Blog di Marco Castellani

Giorno: 19 Marzo 2010

Acqua ghiacciata negli anelli di Saturno

Campeggiano in tutta la loro bellezza sulla copertina del numero di Science di questa settimana. Sono gli anelli di Saturno, ripresi e studiati in grande dettaglio dagli strumenti della missione Cassini, che da 6 anni inviano a Terra i loro dati. Grazie ad essi, il Cassini Rings Working Group, guidato da Jeff Cuzzi (NASA-AMES), ha tracciato un quadro esaustivo della struttura, composizione, evoluzione e dinamica degli anelli di Saturno.

Risultato: le particelle degli anelli principali denominati con le lettere “A” e “B” sono costituite per il 90-95% di ghiaccio d’acqua, mentre quelle dell’anello “C” risultano essere contaminate, probabilmente da carbonio e silicati di origine meteoritica.

Importante in questo senso si è rivelato il contributo italiano proveniente dall’analisi delle osservazioni dello spettrometro VIMS (Visual and Infrared Mapping Spectrometer) a bordo della sonda  Cassini, di cui l’ASI ha fornito il canale VIS mentre l’Istituto Nazionale di Astrofisica partecipa all’utilizzo scientifico dei dati prodotti.

Uno dei principali misteri degli anelli di Saturno è la loro caratteristica spettrale: le analisi effettuate nella banda di radiazione infrarossa danno forti indicazioni che siano composti di ghiaccio d’acqua puro. Un risultato inatteso, che non rivela tracce della presenza di altri componenti in essi, come ad esempio anidride carbonica, ammoniaca o metano, che pure sono stati osservati in piccole percentuali sulle lune ghiacciate di Saturno. A infittire il mistero ci sono poi le analisi condotte nella luce visibile. Gli anelli in questa banda di radiazione appaiono decisamente “arrossati”, e quindi sensibilmente diversi dal caratteristico colore blu-bianco tipico del ghiaccio d’acqua.

Dall’analisi condotta da Gianrico Filacchione (INAF-IASF Roma e coautore della pubblicazione) sui dati di VIMS, risulta che il grado di “arrossamento” degli spettri nel visibile degli anelli di Saturno sia strettamente legato con l’intensità delle bande del ghiaccio d’acqua osservate nell’infrarosso. Poiché entrambi questi parametri aumentano con lo stesso andamento nelle regioni degli anelli più dense (anelli A e B) si può dedurre che la natura del materiale che assorbe la radiazione ultravioletta, e dunque il “responsabile” dell’arrossamento osservato, sia strettamente legata al ghiaccio d’acqua delle particelle. Un simile effetto si può ottenere mediante limitate quantità di atomi di carbonio (catene PAH) o nanofasi di ossido di ferro (Fe3+).

“Questi importanti risultati indicano che anche gli anelli di Saturno possono contenere particelle di elementi contaminanti, spiegando così in modo naturale un effetto altrimenti misterioso”, commenta Angioletta Coradini, direttrice dell’INAF-IFSI di Roma e membro del team scientifico di VIMS. “Risultati come quelli descritti nell’articolo di Science sono stati possibili grazie alle notevoli performances dello strumento VIMS ed alla dedizione di giovani brillanti come Gianrico Filacchione, recentemente assunto come ricercatore dall’INAF”.

Con un diametro di circa 280.000 km ed uno spessore di circa 100 metri, il sistema degli anelli principali di Saturno è sicuramente l’oggetto piatto e sottile più esteso (oltre 44 miliardi di km quadrati) all’interno del Sistema solare. Fin dalla loro scoperta, avvenuta 400 anni fa, nel 1610 da parte di Galileo Galilei con il suo cannocchiale, gli anelli di Saturno hanno rivestito un ruolo fondamentale nello studio delle proprietà dinamiche, evolutive e della composizione chimica del Sistema solare esterno.

Gli anelli di Saturno ripresi dalla Sonda Cassini in copertina sul numero del 19 marzo 2010 di Science
(Crediti: NASA/JPL/Space Science Institute)


“VIMS, così come gli altri strumenti realizzati dall’ASI in collaborazione con la NASA/JPL per la missione Cassini, continua a lavorare perfettamente. Questo dimostra sia la qualità costruttiva degli strumenti che il livello di innovazione dei loro progetti. Infatti ad oltre 15 anni dalla loro realizzazione sono sempre in grado di fornire dati di eccezionale valore scientifico contribuendo ad incrementare ancora il numero di scoperte e la conoscenza del Sistema di Saturno”, dice Enrico Flamini, responsabile per ASI della Missione Cassini.

La sonda Cassini, frutto di una cooperazione internazionale NASA-ASI-ESA, continuerà a compiere osservazioni dettagliate degli anelli di Saturno fino alla conclusione della missione, prolungata recentemente di due anni, prevista nel 2017.

