laica, è una cosa che semplicemente non sta in piedi. La vita è sensata se e solo se si vive su un certo standard, altrimenti (detto alla spiccia) è soltanto una fregatura. Questo è il pensiero comune, dietro tantissimi discorsi elaborati o tante speculazioni sui nuovi diritti o sulla autodeterminazione e sulla libertà.

Paradossalmente, che il dolore abbia senso è una esigenza profonda per tutti, anche di chi in questo momento non soffre, o non soffre a questo livello.

Io però ho questo problema, che non riesco ad essere felice se non immagino, ipotizzo, se non mendico questo senso del dolore. E una sua misteriosa fecondità, per cui sia utile agli altri, al mondo, alle stelle, all’universo.
Beninteso, non sto dicendo se io sia o non sia in grado di viverlo, questo senso, in certe condizioni estreme. Non è un discorso di capacità, di bravura. Tanto meno di santità. Sto dicendo che comunque ci sono persone che lo hanno vissuto, e lo vivono, un dolore tremendo, dentro un orizzonte di significato, di senso. E di (misteriosa) fecondità.
La società che invece si ritrae davanti alla sofferenza, che commercializza perfino l’uscita dalla vita (perché c’è anche, tristemente, questo aspetto di monetizzazione), una società per cui in fondo tutto è mercato, non mi corrisponde — semplicemente, non corrisponde al mio cuore.
Non giudico, non inveisco contro la secolarizzazione, o la mancanza di ideali, o di spiritualità, o di un qualche generico afflato metafisico (anzi semmai dovrei giudicare me stesso, per quanto così spesso non riesco a trasmettere una speranza che mi è stata trasmessa). Dico solo che non è l’orizzonte che mi fa contento, che mi può far lieto.
Anche se non sto vivendo un dolore grande, sento asfittico questo clima. Pesa sul mio cuore, mi pesa. Mi duole.
Io per primo ho bisogno. Ho bisogno di maestri che mi insegnino. Mi insegnino, mi confermino nell’intuizione che la vita è misteriosamente feconda, per ogni Sì che uno pronuncia, che riesce a pronunciare, o a pensare di poter pronunciare.
Che la libertà (anche verso il proprio destino) non si gioca nell’assenza di legami, ma nel cercare qualcosa cui valga la pena agganciarsi: “col tempo abbiamo scoperto che non basta non avere legami per essere liberi. Oggi noi ci siamo sbarazzati di tutti i vincoli, ma non per questo le persone sono più soddisfatte. Le persone cominciano a rendersi conto che per essere liberi non basta non avere legami. Occorre qualcosa per cui valga la pena usare la libertà. Si tratta di trovare un motivo per il quale valga la pena muoversi, coinvolgersi con qualcuno o con qualcosa” (J. Carron, Intervista a Jotdown)
Non c’è in fondo cosa più bella e desiderabile (e ricercabile) di questa: che vi sia un senso profondo a tutto.
Anche — e soprattutto — alla sofferenza.

Loading

Page 3 of 4

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén