Ora so che sono necessaria… alla sinfonia

Mi è venuta in mente l’altra sera al concerto questo passaggio della antica e bella canzone di Kate Bush, Symphony In Blue. La posizione, intanto. La posizione è stupenda, in settima fila in platea. Così vicino che veramente il concerto diventa un vero e proprio evento. Cioè, per quanto un concerto dal vivo sia comunque un evento, anche ascoltato dall’ultima fila in galleria, è indubbio che in questo modo si gode di una posizione privilegiata, si fruisce il concerto in modo diverso.

Sarà banale, ma non te ne rendi conto fino a che non ti capita. Non ti siedi davanti e hai tempo di capire, prima che il concerto inizi, quanto sei vicino. Posti così costosi non li avrei mai comprati: è bello che esistano i regali, per questo. E gli amici che te li fanno: ai quali va il mio sincero ringraziamento.

E’ così, è tutto diverso.

E’ diverso nella quantità e qualità di informazioni che arrivano ai tuoi occhi. I componenti dell’orchestra, intanto: partiamo pure da loro. Li vedi, li vedi veramente. Non sono più delle figure in lontananza, sono delle persone vicino a te: dei volti, dei vestiti, dei corpi. Allora sì, li guardi entrare, li vedi prima del concerto, e sono normalissimi (l’avresti mai detto?): si scambiano qualche battuta, magari si grattano il naso, abbozzano un sorriso o fissano curiosi un punto, si mettono a posto il vestito… insomma, persone normali. Sono appunto questo, persone. Se le vedi lontane, sono come compresse in un ruolo, il loro essere persone svanisce, si assottiglia e non lo percepisci più. Sono dei puntini che suonano magari benissimo, ma ti sfugge la loro umanità.

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Non qui, non adesso.

Ci siamo. Entra Antonio Pappano, si porta al centro del palco, saluta, si gira. Un breve istante di sospensione, ed ecco inizia il concerto. E’ solo un attimo, e una magia improvvisa si propaga in tutta la sala, luminosa etera e veloce, iniziando dal primo gesto del direttore. Tutte queste persone – prima come disperse, ognuna seguendo i propri pensieri, i propri desideri, ponderando i propri crucci – ecco tutte, ad un solo gesto, tutte insieme si raccolgono, si ordinano, quasi come farebbero pezzettini di ferrite intorno ad una calamita, seguendo le linee di forza del campo. Come se un’onda invisibile e rapidissima si fosse propagata, dal centro verso la periferia.

Ora sono tutti ordinati, allineati, coerenti. Devono, perché sono necessari alla sinfonia.

Tutti concentrati su un obiettivo, un fine, Una costruzione. Perché la musica sinfonica è un lavoro comune, è un’esempio scoperto di una costruzione corale. Ognuno è necessario e ognuno può contribuire alla migliore riuscita dell’impresa, semplicemente aderendo al suo ruolo. Sia un primo violino o il percussionista, la cosa non cambia, la cosa è quella.

Il concerto per pianoforte n. 2 di Prokofiev, visto ed ascoltato da così vicino, è uno spettacolo assoluto. Grandissimo merito alla pianista, la giovanissima Yuja Wang. Ora, dire che è brava è assolutamente un understatement. Perché la realtà è molto, molto più frastagliata e sorprendente.  Bella, certamente bella la ragazza. Non molto alta, indossa scarpe con tacchi non proprio trascurabili. Ma la sorprese iniziano quando si siede al piano.

Intanto, lo spartito. Lo spartito non c’è.  

Ora, io mi rendo conto che uno possa suonare Tanti auguri a te senza spartito, potrei quasi farlo io. D’accordo. Ma non so se avete idea di cosa sia il secondo concerto per pianoforte e orchestra di Prokofiev. Io anche non ne avevo idea, prima di ascoltarlo. Di sbatterci il muso davanti, dovrei dire. Perché Prokofiev è ispirato ma anche molto muscolare, ti muove delle masse sonore addosso che non puoi facilmente scansarti. Soprattutto, non vuoi farlo, perché c’è della bella ricchezza in quel che arriva alle orecchie.

Comunque sia, è un pezzo di una complessità incredibile. Difficilissimo per il solista… ancora più impressionante che la ragazza abbia affrontato tutto senza dover nemmeno leggere una nota. La bravura è diventata ben presto evidente anche per chi non conosceva la partitura (come il sottoscritto). Ma su tutto, il senso mirabile di intesa, con l’orchestra, con il direttore, una soave e dolce sincronia che rendeva di nuovo lecito indulgere in un senso di armonia universale… 

Così, mentre il concerto si snoda, ho il tempo di scuotermi di dosso la sensazione ottusa di normalità, che troppo spesso mi accompagna. Quella per cui senza dirmelo, ho deciso che in realtà non ci sono molte occasioni per stupirsi. Quello che sta accadendo davanti a me mi costringe, almeno per qualche decina di minuti mi prende per mano e mi costringe, ad ammettere che mi sto sbagliando.

Ecco il senso di un evento. Ti sblocca dalla situazione in cui ti sei messo, ti sgancia dal tuo sistema di riferimento e ti immerge in una prospettiva più ampia, diversa, aperta. Rivoluzionaria, nel senso del sommovimento delle tue consuetudini, dei tuoi rapporti di forza interni… l’arte è sempre rivoluzionaria. E uno può uscire anche più contento.

E non c’è niente di così rivoluzionario, come una persona contenta. 

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