Blog di Marco Castellani

Categoria: dizionario Page 3 of 6

Silenzio

Ciò che mi avvince di più di questi due giorni che precedono la Pasqua, è che sono i giorni del silenzio. Il silenzio è spettacolare, per me. Semplicemente spettacolare. Più vado avanti nella vita più sento che il silenzio è uno spettacolo. Più cresco più avverto il silenzio come confacente al cuore.
E’ proprio strano. A volte ciò che mi fa più paura e ciò che mi fa bene coincide, viene a sovrapporsi. Il silenzio è una di queste cose. Sì il silenzio fa paura, siamo abituati a temerlo. Nel flusso continuo di informazioni che proviene dai media, non c’è ormai più niente che possa preoccupare davvero, che possa imbarazzare, che possa agitare. Tutto quello che fluisce in televisione, in radio, su Internet, viene immediatamente scansato, sovrastato da quello che passa un momento dopo. Tutto si dimentica, ogni scandalo, ogni eccesso, ogni apparente trasgressione. Tutto.

Tutto, certo, tranne il silenzio. 
L’unica regola, lo sappiamo, è che il flusso non si può interrompere. The show must go on. Questo è l’unico vero problema, l’unico vero scandalo. Il resto passa. Il resto è spesso tristemente funzionale al mantenimento dello status quo, anche quando si ammanta di pretese sovversive o rivoluzionarie.

Dico ciò, sia chiaro,  non per indulgere nella critica della cattiveria dei tempi, perché questi sono tempi per molti versi immensamente migliori di tante altre epoche, e di questo dobbiamo essere grati. Lo dico piuttosto come tentativo di uno sguardo onesto sulla realtà, uno sguardo amichevole ma onesto.

Perché mi rendo conto che nell’epoca attuale l’unico scandalo è il silenzio. L’unica cosa completamente altra rispetto alla trama ordinaria della comunicazione globale. Nell’epoca della globalizzazione informatica, la rivoluzione è l’assenza di segnale, il silenzio.

Tolta la pressione esterna, può avvenire il riequilibrio. Interrotta la bulimia informativa, quella che trattiene inesorabilmente in superficie, riparte quasi spontaneamente la connessione con strati più profondi.

Avviene, riprende almeno come possibilità, il lavoro interiore, l’ascolto di sé, la ricerca di senso. Pervade il cuore la dolce possibilità di un ricominciamento. Quel lavoro su di sè che davvero rende giovane l’anima, accende qualcosa che palpita e riscalda da dentro, profondo e robusto.

Qualcosa di fragile, fragilissimo, che va coltivato amorevolmente, perché anche un poco di questo lavoro umile, questo affondare le mani nel (proprio) terreno, subito ripaga. Così ci si può accorgere che il silenzio, l’attesa, riverbera la possibilità inesausta di fare pace con sé stessi, di darsi pace.

Che poi è l’unico vero importante lavoro della nostra vita. Questo paziente lavoro sull’anima – più di tanti proclami e roboanti risoluzioni – è quello che davvero può cambiare la vita, può innescare la vera, unica rivoluzione.

Può veramente assumere un riverbero pasquale, può veramente rimetterci in vita. 

Questo post rappresenta il mio secondo contributo al sito Darsi Pace. 

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Economia (ex rivoluzione)

“Per uscire dalla crisi non basta una correzione alla finanza” dice un interessante articolo apparso sul sito PiccoleNote.it. E’ piuttosto emblematico ai miei occhi, perché già stabilisce un ponte, un collegamento. Una ipotesi di relazione. Con qualcosa che vive al di fuori dei meccanismi economici-finanziari.

Già stabilisce, in poche parole, come l’universo dell’economia non sia chiuso in se stesso ed in sé completo, autoreferenziale. Che in esso trovi le regole e che possa interamente giocare la partita per il risanamento senza scomodare altri ambiti, non è più dato per scontato.

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C’è la percezione ormai diffusa che questo non sia vero. Che cioènon basti mettere insieme – magari con accortezza e bravura – dati dalle pagine Affari & Finanza dei vari giornali, per far tornare i conti. Che framework del tutto distanti possano giocare un ruolo. Anzi, che possano essere (ri)scoperti come attori indispensabili e fermenti ineludibili, per questo compito.

