Blog di Marco Castellani

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A casa, in un universo più amico

Mi colpisce che alla fine, al di là di ogni strategia mentale che possiamo avere, che possiamo decidere, le cose sono sempre semplici, più semplici. Sì. Sono sempre semplici. In fin dei conti, basta aderire alla realtà così come ti si presenta davanti, ti si srotola davanti, e non c’è — non ci sarebbe — da pensare altro. E’ forse una forma di onestà ultima verso il reale, probabilmente la forma più radicale ed anche più difficile. Perché ci costringe a lasciare da parte la progettualità compulsiva, quella a cui siamo tenacemente avvinghiati come a qualcosa di vitale, per lasciare andare davvero.
Stare alle cose, così come accadono, è dunque la cosa più semplice e più difficile insieme. Ma ecco, per quanto vi si riesce, per la minima percentuale che vi si riesce, è sempre una liberazione. Ed è qualcosa che sorpassa sempre i nostri schemi, deborda la nostra misura.
Non avrei mai pensato, prima, di trovarmi una mattina a parlare di astrofisica, nuove particelle, e nuova concezione dell’uomo, in un dialogo denso e significativo, per giunta con un collega ed amico, il prof. Amedeo Balbi. E in diretta nazionale, su Radio Uno. E’ accaduto, invece, ed è accaduto giovedì 13 luglio, nell’ambito della trasmissione Eta Beta, condotta da Massimo Cerofolini.
La catena di causa ed effetto è molto meno lineare, molto meno angusta, di quanto pensiamo. C’è sempre spazio per imprevisti che superano, debordano da questa idea di meccanicismo così pervasiva, ma così avvilente.
Dunque la causa potrebbe ritrovarsi nel fatto che Massimo ha avuto l’occasione di ascoltarmi parlare del progetto AltraScienza, ma in realtà non è una spiegazione esaustiva. Che la mattina dopo ci siamo trovati “per caso” (quanto nasconde di non conosciuto, di sottilmente misterioso, questa espressione!) a colazione insieme, con la nostra Gabriella. E da questa serie di avvenimenti “casuali” è maturata questa proposta. Però non sono convinto. Infatti, non sono cause, sono segni.
La trasmissione la potete ascoltare in podcast, nel sito di Ray Play Radio. Massimo è stato veramente bravo nell’aprirci ad uno spettro senz’altro vasto di argomenti — che prendevano spunto dalle scoperte più recenti, per poi lanciare un affondo sulla concezione dell’uomo, e del rapporto con l’Infinito, che rimane comunque agganciato in modo misterioso e profondo alla libertà del singolo ricercatore. E a farlo nello spazio tutto sommato ridotto, di una ventina di minuti.
Quello che non si può forse ascoltare è tutto ciò che non è andato in onda, tutte le onde che si spostavano su frequenze diverse da quelle radiofoniche, che vibravano nell’umanità delle persone e dei rapporti, e che hanno avvolto questa occasione di una densità di significato importante, per chi scrive.
Che gli hanno fatto capire, ancora più persuasivamente, che c’è una strada da percorrere. Che c’è una “AltraScienza” davvero emozionante (che fa palpitare il cuore, per la sua connessione con tutto) che i tempi stanno prepotentemente chiedendo. E che noi, umilmente, continueremo ad esplorare. A domandare, anzi. Con Thomas Berry infatti possiamo dire che

“Non ci mancano certo le forze dinamiche per costruire il futuro. Viviamo immersi in uno sconfinato oceano di energia. Ma questa energia, in definitiva, è nostra non per dominio ma per invocazione.”

E forse arrivare a riconoscere, come disse (con felicissima iperbole) Luigi Giussani quella volta, davanti a Giovanni Paolo II, che

“È il mendicante il vero protagonista della storia”

Siamo qui per aderire a questa commossa invocazione, che coinvolge tutto il cuore dell’uomo. E che per questo esatto motivo, è una operazione di una maestosa, direi cosmica, dignità.

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Sporcarsi le mani

Che non si possa vivere senza sporcarsi le mani, è una cosa abbastanza evidente — se non si è troppo prigionieri di schemi ideologici di qualsiasi natura — ed è tuttavia qualcosa che, al tempo stesso, così facile da dimenticare, che (almeno per me) ogni accenno ad una maggiore consapevolezza, è benvenuto e salutare.
E’ dunque con gratitudine che leggo un accenno all’omelia del 28 marzo di papa Francesco. Perché colpisce nel punto giusto, risana esattamente dove c’è da farlo.

“Il Signore a ognuno di noi dice: ‘Alzati, prendi la tua vita come sia, bella, brutta come sia, prendila e vai avanti. Non avere paura, vai avanti con la tua barella’. Ma vai avanti! Con quella barella, anche se brutta, ma vai avanti! E’ la tua vita, è la tua gioia. ‘Vuoi guarire?’, prima domanda che oggi ci fa il Signore? ‘Sì, Signore’ — ‘Alzati’”.