Articolo originale publicato su INAF Media

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Due buchi neri supermassicci al limite dell’universo visibile

di Sabrina Masiero, Dipartimento di Astronomia dell’Università degli Studi di Padova,  Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)-Osservatorio Astronomico di Padova

Questa rappresentazione artistica mostra uno dei più primitivi buchi neri supermassicci conosciuti (il puntino scuro centrale) nel core di una galassia appena formatasi e ricca di stelle. Crediti: NASA/JPL-Caltech.

Gli astronomi si sono imbattuti in quelli che sembrano i più primitivi e giovani buchi neri supermassicci mai conosciuti. La scoperta, avvenuta sulla base di lunghe osservazioni compiute dallo Spitzer Space Telescope della NASA, permetterà di approfondire meglio la conoscenza del nostro Universo e di capire meglio come si siano formati non solo i buchi neri, ma anche le galassie stesse che li ospitano oltre alle stelle che compongono le galassie.

Abbiamo trovato quella che possiamo definire la prima generazione di quasar, nati in un mezzo vuoto di polvere e ai loro primi stadi evolutivi” ha affermato Linhua Jiang dell’Università dell’Arizona, Tucson. Jiang è primo autore dell’articolo apparso ieri, 18 marzo, su Nature.
Come tutti gli oggetti massicci, anche i buchi neri producono distorsioni dello spazio-tempo. Quelli più massicci e attivi nel core delle galassie sono spesso circondati da strutture a forma toroidale (simili a delle ciambelle, per dare una visione più simpatica) di gas e polvere che sostengono e alimentano il crescente buco nero centrale. Questi buchi neri supermassicci sono chiamati “quasar”.

Da tempo si portava avanti l’idea che il primitivo Universo non dovesse avere polvere e, di conseguenza, anche i primissimi quasar dovessero essere privi di polvere. Finora non era stato possibile osservare quasar “immacolati”, ossia privi di polvere. Lo Spitzer Space Telescope ne ha individuati due a una distanza di circa 13 miliardi di anni luce di distanza dalla Terra. I quasar, denominati con le sigle J0005-0006 e J0303-0019, sono stati rivelati nella luce visibile utilizzando i dati della Sloan Digital Sky Survey. Il team che ha compiuto la scoperta, che comprende la ricercatrice Jiang, è stato guidato da Xiaohui Fan, co-autore del recente articolo all’Università dell’Arizona. Il Chandra X-ray Observatory della NASA ha rilevato emissione di raggi X da uno dei due oggetti e un fascio di luce nell’ultravioletto e nell’ottico da entrambi i quasar prodotto dal gas che li circonda, soggetto all’attrazione gravitazionale.
I quasar emettono un’enorme quantità di energia, rendendoli letteralmente osservabili al limite dell’universo visibile” ha affermato Fan.

Quando Jiang e colleghi iniziarono a compiere le loro osservazioni di J0005-0006 e J0303-0019 con lo Spitzer Space Telescope tra il 2006 e il 2009, le due galassie rientravano all’interno del campione di quasar da analizzare e non avevano nulla di atipico. Lo Spitzer misurò la luce infrarossa proveniente dai due oggetti insieme a quella di altre 19 galassie, tutte appartenenti ad una classe di quasar tra i più distanti mai conosciuti. Ciascun quasar possedeva un buco nero supermassiccio nel suo centro con masse di circa 100 milioni di masse solari.
Dei 21 quasar, i dati di Spitzer mostravano che J0005-0006 e J0303-0019 erano prive della firma caratteristica della presenza della polvere calda. La vista infrarossa di Spitzer ha trasformato il telescopio spaziale in uno strumento ideale per rilevare il bagliore caldo della polvere che era stata riscaldata man mano che si alimentavano i buchi neri.

Riteniamo che i primissimi buchi neri si siano formati al tempo in cui la polvere si stava formando nell’Universo, meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang” ha affermato Fan. “Il primitivo Universo non conteneva alcuna molecola che avrebbe potuto formare la polvere. Gli elementi necessari per questo processo sono stati prodotti e riversarti nell’Universo più tardi, dalle stelle“.

Infine, i ricercatori hanno notato che la quantità di polvere calda in un quasar cresce con la massa del suo buco nero. Man mano che un buco nero aumenta, la polvere ha tempo sufficiente per formarsi intorno ad esso. I buchi neri nel core di J0005-0006 e J0303-0019 hanno valori di massa più piccoli misurati finora nel primitivo universo, indicando che sono particolarmente giovani e ad uno stadio tale che la polvere non si è ancora formata intorno ad essi.

Fonte Jet Propulsion Laboratory: http://www.jpl.nasa.gov/news/news.cfm?release=2010-088 .

Sabrina

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