E non è banale, tale acquisizione. Almeno secondo quanto vedo, quanto sento.

E’ una cosa dell’aria.

E’ questione dell’aria che respiri, non so se hai presente. Tu non è che devi argomentare qualcosa, decidere qualcosa di particolare. Ragionare su un insieme di problemi, di relazioni, di priorità. C’è qualcosa che respiri nell’aria, che informa le cose e i rapporti tra le persone, suggerisce in maniera sottilmente ipnotica una scala di valori. Qualcosa che cambia nel tempo, e magari nemmeno te ne accorgi. Non te ne accorgi e segui. Perché seguire il flusso è la cosa che ti fa fare meno fatica. Segui pensando di essere originale, addirittura. Invece immetti solo una tua debole modulazione su un segnale portante, che viene fuori da te, e tende prepotentemente a pilotarti. 

E’ una tendenza messianica deviata, se dovessi proprio dire cos’è. Un anelito di assoluto, che per una tensione di impazienza, cerca di declinarsi in una modalità interamente conosciuta e conoscibile. Interamente razionalistica. L’inganno può durare un tempo limitato, comunque. Cosicché sottilmente sfuma, ad un certo punto, ed ecco che subentra un’altra cosa: sorge un altro miraggio, un altro orizzonte, un’altra fraintesa percezione di salvezza.

Se affondo la memoria del mio poco più di mezzo secolo di vita, arrivo fino agli anni ’60 e ’70. L’aria era allora  davvero satura di questa vibrante aspettativa di rivoluzione. Era quello il nuovo, era quello che sembrava rilucere di promesse. Le cose che non andavano erano semplicemente contro la rivoluzione. Era difficile scappare da questo sistema di pensiero, che innervava profondamente la cultura la scuola, i libri di testo (anche più della politica realmente esperita). 

Poi, è cambiato. Il vento è cambiato. La tanto attesa rivoluzione del popolo – sanguinosamente smentita dagli eventi – ha smesso di essere la salvezza per gli uomini colti e gli intellettuali, ed è rimasta opzione valida (nella sua forma originale) appena per qualche nostalgico affezionato. Comunque sia, ormai fuori dal mainstream. 

Un altro idolo si affacciava ormai alla coscienza collettiva.

E ad un tratto era lei, l’economia. Era il reale. Il resto erano orpelli, sovrastrutture. L’economia era il nucleo. Era lì dove avvenivano le cose: il resto erano – appena – bei discorsi. 

E se l’economia si ammala, il problema in questo quadro è del tutto economico. E’ qualcosa che rivela una malattia all’interno e dunque – secondo tale logica – si deve poter risolvere parimenti dall’interno. Muovendo priorità, definendo procedure, architettando vie di soluzioni. Senza andare al di fuori, espandere. Rendendo il modello inossidabile e completamente blindato all’imprevisto.

Dice Luigi Giussani che “l’attesa dell’imprevisto è la nota dominante di tutta la storia della coscienza umana.” Se questo è vero, la rimozione della categoria di imprevisto (in questo caso, dalle analisi politiche ed economiche) – come ogni rimozione psicologica – non è senza conseguenze.

Notate come, fino alla fine, l’idolo tende comunque ad autoorganizzarsi. Un tempo, davanti alle rivoluzioni finite nel sangue, si diceva che erano state rivoluzioni sbagliate. Ovvero non si cercava al di fuori del paradigma. Semplicemente, si diceva che il paradigma era stato applicato male, era stato tradito. 

Con la piccola imbarazzante evidenza (per uno che appena ragioni) che il paradigma diventa così totalmente non falsificabile. Può resistere a qualsiasi evidenza storica. A qualsiasi devastazione, qualsiasi quantità di sangue versato, di libertà tolte, di diritti umani violati. 

Questo gioco si realizza anche per l’economia, come possiamo facilmente vedere. Persiste la tentazione di cercare all’interno del gioco dell’economia stessa gli strumenti correttivi che comunque, per convergenza universale, si rendono necessari.  