Così è molto bello, davvero molto bello e liberante, questo far piazza pulita di quel pantano melmoso di obiezioni parziali, mezze dette mezze pensate (quasi mai teorizzate compiutamente), tipo ma non sono bravo abbastanza, non sono in grado, oppure sì , ma con calma, devo prima sistemare questa cosa, limare quel difetto, arrivare a quel punto di perfezione, poi certo…

No, non è così che vanno le cose. Insomma, non è così che funziona l’universo. Così ci dice Francesco, che dell’argomento ne sa più di qualcosa (e credo che dica una cosa qui così importante, in maniera così semplice, da interessare ogni uomo, a prescindere da quel che crede di credere):

Non avere paura, vai avanti con la tua barella.

Mi fa bene rileggerlo. Ecco, siamo tutti impastati da questi pensieri, questi propositi di perfezione, che in realtà sono niente altro che erbe infestanti, scorie tossiche per la nostra creatività e la nostra gioia di vivere. Ma ne siamo davvero così impastati che a volte non ce ne rendiamo conto: ci vuole davvero un percorso di liberazione. Concreto, quotidiano.
Diceva Don Giussani che non bisogna coltivare progetti di perfezione ma guardare in faccia Cristo. Ovvero non guardare sé ma guardare altrove, un Altro, la sorgente del bello e del vero. Comunque guardare fuori da sé, alzare lo sguardo.
Diceva anche, in Certi di alcune grandi cose,

Sono diverso da come dovrei essere, ho vergogna, le Sue parole sono ben lontano da quel che faccio io. Lo scarto. Questa è la prima cosa tremenda, che bisogna che avvenga; anzi, prima di qualunque tentativo di coerenza, questa è la suprema coerenza. Qual è la suprema coerenza con Cristo, nel riconoscere Cristo? Che anche se tu sei un mucchio di letame, Cristo è più grande del tuo mucchio di letame…

Credo che siano parole che investono chiunque, qualsiasi cosa pensi dell’uomo Gesù Cristo, vissuto duemila anni fa in Palestina. Perché non si scappa dalla partita: si creda o no, comunque siamo soggetti a certe dinamiche di vita, che sono sempre quelle. Conoscerle, approfondirle, è parte importante di quel lavoro di ogni giorno, che accomuna uomini di ogni fede e ogni credo.
Mi dimentico facilmente questa verità elementare. Ogni bilancio che faccio su di me è incompleto, errato, deformato, alienante. Se prescinde da una Sorgente di irradiazione di bene e di gioia, che per la sua stessa esistenza permette una continua (e felice) rinegoziazione del reale, per come lo percepiamo.
E’ poi quello che si riverbera nella bella canzone di Samuele Bersani, La fortuna che abbiamo. Questo invito a vivere si appoggia alla bella musica e mi ricircola felicemente nelle vene, alleggerendomi di pesi non necessari.


Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti. Sono tutto. E ogni rivoluzione è anche linguistica.

Voglio spremere il tubetto fino in fondo
La fortuna che abbiamo
Ridipingere con un colore più intenso, meno opaco
E finalmente indelebile

Non è ipotizzabile, non è fisico, spremere il tubetto fino in fondo (cosa che in fondo tutti vorremmo) senza sporcarsi le mani (cosa che non vorremmo mai). E’ la dinamica della vita, né più né meno.
Annotava già Cesare Pavese nel suo diario, “No, non sono pazzi questa gente che si diverte, che gode, che viaggia, che fotte, che combatte — non sono pazzi, tanto è vero che vorremmo farlo anche noi.”

Il punto è che (solo) se c’è una Presenza amica, se dietro ai miei tentativi parziali e perfettibili esiste uno scenario di benevolenza, di amore incondizionato a me stesso e alla mia povertà creaturale, io posso sempre ricominciare. Posso riprovare, imparare dagli scarti di strada. Che spesso servono per crescere.
Il punto in fondo è vivere. Come mi ricorda Don Juliàn Carron (Appunti della “Scuola di Comunità” del 22 marzo)

Il segno è se noi siamo sempre di più coinvolti, se siamo sempre più intensamente implicati nel reale, se abbiamo la voglia di mettere la mani in pasta, senza pretendere che un altro ci dia la soluzione. È questo che potrà veramente far crescere la persona, farla partecipare di quella pienezza che Cristo vuole comunicare all’uomo nella storia. E questo, invece di svilire il cammino, fa sperimentare una tale energia da consentire di entrare nelle pieghe della storia, nella concretezza dei problemi.