L’articolo citato in apertura è interessante perché denuncia una industria malata di finanziarizzazione. Ancora più interessante la nota a margine, dove leggo 

… resta il dubbio se sia possibile che la risposta a questa situazione globale possa venire da un ambito, quello economico, che ha manifestato  in questi anni tutti i suoi limiti strutturali, che tra l’altro hanno impedito a quasi tutti gli “esperti” del settore di allarmare il mondo sui rischi prodotti dalle derive economiche degli anni pre-crisi (e oltre).

 Qui la necessità di allargare lo sguardo viene introdotta nel discorso – sia pure a livello di ipotesi –  come elemento cardine. 

Non c’è nulla di sbagliato nell’economia (come nell’anelito all’uguaglianza, peraltro). E’ che vanno trattati, azzardo, non dimenticando altri fattori. Altrimenti diventano parzialità impazzite di un tutto la cui organicità corre il grave rischio di disperdersi sempre di più.

Leggo dal libro di Marco Guzzi, “La nuova umanità”

Dovremmo comprendere che in realtà è la carenza di idee adeguate alla sfide del tempo che rende, per esempio, la nostra Europa cos’ stagnate e depressa anche da un punto di vista economico. La fecondità e l’autentico sviluppo economico, infatti, quello cioè che non distrugge ma arricchisce l’umanità corrispondendo a tutta la complessità dei suoi bisogni, dipende e discende dalla vitalità inventiva e creativa dei popoli, non la produce

Dunque bisogna guardare più alto. Unificare e non parzializzare. Ricongiungere e non segmentare, dividere e distinguere in una fuga infinita di saperi impazziti nella loro stessa parzialità. L’economia da sola non si spiega, non si comprende: rimanda ad altro. 

C’è un uomo nuovo da creare, una nuova umanità, appunto.

Siamo appena sulla soglia. Eppure da qui, dal formarsi di persone con questa consapevolezza, può forse (ri)partire tutto…  

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Disordine

Esiste una forma di disordine che è benefica, che è pulsione vitale. C’è quel senso di apertura, di salutare provvisorietà di forme e di situazioni, che fa respirare. Quel margine quasi sacro di imprevedibilità che ti porta a pensare non è tutto qui, c’è altro. 
 
Come se ci si trovasse di fronte non ad un fenomeno composto ed in sé compiuto, ma ad un segnaposto per la realtà, segno di qualcosa che la attraversa in verticale, che la salva dalla terribile comprensibilità di essere senza sfumature (interamente comprensibile, e dunque, limitata). 
 
 
 
Altrettanto chiaramente esiste un ordine che è malato, deficitario, segno di mancanza. Quell’ordine che riduce il reale alla presentazione razionale ed anzi razionalistica degli enti (appunto) ordinati, che manca di quel guizzo di creatività e mistero per far intuire qualcosa ma non pienamente.
 
Certe figurazioni psichiche malate possiedono un ordine apparente superiore del disordine fisiologico dello stato più sano. Certi stati fisici di massimo ordine (come i cristalli) sono segno di qualcosa di fermo, di bloccato, di statico: di morto, in ultima analisi. Mentre il disordine, il caos, può essere tipico di sistemi in movimento, in evoluzione. Non lineari, ovvero di difficile prevedibilità. Non li inquadri con un pensiero pigro, non li incaselli facilmente in qualche tua categoria bella e pronta: ti sfuggono da tutte le parti. Ci vuole una grande quantità di informazione (potrei dire, di fatica, di attenzione) per descrivere un sistema di questo tipo, ce ne vuole pochissima per descrivere uno stato di massimo ordine.
 
A volte quando tutto è troppo al suo posto mi sento a disagio, mi viene una misteriosa stretta al cuore. E’ tutto a posto, va bene, però manca un punto di fuga, un margine di evasione, uno spazio per dire, per pensare, che questo possa essere appena il bordo, la rappresentazione di altro.
 
A volte un ordine è come per dire non c’è niente oltre questo mentre a volte è proprio per dire il contrario, per dire siccome c’è qualcosa di bello posso farlo riverberare anche con l’ordine. Che buffo.
 
Dunque un ordine è bello se funziona come apertura a qualcosa, se attraverso la bellezza richiama ad un ordine più profondo (abbastanza profondo che sfugga alla piena comprensione e catalogazione). E un disordine è bello se non è chiuso in se stesso, ma perfino nella sua provvisorietà, nella sua scomodità, rimanda ad una domanda, ad un grido.

Ha avuto una vita disordinata, si dice a volte. Forse il disordine è per questo, è un tentativo graffiante  -scomposto, se volete – di cercare un ordine nelle cose, rilevare un segno luminoso, stanare una pista. Cercare una strada di percorribilità al reale
 
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Disordine

Esiste una forma di disordine che è benefica, che è pulsione vitale. C’è quel senso di apertura, di salutare provvisorietà di forme e di situazioni, che fa respirare. Quel margine quasi sacro di imprevedibilità che ti porta a pensare non è tutto qui, c’è altro. 
Come se ci si trovasse di fronte non ad un fenomeno composto ed in sé compiuto, ma ad un segnaposto per la realtà, segno di qualcosa che la attraversa in verticale, che la salva dalla terribile comprensibilità di essere senza sfumature (interamente comprensibile, e dunque, limitata). 
Altrettanto chiaramente esiste un ordine che è malato, deficitario, segno di mancanza. Quell’ordine che riduce il reale alla presentazione razionale ed anzi razionalistica degli enti (appunto) ordinati, che manca di quel guizzo di creatività e mistero per far intuire qualcosa ma non pienamente.
Certe figurazioni psichiche malate possiedono un ordine apparente superiore del disordine fisiologico dello stato più sano. Certi stati fisici di massimo ordine (come i cristalli) sono segno di qualcosa di fermo, di bloccato, di statico: di morto, in ultima analisi. Mentre il disordine, il caos, può essere tipico di sistemi in movimento, in evoluzione. Non lineari, ovvero di difficile prevedibilità. Non li inquadri con un pensiero pigro, non li incaselli facilmente in qualche tua categoria bella e pronta: ti sfuggono da tutte le parti. Ci vuole una grande quantità di informazione (potrei dire, di fatica, di attenzione) per descrivere un sistema di questo tipo, ce ne vuole pochissima per descrivere uno stato di massimo ordine.
A volte quando tutto è troppo al suo posto mi sento a disagio, mi viene una misteriosa stretta al cuore. E’ tutto a posto, va bene, però manca un punto di fuga, un margine di evasione, uno spazio per dire, per pensare, che questo possa essere appena il bordo, la rappresentazione di altro.
A volte un ordine è come per dire non c’è niente oltre questo mentre a volte è proprio per dire il contrario, per dire siccome c’è qualcosa di bello posso farlo riverberare anche con l’ordine. Che buffo.
Dunque un ordine è bello se funziona come apertura a qualcosa, se attraverso la bellezza richiama ad un ordine più profondo (abbastanza profondo che sfugga alla piena comprensione e catalogazione). E un disordine è bello se non è chiuso in se stesso, ma perfino nella sua provvisorietà, nella sua scomodità, rimanda ad una domanda, ad un grido.

Ha avuto una vita disordinata, si dice a volte. Forse il disordine è per questo, è un tentativo graffiante  -scomposto, se volete – di cercare un ordine nelle cose, rilevare un segno luminoso, stanare una pista. Cercare una strada di percorribilità al reale.

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Fede

La fede cristiana ci riporta cioè ad una esperienza del tutto ordinaria, quella in base alla quale noi nasciamo e cresciamo attraverso la parola umana, e specialmente quella parola benevola e amorevole che dice Bambino mio, quanto ti voglio bene e se non ce lo dice con pieno affetto noi soffriamo da morire: Questo è il rapporto di Dio con l’uomo: DIo parla con l’uomo bene-dicendolo, e parlando con lui con amore incondizionato gli forma una identità spirituale libera, lo risana da tutte le male-dizioni familiari e storico-culturali che lo hanno ferito… 

(Marco Guzzi)

Così la fede calma e soddisfa il bisogno di amore e protezione che ti porti dentro, viene a levigare quella ferita che segna i rapporti con le persone, con le cose. Quella ferita originata tanto tempo fa, che ti porti ancora appresso, che segna i rapporti con il mondo e con le cose. Non è niente di automatico: è’ una sfida, per cui ogni volta bisogna ripartire. Ogni volta e sempre si può ripartire. Ogni mattina si può dire di no (anche se magari gestiamo diecimila attività parrocchiali o di gruppi cattolici, movimenti) oppure dire di sì. In fondo, mi dico, quello che conta – quello che ora serve – non è tanto l’enunciazione teoretica di alcune verità, ma il lavoro che facciamo su queste.