La questione di urgente attualità, per chi crede, è anche redimersi da un concetto sbagliato di cristianesimo, da un modo errato di intenderlo, per il quale la cosa giusta sia porsi fuori dal mondo, o perlomeno contaminarsi il meno possibile.
Invece io credo che sia esattamente l’opposto. Dobbiamo entrare sempre più nella storia, non cercare di uscirne. Per tornare a Giussani, l’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale.
Sporchiamoci le mani. Possiamo farlo, se c’è un destino buono che ci attende. Lì, tra le stelle. Scrive Marco Guzzi in una sua poesia,

Chiara, te lo prometto, risorgeremo ./ Io, te, mamma, e Gloria e Gabriele/ Rideremo in eterno e un nuovo gioco / Impareremo a vivere tra Sirio / E l’Orsa Maggiore.

Abbiamo questa barella, sì? Ebbene, portiamocela appresso.
Camminiamo. Anche zoppicando, saltellando. Le stelle ci aspettano.

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Lavorare la crisi

Sono io in crisi con la religione o è la religione stessa ad essere in crisi? Bella domanda. Del resto, l’osservatore influenza il fenomeno, me lo dice la fisica. 

Ma la crisi c’è, su questo non posso barare.

Non basta ripetermi “Dio mi ama, Gesù è morto per me” perché tutto vada a posto. Luigi Giussani diceva anni fa come “Quello che manca nella Chiesa non è tanto la dizione letterale dell’annuncio, ma l’esperienza di un incontro…” e la verità di queste parole mi brucia aspra sulla pelle.

Siamo sofisticati, oggi. Non mancano certo le offerte spirituali, nell’odierno mercato globale. Né mancano variegate proposte di percorsi psicologici, le innumerevoli ginnastiche, o le offerte culturali, quelle letterarie o specificamente poetiche. Ogni proposta sul “mercato” è sovente capace di andare in grande dettaglio in quello che propone, affondare “in verticale” su un determinato e ben specifico segmento. Ma rimane come chiusa in sé stessa, slegata da tutto il resto. Quello che non trovo, è una visione forte che garantisca una unificazione armonica di tutto questo. Che sia necessaria e non appena un anelito culturale o estetico, me lo dice – assai concretamente – la mia sofferenza. C’è un vuoto, che fa male. «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?» si chiedeva realisticamente Giussani, citando Eliot. C’è una ferita da abbandono, comunque, da sanare.

Credit: Hubble: NASAESA, & D. Q. Wang (U. Mass, Amherst); Spitzer: NASAJPL, & S. Stolovy (SSC/Caltech)

Darsi Pace può essere un approccio utile per lavorare (in) questa crisi. Arriva come ipotesi di risposta ad una ricerca che avevo dovuto avviare, non certo per motivi di erudizione, bensì spinto da un malessere sempre più pungente. Il malessere che mi ha spinto, più di un anno fa, a vincere paure e resistenze e cercare aiuto da un terapeuta. Quel malessere che mi ha portato a leggere di psicologia, iniziando a comprendere che c’è molto di più dell’ambito asfittico in cui vedevo avvizzire la stessa scienza e il mio lavoro di astrofisico, e che “quello che non si vede” ha una influenza decisiva sul benessere dell’anima. Quel pungolo che mi porta a frequentare la poesia, che trovo sia ormai l’unico modo di esprimersi totalmente “non retorico”. Oppure ad interessarmi ai filosofi orientali e allo Yoga, superando le mille resistenze interne ed esterne (“ma è robba da cristiani? E’ peccato? ma non te stai a sbajà? E se poi perdi la fede? Se mi diventi buddista, induista?”).
Questa crisi mi ha portato a sentire spesso la fede come drammaticamente scollegata dai miei entusiasmi, dalle mie pulsioni: sovente – nelle pratica di vita – tradotta quasi esclusivamente in una serie di gabbie morali contro cui covava e cova (con imbarazzo e sensi di colpa) un forte ed indistinto risentimento. In questo senso, nell’approccio di Darsi Pace ho intravisto una possibilità percorribile di tenere la fede e tutto il resto, insieme, in armonia.
Nessun’altra proposta psicologico-spirituale che finora ho incontrato mostra di prendere sul serio tutto quello che il mio cuore mi indica come valido, dalla meditazione orientale ai testi di Jung, alla poesia. Nessun’altra proposta mi dice così chiaramente che se spesso non avverto la divinità come amore ma come severo giudice non è perché sono sbagliato (…e via con altri sensi di colpa!) ma è solo perché devo fare un percorso, devo guarire.
Il malessere adesso assume parvenze più lavorabili. In darsi pace ho una ipotesi di lavoro in più. Un luogo di salutare ricominciamento. Una possibilità di fare un cammino, o meglio, di integrare ed inverare il cammino spirituale che già faccio, psicologico (con la terapeuta) e culturale (nel mio lavoro di astrofisico) e artistico (nella mia vocazione per la scrittura, che mi ha sempre accompagnato, anche se non sempre l’ho voluta riconoscere). La scoperta, per me, è che questo nuovo e urgente lavoro non sostituisce niente, nemmeno le altre mie appartenenze – ecclesiali e non – ma le rende tutte più vere. Sorprendente, a viverlo.
Nell’ambito di Darsi Pace capisco che se sto male non è solo un problema mio personale, ma è legato ad un travaglio universale, cosmico. Così la domanda di partenza inizia ad ammorbidirsi, gemmano possibili traiettorie di risposta. Che differenza vedere i miei personalissimi disagi – che iniziano a diventare più morbidi – sotto questa luce!
Già, ammorbidire il disagio, lavorare la crisi, senza più scandalo. 
«Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Isaia, 30, 15)
E’ questo il motivo per cui darsi pace, ora, è diventato così importante nel mio percorso.