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Per guardare il mondo con amore, serve questo, appena questo, sentirsi amati…

Così vedo le cose, e  possiamo ben dire che non è la prima volta che su questo blog si ragione intorno a questi argomenti. Eppure ogni volta che ci ritorno, mi sembra di illuminare la cosa da un angolo leggermente diverso (come il satellite GAIA, che vedrà una stessa stella anche settanta volte, ogni volta portando nuovi dati, così possiamo fare qui, per quello che ci preme di più… )

Queste cose le scrivo qui per me, in fondo, e fanno parte di qualcosa non sistematizzato, ma in perenne ebollizione interiore. Le scrivo per me per coltivare e far crescere un luogo dove io possa riflettere su me stesso e sentirmi a mio agio. Un luogo che penso in questo modo, morbido e conciliante. Un luogo dove le parole non servono a ferire, a distinguere, a separare: ma servano innanzitutto per guarire. Sempre da Marco Guzzi, prendo in prestito un’altra frase: 

.. La scrittura, infatti, possiede di per sé un’incredibile potenza di autoconoscimento e di guarigione.

Ci vedo dei colori pastello, leggeri. Ci vedo l’idea di un tranquillo pomeriggio di sole, vissuto al riparo di un fresco pergolato, magari. Una casa riparata e tranquilla, ma non isolata. Qualcosa costruito con le parole, parole di guarigione…

Fateci caso. Le parole che guariscono sono sempre quelle che intendono correttamente le cose. Tante cose sono state dette sulla fede, tanto alto è il rischio di fraintendere, di restare imprigionati in definizioni sbagliate, limitanti, castranti. Quella di Marco Guzzi che ho messo in apertura, fa risuonare qualcosa di bello in me, tiene vivo e zampillante un desiderio buono di pace e di assestamento psicologico costruttivo, di superamento di tutto ciò (laico o clericale che sia stato) che mi ha fatto male, mi ha ferito… un desiderio dolce di guarigione, appunto. 

Perché il punto è questo. Mi accorgo che la fede viene vista da molti come qualcosa… che non è. Come se un cristiano (o un buddista, un induista, se volete) dovesse avere un ricettario, una lista di cose che non può fare, di curiose limitazioni – come se fosse uno che vuole complicarsi la vita. Invece vuole semplificarla, vuota gustarsela. Senza starsi a tormentare troppo per il fatto che siamo limitati, che possiamo sbagliare. Peccato, davvero peccato,che ti fanno credere che per gustarla devi starci lontano, dalla fede… 

Insomma, cosa è per me, la fede? La fede è – anche – la possibilità di scorgere un significato in ogni cosa e in ogni circostanza. E’ non giudicarsi (io non giudico nessuno, neanche me stesso, diceva Don Giussani), è essere lieti di essere amati, come si è (anche se io sono un mucchi di letame, Cristo è più grande del mio mucchio dl letame, sempre Giussani).

Su tutto, sapere… sentire… che io sono amato, adesso.

Sapere che mi posso rilassare, perché sono molto, molto amato. 

Ecco il punto. Ecco il punto vertiginoso fondamentale dell’universo. Essere amati.

E’ tornare a giocare col mondo, come si faceva da bambini. Perché si giocava fino a che si pensava, si intuiva, che tutto avesse un significato. Che ci fosse una presenza buona a proteggerci, a tirarci fuori dai guai, qualsiasi cosa avessimo combinato. Quando abbiamo bevuto il veleno che – a volte con le migliori intenzioni – ci hanno somministrato (niente ha valore, tutto è opinione, niente esiste in fondo, tutto è appena una accorta flessione del discorso), ecco che abbiamo anche immediatamente smesso di giocare. Magari abbiamo detto sì sì, così stanno le cose, siamo adulti, siamo cresciuti e – fateci caso – abbiamo smesso subito di giocare, di divertirci.

Senza la fede la vita ti diventa una cosa dannatamente seria. 