La foto rappresenta un’immagine astronomica del centro galattico, sede di intense trasformazioni e di un ‘travaglio cosmico’ veramente impressionante Se guardiamo al cielo, scopriamo che – a differenza di quanto si pensava un tempo – l’Universo stesso è in subbuglio e in furiosa trasformazione, non è mai stagnante: l’astronomia moderna ce lo mostra continuamente, suggerendo evocative connessioni con il palpito del cuore dell’uomo moderno. In particolare, la zona centrale della Via Lattea è un posto dove bellezza e violenza convivono fianco a fianco, intarsiato di zone dove nascono tumultuosamente nuove stelle, dove cioè il nuovo si origina in una sorta di continua nascita, mentre il vecchio viene spazzato via e fagocitato dal buco nero di grande massa, che vi si trova al centro.
Questo post è la leggera rielaborazione (con link aggiunti) di un mio contributo al sito Darsi Pace.

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Sailing

Salpare. Smetterla con questa vista già ben saputa, di barche ormeggiate al porto: alzarsi ogni giorno, colazione e quotidiano e chiacchiere per convincersi che no, oggi forse fuori c’è maretta, meglio non muoverci. Aspettare, non rischiare più di tanto, rimanere in porto…. Invece no. Salpare. Andare in mare, perché la barca è fatta per questo. Vivere ogni situazione fino in fondo, vivere sempre intensamente il reale (L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale, senza rinnegare e dimenticare nulla dice Don Giussani, e quanto viene dimenticato quando non fa comodo al nostro gioco di sponda, di piccole infelicità covate, di quieta invidia per una vita piena).

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Vivere sempre tutto, anche gli sbagli viverli – quando capita di sbagliare – e poi si può comunque tornare indietro a chiedere scusa, a chiedere perdono. Non siamo perfetti non pretendiamo da noi stessi la perfezione. Smettere di stare a valutare la robustezza dello scafo, a fare conti sterili su quanto e dove potrebbe portarci se solo ci decidessimo. No no, invece partire salpare prendere il largo. Onorare la vita che ci chiede di vivere. Sentire il vento sulla faccia lo spruzzo dell’acqua fredda e salata che ti urta ma ti fa capire ti fa sentire che sei vivo e che stai facendo quello che devi fare, vivere. 

Cast the lines away

From the dock at the harbour bay

All those cares and worries and woes

You can save them for another day

Because we’re sailing, sailing

Yes we’re sailing, sailing

(Mike Oldfield, Sailing)

Lasciamo la paura di sbagliare dietro, lasciamocela scorrere sulla pelle e disperdersi nel vento. Paura di sbagliare? Ma  certo che sbagliamo, come possiamo evitarlo? Io ho sempre fatto solo sbagli ma uno sbaglio che cos’è cantava Lucio uno dei grandi della nostra canzone (uno dei due grandi). E anche un tipo che magari non è stato sempre nelle mie preferenze musicali, Noi siamo liberi, liberi, liberi di sbagliare siamo liberi liberi di volare… Che poi uno che ha scritto una canzone come Sally e soprattutto l’ha affidata alla Mannoia, che gli vuoi dire… 

Ora stavo pensando comunque che la frase di Vasco liberi di sbagliare mi piace molto molto di più di una frase che uno potrebbe dire liberi di far ciò che vogliamo … Sì la seconda mi sembra più fredda, liberatoria solo in apparenza. Perché nella prima si sente la presenza di un sistema di riferimento, nella seconda, nell’apparenza di una permissività globale, in realtà c’è il triste segno di un nichilismo sconsolato, per dire alla fine è tutto uguale, siamo soli… Orribile a dirsi, orribile e invalidante solo a pensarsi. Lo sbaglio è più dolce della tentazione dell’autonomia perché c’è qualcuno (o Qualcuno) che ha cura di te, non è tutto freddo e uguale, c’è una strada. Come dire, vivere e (anche) sbagliare sapendo che c’è comunque un papà che ti guarda, che ha cura di te, non è la stessa cosa che far quel che ci pare perché tanto a nessuno importa di ciò che fai (purché non lo disturbi). Io la leggo così. 

Comunque questo è anche per salutare il ritorno di un mio vecchio amico, uno di quelli con cui ho condiviso tanti anni. Uno di quelli che quando serve è sempre lì, a volte non sai cosa dire ma non fa niente, lui non ha bisogno di parole ti offre la sua musica e tu lasci che sia lei a parlare, lasci che sia il suo ritmo a scaldarti il cuore quando sente freddo (I let the drums do the talking, cantava Nik Kershaw tanti anni fa, in uno splendido pezzo). Come un riepilogo veloce – quando ne avessi bisogno – del fatto che le cose belle ci sono, esistono

Mike Oldfield è così. Uno di quelli che ha fatto sempre musica della più varia possibile, dai pezzi sinfonici alle suite progressive fino alle canzoni più commerciali. Ma l’ha fatto e lo fa a modo suo, personalissimo (come ogni vero artista) e io riconosco e leggo e avverto il codice sottotraccia che attraversa tutta la sua produzione, dai pezzi ambiziosi e folli e fantastici come Amarok alle canzoni – se vogliamo – più radiofoniche come quelle di Man on The Rocks. Il messaggio di speranza  (parola forte eh) che passa in tutta la sua produzione, mi arriva nelle cellule, le riorganizza, riattiva le dinamiche virtuose sopite, mi rimette in assetto, mi restituisce un po’ di allegra baldanza.

E’ musica – finalmente! – non intrisa di relativismo o nichilismo, è musica che dice quello che il tuo cuore cerca, esiste e lo dice in ogni nota, lo dice in una canzonetta con voce e chitarra o in un pezzo complicatissimo e progressivo. Ti dice che puoi navigare, che è bello navigare, perché la vita in fondo è buona. Ti dice che in fondo vale la pena. E’ semplice, non so come è, ma l’avverto subito. Ascolto due o tre note in fila, la sua chitarra, e avverto sempre questo messaggio, vale la pena. E così lo avverto in questo ultimo lavoro. D’accordo, sono canzonette (ma di che qualità, comunque), se proprio volete dir così. Ma la struttura interpretativa del reale che trasmette, è quella che più mi fa bene, mi costruisce, mi fortifica. 

Bentornato. 

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Benvenuto papa Francesco

Sono rimasto un attimo interdetto, quando ho sentito il nome. Come molti, probabilmente. Eppure mi è bastato attendere qualche momento, vederlo affacciarsi con quel modo così affabile.. è bastato quel Buonasera con cui si è presentato, misto di gentilezza e premura…

Stavo portando mio figlio in palestra, erano da poco passate le sette di sera. Mi arriva un SMS da mia moglie con scritto soltanto papa (mia moglie è ampiamente sintetica nei messaggi). Per un attimo penso papà. Qualcosa a  che fare con i figli. Mi sarò scordato qualcosa? papà devi fare questo, mi devi portare… Boh. Eppure arriva da mia moglie. Poi capisco. Papa. 

Porto Andrea in palestra. Faccio un giro con la macchina e poi ritorno a prenderlo all’uscita. Cavoletti, vorrei andare a casa ma c’è troppo traffico: non ce la faccio ad arrivare in tempo per vedere la diretta. Ormai andare direttamente a San Pietro non è praticabile, arriverei tardi e sarà già pienissimo di persone. Ritorno alla palestra di Andrea anche se è presto.
Come da copione, sono in anticipo e devo aspettare mezz’ora. Che faccio? Mi metto nel parcheggio e inizio a guardare la diretta dall’applicazione ThePopeApp dall’iPhone. L’avevo scaricata qualche giorno fa, quasi per curiosità. Ora che ci sia bella pronta e disponibile è – possiamo dirlo – quasi una benedizione. Sono un po’ a corto di batterie, speriamo di farcela… 20%… 10%… Ce la faccio, ce la faccio ancora. Così riesco a non perdermi i momenti in cui papa Francesco si affaccia, seguo il suo discorso, posso ricevere la sua benedizione.
(Però andiamo, chi ci avrebbe mai pensato, che avrei seguito i primi momenti del nuovo pontefice in un parcheggio di una palestra, seduto in macchina con l’iPhone che trasmette lo streaming…!)
Così posso stupirmi dell’essenzialità che Francesco porta, la sua mite gentilezza fa breccia in quell’attimo di iniziale incertezza. Avevo le mie ‘simpatie’, come tutti, com’è naturale, probabilmente. Ma pure – almeno un pochino – la consapevolezza che grazie al cielo c’è Chi interviene e dunque mi posso pienamente fidare.

E a casa mia moglie mi ricorda che l’abbiamo anche “incontrato”. E’ venuto tempo fa, a celebrare delle cresime nella basilica dove andiamo di solito. Amico del sacerdote che abbiamo seguito per anni. Poco dopo, la sorpresa di ascoltare l’intervista in televisione a Don Donato, che ha battezzato due dei miei figli, parroco di una chiesa non lontano da casa mia. 