Ora a me pare una cosa, cioè che a volte siamo così impastati di questo veleno, credenti e non credenti, che si dura una fatica da matti. Ogni giorno dire e ripartire, rifiutando il nichilismo e la sottile (più o meno quieta) disperazione. Ogni giorno scegliere di appartenere…

Al fai ciò che vuoi perché niente ha valore in sé preferisco il Ama e fai ciò che vuoi di Agostino.

C’è un abisso, in mezzo. Grande come la possibilità di avere un cuore – di nuovo – lieto.

Poi non facciamo noi le cose, anzi se ci mettiamo di mezzo noi, di solito facciamo guai. Perché abbiamo questa tentazione di decidere noi, di voler sistemare noi, di non lasciarci andare, di non affidarci. Di pensare che ci sia sempre un’alternativa più furba. Penso che sia una tentazione nota ai praticanti di ogni religione, di qualsiasi forma di spiritualità. 

Tanto che sempre Giussani, individua proprio qui la drammaticità della vita: “La drammaticità della vita consiste nella lotta tra la pretesa affermazione di sé come criterio della dinamica del vivere e il riconoscimento di questa Presenza misteriosa e penetrante” (citato in Vita di Don Giussani di Alberto Savorana, al Capitolo XVI).

Questa drammaticità, d’altra parte, fa sì che venga perennemente chiamata in causa la nostra libertà. E che nessuna adesione sia mai un atto meccanico ed automatico, come una sorta di tessera acquisita una volta per tutte – ma qualcosa che va scavato ed indagato sempre. 

La cui convenienza, appunto, è da ricercare ogni giorno. Così che uno si butta, idealmente, nella vita e fa la verifica. La verifica della convenienza della fede. 

E’ questo il cammino, mi pare di poter dire. E’ questo che può rendere la strada, una strada  bella.

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Stelle

“Scusate un momento, ma quello che state facendo, cosa c’entra con le stelle?”

Da Vita di don Giussani

Ammasso globulare NGC 6388
Dati del Telescopio Spaziale Hubble
Crediti: NASA, ESA, F. Ferraro

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Amore

Bella storia parlare dell’amore, oggi. Impegnativa. Sull’amore si sono scritte milioni di righe, si è detto di tutto, si sono scontrate teorie ed opinioni. Allora piuttosto che parlarne ancora, oggi si può soltanto lasciare uno schizzo, un’impressione.  

Un’ombra di parola, un taglio di luce. 
Un tassello in un mosaico. 

Ecco cosa proviamo, 
qui.

Cos’è che mi fa andare verso l’altro? Perché non mi basto? Come mai l’innamoramento svapora ad un certo momento? Poche chiacchiere: stiamo a ciò che accade. Accade che puoi trascorrere ampi margini di vita quotidiana vicino a tua moglie o tuo marito senza quasi guardare chi hai accanto. E poi d’un tratto, per una parola, una attenzione, una carezza, ti ritrovi dentro quel fatto, il fatto che sei innamorato ancora… 


Cavolo, ti viene da pensare. Proprio quando avevi pensato che ne eri fuori. Che avevi teorizzato che l’amore era roba per giovani. Che sì, certo, ti dispiaceva abbastanza non essere più innamorato, ma almeno avevi capito come vanno le cose.
Invece no, non sei uscito dal gioco. E non ti raccapezzi più (sei contento, ma non ti raccapezzi).
Tutto cospira a pensare che si stia girando attorno ad un mistero. Per chi vive da tanto tempo insieme ad una altra persona, il mistero dell’abbracciare la differenza si fa vivo in tutta la sua ineluttabile luccicanza. 

Nell’amore si fa esperienza di qualcosa di più grande, di un mistero che eccede i due e che si esprime con un sospiro, non certo un sospiro di rassegnazione, ma un sospiro che esprime un anelito. Se non c’è sospiro è inevitabile cadere nella pretesa verso l’altro e nella rabbia per la propria ed altrui inadeguatezza. (Eugenia Scabini, qui e di seguito)

La verità, vi prego, sull’amore. Mai come in questo caso non riesco più a sopportare elucubrazioni e discorsi disancorati – secondo me – dalla semplice verità delle cose. 

Il matrimonio viene spesso contrabbandato come un’armonia magica, mentre è un’impresa che ha in sé un’evidente drammaticità, in cui le differenze sono un dato naturale e ineliminabile. Non serve applicarsi a limarle, come se volessimo cloroformizzare la realtà e, in fondo, negarla.