Così tutto si incastra, per me. Segni di una storia personale che continua. Una traiettoria che nonostante tutte le resistenze e le deviazioni, invita sempre di più ad affidarsi al Mistero, a dire Sì a Cristo e a dirlo spesso
C’è una Storia grande che si riverbera in tante storie personali, in un modo misterioso e penetrante e adeguato ad ognuna. Non so spiegare come mai, ma lo avverto in modo sempre più netto, limpido: le circostanze sono per me, sono un invito alla mia libertà. 
Dice Don Giussani, in una frase che mi risulta sempre più vera, fino a diventare quasi un criterio di interpretazione del reale…. Le circostanze per cui Dio ci fa passare sono fattore essenziale e non secondario della nostra vocazione, della missione a cui ci chiama. 
Sono perché cresca, perché io cresca: così sono aggangiato a tutti e (quando ho questa coscienza) tutto mi interessa. Così – oso dirlo – anche questo papa, questo regalo dato alla Chiesa, in fondo, è per la mia crescita, per il mio percorso di guarigione/conversione, è… per me.

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Pazienza

Questa è una cosa che voglio impazientemente. Eh sì, perché con ciò mostro subito il fianco, espongo il punto debole. Sono impaziente, lo ammetto. Impaziente di ottenere quello che voglio, impaziente di uscire da ogni forma di disagio (fisico, psicologico). Ecco come sono, interiormente impaziente.

Poco giova appoggiarsi alle usuali considerazioni di come il vivere moderno favorisca, insieme con una certa inconsapevolezza esistenziale, anche una marcata impazienza. Basta mettersi in macchina, per capirlo. Abbiamo tutti fretta di arrivare da qualche parte, in qualche luogo, per parlare con qualcuno, vederlo, fare, decidere. Non sopportiamo ogni piccolo impedimento. Io per primo, in auto devo lottare contro la mia impazienza. Se uno va piano davanti a me sono impaziente, se uno mi lampeggia dietro sbuffo.

Traffic ?
Ecco una classica (e ben nota) occasione di pazienza…

Forse è un indice di come spesso non stiamo bene con noi stessi. Ci portiamo dietro i problemi irrisolti, le incomprensioni coniugali, le frustrazioni lavorative, il senso di felicità insoddisfatto. Ci illudiamo che spostandoci rapidamente possiamo lasciar dietro il disagio. Invece spesso esponiamo noi e altri ad inutili rischi. In ultima analisi perdiamo di vista la sacralità dell’esistenza, che è di ogni istante.
Forse è anche che la nostra società è impostata sul fare. Rimanendo in superficie, è inevitabile che il fare abbia il predominio. Ti illudi di salvarti (ovvero, come proiezione immediata, di trovare il senso) facendo e riuscendo nel tuo fare.  Quindi uno è sempre inquieto, non riesce a riposarsi a lungo perché ogni acquisizione è temporanea e soggetta a variazioni.
E’ un segno della mancanza di profondità. Mi colpisce la frase di Don Giussani che leggo oggi su Tracce di novembre, perché capovolge il punto di vista (quello che tante volte è esattamente il mio). Era in una lettera a delle persone che andavano in Brasile per seguire la propria vocazione, ma mi pare abbiano una portata universale:

Non è importante quello che riuscirete a fare: è decisivo quello che riuscirete ad essere. Noi vogliamo il Regno di Dio: per il Regno di Dio – da Cristo in poi – è importante quello che si é, non quello che si riesce a fare… 

Il Regno implica la discesa nella profondità di noi. Cadere nel centro di noi stessi, dove ci aspetta l’Assoluto. Restare in superficie è restare invischiati in questa frenesia del fare. 
Il fatto è che non si riesce ad aver pazienza gratis. Non ci si acquieta senza la percezione di un bene in atto, di un presente positivo. Anche se il giorno prima fosse successa la cosa più bella del mondo, ho bisogno che succeda qualcosa adesso. Altrimenti, annaspo, non respiro.
Quindi la pazienza vera si incontra con la contemplazione. Percepisco qualcosa di bello che mi aiuta a vivere non uscendo dai miei guai ma attraverso i miei guai. 

La pazienza cresce e si modula attorno alla consapevolezza delle cose belle. Alla percezione, che penso possa essere educata (attraverso un lavoro), che la realtà è positiva. Ed è all’opposto della rassegnazione, perché la prima ha come una energia buona, una frequenza alta, la seconda no. Nella prima si è in accordo con il cosmo, con la totalità. E’ un “assenso” anche faticoso, ma fecondo; nella seconda ci troviamo in sterile “opposizione”.
Dice ancora Giussani (in Certi di alcune grandi cose):

La pazienza è il modo di portare la totalità o di portare tutto verso la totalità. E’ una energia, la pazienza, non un subire o una rassegnazione. La rassegnazione è la non vita, la pazienza è la dinamica del vivere. “Nella vostra pazienza possiederete voi stessi” – dice Cristo -. Questa è la pazienza,  è la strada al possesso.

Che la pazienza sia strada al possesso è una cosa quasi paradossale, contro la quale gran parte di me si ribella (diciamo, contro la quale il mio ego fa una battaglia furibonda). Se non fosse, che quando alla fine cedo a questo, ecco. Mi sento immediatamente meglio…

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Quando fuori piove…

Fuori piove, ascolto smooth jazz negli auricolari. A casa le persone sono dietro le varie attività, computer, televisioni. Vedo gocciolare dalla finestra. Davanti al mio naso, non molti metri in linea d’aria, c’è un bel pino grande. Sta in silenzio, assorbe l’acqua che gli cade addosso. Oserei dire che è contento.
Alle volte sono nervoso, teso. Misteriosamente. Spesso lo sono in molti, del resto. Chissà perché mi viene in mente di nuovo, che la conversione non è, come avevo spesso immaginato, uno sforzo morale o ascetico, un nuovo obiettivo da raggiungere, un salire. Ora mi viene in mente, come mi veniva in mente qualche tempo fa, che è un nuovo modo di guardare, più rilassato, tranquillo, benevolente. Uno scendere. Come quando sai che non tocca a te di fare tutto, di sistemare tutto quanto. Tranquillo, mi dico: non tocca a te sistemare nemmeno te stesso.

Rain Texture


Ridurre la fede ad etica, a morale, è quanto di più pericoloso ci sia per il cuore dell’uomo. Poi non si capisce più nulla, basta vedere (o immaginare) che un uomo noto (magari un politico) dichiaratamente cattolico, sbagli, e subito si grida allo scandalo. 
Perdendo di vista che la partita che ci interessa non è innanzitutto per la moralità, la partita vera e decisiva è per la felicità. 

Soprattutto non si capisce che la fede non è un’ennesima sovrastruttura, qualcosa per fissati. Ma è qualcosa per gente che si vuole davvero godere la vita, attimo per attimo. E siamo sempre in viaggio, sempre soggetti ad errori. Ma la strada è bella, e non è definita dagli errori. Abbiamo ancora un lungo cammino davanti e siamo felici di poterlo percorrere”, come dice Carron nella bella lettera a La Repubblica del primo maggio.
Fuori piove e io (ri)scopro, che se porto intorno questo sguardo, questa coscienza più tenera e rispettosa di quanto esiste dentro e fuori di me, sono meno nervoso, meno teso. Mi piacerebbe essere così, come un albero che aspetta il sole e la pioggia, e respira. 
Questioni di essere presi in braccio, alla fine. Come la frase di Sant’Ambrogio che era cara a Don Giacomo Tantardini, che tanto ha insistito, fino alla fine, sulla semplicità della fede.

Vieni dunque, Signore Gesù… Vieni a me, cercami, trovami, prendimi in braccio, portami. 

Quando comprendiamo che abbiamo davvero bisogno di essere portati in braccio, possiamo vedere accadere miracoli. E’ quando finalmente cediamo ad un Altro, che comincia lo spettacolo.
E’ molto più bello essere cercato dalla Verità, che cercarla. Credere è ammettere di poter essere cercati, in fondo. Questo ribalta tutta la questione. Cambia il verso della freccia. Ci permette una salutare passività. Non oziosa, ma contemplativa. Come davanti ad una cosa bella.

Che bello quello che ha detto Carròn ai funerali“don Giacomo ci ha testimoniato la bellezza dell’essere cristiano e ha trascinato tanti di noi dietro di lui. “

L’albero davanti a me. Ecco. Un albero non si giudica, per esempio. Vive e respira. Le radici ben piantate nella terra, sa cosa lo tiene in piedi. Io non giudico nessuno, nemmeno me stesso esortava tanti anni fa Don Luigi Giussani. 
Rileggo. Volevo dare a questo post un’atmosfera, un senso meno diretto, più allargato, errante. Un procedere in linea curva, docile, non rettilineo. Come pensieri durante un giorno di pioggia… Non so se ci sono riuscito, alla fine mi faccio prendere la mano, cerco istintivamente di trovare una tesi e dimostrarla… e non è quello che conta, non contano le parole. 
Anzi, alle volte ci vuole un vuoto di parole, uno spazio di silenzio.
Perché conta questo, la dolcezza del cuore, quando si sente grato.

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Ciò che rende uomo l’uomo

Lo dico. Mi sembra a volte di giocare in posizione di difesa. Giocare troppo corto, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Quando la partita non è messa male, non ci sarebbe necessità di arroccarsi. Catenaccio completamente inutile, direbbe il cronista. Perché mettere i gomiti davanti? Ricadere nel pensare gli altri come soluzione dei propri problemi? Pretenderla dagli altri, la soluzione?
Non mi è concesso più, di relegarti i miei casini
Mi butto dentro, vada come vada
(Lorenzo Cherubini, Mezzogiorno)
Dice bene Lorenzo. C’è come un’aria velenosa di rinuncia preventiva, un’idea di rimanere sul solito percorso, magari giudicandolo insoddisfacente ma non facendo davvero nulla per cambiarlo.