Questo è il discorso più onesto che potrei fare sull’amore coniugale. Questo è il parlare più spogliato di illusioni e velleità e desideri e più possibile ancorato alla vita reale, così come mi appare davanti agli occhi, ogni giorno. 
Diminuisce, inevitabilmente, la passione più istintuale. Ma di più, più di questo. Svapora l’illusione che la presenza dell’altra persona sia la chiave di interpretazione del cosmo, dell’universo, della vita. Di essere al riparo dall’esigenza di senso, dalla ricerca.
Eppure c’è qualcosa che cresce, dicevamo. Qualcosa che nella fase di innamoramento non si può nemmeno sospettare.
Certo cresce appunto il senso della distanza, del fatto che l’altra persona sia inesplicabilmente diversa da come siamo noi. Sia diversa anche da come la vorremmo, in fondo. 
Ma non è questo, non è questo che mi stupisce, dopo tanti anni di matrimonio. Questo casomai mi fa arrabbiare, disperare, deprimere – quando non lo accetto, quando non lo voglio accettare.
Il che avviene ancora troppo spesso.
Eppure non è questo il punto.
Quello che mi stupisce, quello che cresce e mi stupisce, è notare come tutta questa distanza venga coperta, abbracciata, travalicata. Dall’amore. Succede. Succede ed è una cosa francamente incomprensibile. Cioè, tu vedi questa persona così insanabilmente differente da te che ti vuole bene, e tu capisci anche – con grande costernazione, con commozione e costernazione insieme – che tutte queste differenze non impediscono che tu le voglia bene

Due persone che vivono l’esperienza dell’amore vero “sospirano”, perché attraverso l’altro si affacciano all’infinito, tenendosi per mano si incamminano insieme verso il compimento di entrambi.

E volersi bene attraverso le differenze (non dico sforzarsi di farlo, intendo proprio vedere che accade) scusate ma per me resta un mistero. Un mistero che non censura nulla (la noia, la stanchezza, i risentimenti, tutto quello che volete). L’amore provato e temprato di un matrimonio ha una robusta architettura – un punto di stabilità, anche davanti alle mancanze dell’uomo e della donna, alla loro luminosa e commovente imperfezione – che non ha confronti, nemmeno con quello bellissimo sfavillante dell’innamoramento. Diciamolo, è proprio un mistero.
Un mistero che si va approfondendo e rendendo più presente, ogni giorno che passa. 

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Mattino

Lo sappiamo tutti, in fondo. Il punto di scelta, il perno che decide del senso di rotazione della giornata, è posto proprio all’inizio. E’ il mattino.

...improvvisamente mi sono accorta che il mattino presto era stupendo; c’era quell’aria fresca, pulita, e soprattutto la percezione della preziosità dell’inizio, perché nell’inizio c’è la percezione del divino, nell’inizio c’è il divino, l’inizio è gesto del Mistero, è gesto del divino.

Adriana Mascagni (da Tracce, Ottobre 1999)

Il canto di Adriana che mi torna ogni tanto alla mente, parla proprio del mattino.. 

Al mattino, Signore, al mattino

la mia anfora e vuota alla fonte

e nell’aria che vibra e traspare

so che puoi farmi grande, Signore

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 E’ bellissimo e per me molto istruttivo rilevare le diverse posizioni umane rispetto ad un inizio, al più semplice e quotidiano degli inizi, quello del giorno. Seguo ancora il canto di Adriana perché capisco che mi sta dicendo qualcosa, suggerisce una posizione umana che mi pare degnissima di attenzione…

E le ore del giorno, al mattino

di tua gloria son tenera argilla.

Uno è l’alveo del mio desiderio:

che io ti veda, ed è questo il mattino

Questa chiarezza di sentire non è sempre immediata. Troppi strati di pensiero si interpongono, rendono torbida l’interfaccia con il mondo esterno. Eppure riconosco che è il punto importante, il punto al quale voglio tendere. La direzione verso la quale guardare. Certo spesso mi sento diverso, mi sento fin troppo moderno, se così vogliamo dire. Quel sentimento opaco, quella strana disaffezione verso la propria vita e verso se stessi, a volte rischia quasi di atterrarmi…

When you wake in the morning,

Wake and find you’re covered in cellophane.

(Genesis, Abacab)

Quando ti svegli la mattina / ti svegli e si scopri avvolto nel cellophane. Allora è questo: a volte c’è come una membrana tra me e le cose, tra me e le persone, tra me e i sentimenti. Il primo compito, il lavoro necessario, è prenderne atto, pazientemente. E poi, provare a intaccare, spezzettare il diaframma, superare la membrana, ritornare a toccare. A toccare le cose, ad abbracciare le persone. Ad entrare in contatto anche con i sentimenti. E’ un lavoro che può iniziare dal mattino e prolungarsi poi nell’arco della giornata. Un lavoro che fa più bella la giornata stessa. 

Se accolgo questo lavoro, il lavoro, tutto si fa più bello. All’Essere, basta sapere che sto lavorando. Non Gli importa molto se riesco o se fallisco, ma quello che guarda è il mio atteggiamento, questo supremo punto della libertà. Così intimo e… cruciale.

And in the morning, will you still feel 

the same? How’re you gonna 

stop yourself from going 

insane, with glowing children 

and a barrel of pain? I don’t 

want to hear it no more, no more.

Graham Nash, Barrel of Pain (Half Life)

Ed al mattino, si senti ancora lo stesso? Con bimbi irrequieti e un il tuo serbatoio di dolore… Si potrebbe lavorare tanto su temi come questo, mi dico. Scriverci dei racconti. Provo ad immaginare, ad inventare un inizio, così per gioco…

Sonia si svegliò presto quel mattino, il pianto del piccolo Luca nella camera attigua la strappò da un sogno buffo e pesante. Ci mise qualche secondo per ricaricare in memoria la situazione. Quella manciata di secondi in cui sperò – ebbe il tempo di sperare – che fosse andata in un modo diverso. Sperò che il confine tra i sogni e il reale fosse in un posto diverso da dove sembrava che fosse. Che qualche pezzo sgradevole di realtà fosse soltanto un sogno. Ma durò un attimo soltanto e l’altro lato del letto era lì per dimostrare che non era un sogno. C’era stato, Davide, c’era stato. E ora non c’era. Il dolore e la rabbia ci misero un attimo, scesero dal cervello al cuore e subito dopo a stringerle la pancia. Ecco il serbatoio del dolore che esplodeva. Andato. L’unico regalo che le restava, un graffio sul seno sinistro. Ma ora doveva alzarsi. C’era qualcuno che aveva fame. Qualcuno che avrebbe avuto davvero bisogno del suo seno, che ne avrebbe fatto un uso certamente migliore…

Certo. Ci vuole fatica, a volte, per mantenere l’apertura. Il pensiero rinunciatario è lì ad aspettarti, ad un livello energetico più basso. Ci puoi arrivare facilmente, ma è energia degradata, ha meno capacità di produrre lavoro (te lo dice anche le termodinamica). L’apertura a volte è uno strappo nel cuore, uno strappo anche su tutte le valutazioni che hai di te stesso o della situazione in cui sei.

Perché il mattino è sempre e comunque il regno dell’eterna possibilità. 

Al Mistero piace sfidarci costantemente «in questo mondo reale», senza tentennare nelle cose che fa! Per questo Dio sceglie quelle circostanze che possono mettere di più davanti ai nostri occhi chi è Lui e quale straordinaria novità può generare nel mondo. E questo dovrebbe rallegrare ciascuno di noi, perché significa che allora non c’è situazione, momento della vita o storia che possa impedire a Dio di generare qualcosa di nuovo. (Julian Carron)

Ecco, generare qualcosa di nuovo. Così il mattino recupera costantemente ed instancabilmente la bellezza di un nuovo inizio. Un po’ come diceva acutamente Pavese, 

L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante.

  Nel mattino vi è l’eterna gloria del riprendere: tutto è fresco ed intatto, come nello stupendo brano di Grieg. L’universo attende la nostra scelta, riparte da zero docile alla nostra disposizione interiore. Ed è questo che rende il gioco interessante… 

Nessun giorno è uguale all’altro, ogni mattina porta con sé un particolare miracolo, il proprio momento magico, nel quale i vecchi universi vengono distrutti e si creano nuove stelle.

Paulo Coelho

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