S’è avvolto nelle tenebre il mondo, non temere.
Non credere durevole tutto ciò ch’è oscuro.
Sei vicino ai piaceri, amico, alle valli, ai fiori:
osa, non ti fermare. Ecco, già sorge l’alba!

(Costantino Kavafis)

Ecco, la vita è lì, variegata ed imprevedibile in ogni istante. Colorata e multiforme. Sono i pensieri a bassa energia che ci trattengono. Sono tutto questo. Ecco. I pensieri a bassa energia, i pensieri stinti, sono la vera volgarità: sono tutto il contrario dell’arte.

Che c’entra ora l’arte?

Secondo me c’entra, eccome. L’arte è come la testimonianza impudica che una felicità concreta esiste e si allarga nel tempo. Io penso che il mondo abbia sempre avuto una grande necessità dell’espressione artistica. 

Sei qui. Io smaniavo, ti volevo.
Sei ventata d’aria fresca sul cervello incendio di passione.

Sembrano versi moderni, più moderni anche di Kavafis. Io li vedo così, vi passa attraverso tutta la tensione del contemporaneo, innervata d’impazienza – ci leggi l’impulsività, la forza della passione. Li vedo passare bene nell’aria di oggi, attraverso le strade, i palazzi, i negozi. La gente che si incrocia, si rincorre, si evita, si cerca.
Sei qui. Io smaniavo, ti volevo.

C’è tutta la rapidità quasi informatica del tratto, la forza che nasce dell’aver assorbito e superato ogni accademia, ogni forma retorica. Il contenuto che detta la forma stessa, l’urgenza espressiva che regna. Il sentimento, così esplicito. Insomma, niente di più attuale. Non dice avrei piacere della tua gentil presenza, oppure come la lontananza tua il cor mi ferisce, no no. Dice  proprio smaniavo, ti volevo.

Come quella incredibile canzone che chiude il primo lato di Abbey Road.

I want you,
I want you so bad.
It’s driving me mad,
It’s driving me mad.

(The Beatles, I Want You)

Insomma, siamo nella modernità. Tu pensi, finalmente l’espressività moderna ha superato ogni convenzione, si è affrancata dalle sovrastrutture formali. Pensi finalmente insomma.

Poi scopri che questi versi proprio modernissimi no, non lo sono. Sono di Saffo, una poetessa greca che scriveva circa seicento anni prima di Cristo. 
Allora questi versi, che si agganciano così bene agli scenari di palazzi, strade, automobili? Non c’è qualcosa di eterno nell’arte, qualcosa che ci ricorda che noi siamo più di un conglomerato di atomi e molecole sapientemente combinati? Per me è così. 
E’ perché Saffo ha scritto questi versi, in un attimo magari, un impulso di un istante, ha voluto fermare una sensazione. E dopo migliaia di anni, migliaia, queste poche parole mi parlano e si allargano nel cuore. Trovano un significato; una corrispondenza. 
La poetessa Saffo
Perché questo riverbero positivo? Azzardo un’idea. La faccio breve, ci sarebbe da scrivere molto di più, arrivarci per gradi. Invece vengo al punto. Perché il positivo? Perché queste persone, scrivendo questi versi, testimoniano – in ogni epoca – di prendere sul serio la propria umanità, di volerle bene. Di volersi bene. 
Hanno cioè mostrato in atto, con l’atto stesso di scrivere, quella che Luigi Giussani chiama una coscienza tenera e appassionata di sè. Tutto il contrario rispetto alla tentazione della trascuratezza, di cui si parlava all’inizio del post.
Prendere sul serio la propria umanità è la chiave per aprirsi, mettersi in gioco, lanciarsi finalmente alla ricerca del significato. Di una Presenza innamorata di noi.

“Non sarebbe possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo.”

(L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, citato qui)
Penso sia impossibile essere artisti senza aprirsi, mettersi in gioco, assecondare la natura di questo dinamismo. Non sto parlando di artisti cristiani, sto parlando di artisti. Del movimento primigenio fondamentale che mette in gioco l’arte, questa incredibile connessione tra i millenni. Figlio di quel dinamismo che rende uomo l’uomo. 
Così la vita entra nelle parole. E le parole trattengono la vita e tu ne vieni a contatto, anche dopo migliaia di anni.
Perché la vita entra nelle parole
come il mare in una nave…
(Luis Garcìa Montero)
Ciò che fa sì che mi possa rivestire dei versi dei poeti come uno strato intermedio tra me e l’esterno, come una possibilità più morbida di vivere il reale. Per essere più umano. Più vicino al cuore.

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