Blog di Marco Castellani

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Propositi per il 2013

Niente, è inevitabile che per il nuovo anno mi circolino in testa dei propositi. Poi, diciamo la verità, almeno così rieso a dare un po’ di sostanza al passaggio di anno (che per il resto l’ho sempre vista come una festa abbastanza inconsistente). Almeno così il passaggio di anno è un limite, una soglia. Si può dire, ok ora ricomincio, faccio come voglio io. Infatti il rischio è quello, che ben conosciamo: si parte dicendo faccio come voglio e poi ci si lascia vivere, si prende questo e quello – avvenimento e incombenze varie – come necessari. E pian piano ci si trova a vivere in maniera diversa da quanto avremmo voluto.
Così per l’inizio 2013 ho appuntato nel mio diario alcuni propositi, molti dei quali per lavorare verso quel processo che io chiamo guarigione/conversione, e sono questi (non so bene quanto siano personali comunque ve li dico)
  • essere morbidi con se stessi: qualsiasi pensiero o impulso ci venga a trovare (anche il più esecrando, riprovevole, ingeneroso), non irrigidirsi, non giudicarsi. Essere tranquilli e morbidi ed attendere.
  • rimuginare di meno e pregare di più. Pregare invece che stare a tormentarsi è decisamente meglio. È una fuga verso l’Infinito e non un circolare attorno a se stessi
  • essere grati, pensare positivo, per mettersi in accordo con la struttura dell’universo (aperta alla positività) e avere una vita migliore
  • non pensare più a risolvere i problemi, ma seguire con semplicità una storia e un cammino
  • combattere il sospetto ed entrare totalmente nelle cose, nelle situazioni (lavoro, famiglia, amici…)
  • sorridere di più: fa bene e non ha controindicazioni!
Implicit smile
Sì, perché non sorridere, tutto sommato…? 

Un proposito l’ho lasciato per ultimo, ma non è meno importante. Anzi nel tempo si è dimostrato fondamentale, per la mia la salute psichica (o quel che ne rimane…), ed è scrivere. Ecco lo aggiungo ora:
  • Dedicare seriamente una finestra di tempo alla scrittura. 
Perché… fondamentalmente devo (chi ha lo stesso impulso mi capisce bene). Perché qualcosa dentro di me non mi lascerà mai in pace finché non mi arrendo e dico, ok, scrivo. E se dico lascio perdere già so che affioreranno – come sempre – malesseri ed insoddisfazioni tra i più vari e fastidiosi. Dunque, dedicare del tempo alla scrittura, possibilmente ogni giorno. Fosse soltanto un pomodoro nell’intera giornata, va benissimo.

Però, farlo.

E qui, vorrei levarmi un sassolino dalla scarpa. Onestamente, non credo di essere un grande scrittore (ok, non credo di essere già diventato un grande scrittore, tanto per pensare positivo). Ma di grande ho sicuramente qualcosa, ed è l’urgenza stessa di scrivere. E so bene che vi sono tanti, tantissimi, nelle mie condizioni. Tante persone per le quali, sia detto senza enfasi, scrivere è una necessità. Così rimango interdetto quando vedo – e capita – sedicenti ‘esperti’ permettersi di consigliare alle persone che (a loro giudizio) non hanno abbastanza talento, perfavore di non scrivere, di lasciar perdere. Così da fare un servizio alla società (dicono loro). Così da minare la possibilità di essere felici e la stessa salute psichica, trasformarsi prematuramente in insoddisfatti cronici, perciò stesso aperti ad ogni forma di violenza verso se stessi e gli altri (dico io).
Che bel servizio che avremmo fatto, allora, alla società civile. Inducendo gente a rinunciare ai propri sogni, ad ingrossare le fila della (trista e perigliosa) legione degli insoddisfatti.
Allora secondo me il servizio migliore che possiamo farci – non c’è verso di scappare – è di coltivare e seguire i nostri sogni. Cercare quel talento che il Destino ha sepolto nel nostro cuore, per farlo fruttare. A rischio di sbagliare, a rischio… di prendersi dei rischi, uscire dalla nostra zona di conforto. Non vi può essere fallimento, se la riuscita è correttamente intesa: aver detto a me stesso. Anche se non fossi mai riuscito a pubblicare nulla.
Questo è l’augurio che dal cuore posso fare per me stesso, e per ogni persona sul nostro amato pianeta.

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Scrittore

Se ti comporti da scrittore, lo sei. Uno scrittore fa questo, scrive. A prescindere dal fatto che venga pubblicato, oserei dire. Sì, perché poi la vocazione trova comunque un suo sbocco, una sua strada. L’importante è che tu non decida di bloccarla (cosa che ti potrebbe costare un bel pezzo di salute psichica, ovviamente).
Così capita che si vada, come domenica mattina, al centro culturale a vedere il presepio allestito dalla pittrice, tua parente acquisita. Capita anche che lei sia una tua entusiasta lettrice. Davvero, entusiasta. Che il librettino di poesie che le hai regalato abbia subito una circolazione ben più vasta di quanto si pensava. Che te ne chieda insistentemente altre copie, per poterlo regalare a Natale ad alcuni suoi amici.
Capita che entri nel centro e vieni presentato come lastrofisico scrittore (non me voglia la mia amica Licia Troisi), che ti si chieda se sei disposto ad un incontro. E tu dici sì, certo. Ti viene spontaneo. Ed è vero. E ti senti tranquillo e a posto, nel rispondere a queste cose. Non senti sforzo, finalmente, non devi adeguarti ad essere qualcuno o qualcosa. Non hai modelli da tener presente. Ti viene naturale essere attento e gentile. Forse perché sei te stesso, finalmente. Sei riconosciuto per quello che senti di dover fare. E la cosa ti porta una bella pace interiore, una maggiore capacità di gestire le circostanze, un senso dolce di stare facendo quello per cui sei al mondo.

the writer
Scrivere, è fare amicizia con il reale
nel modo in cui ci è stato richiesto.
Sono ormai diverse le situazioni in cui il semplice fatto di scrivere ha fatto la differenza. Occasioni di incontri, di rapporti, di conoscenze, in cui aver dato voce a questa tensione interna – peraltro difficilmente ignorabile – mi ha di fatto portato su percorsi differenti e migliori.
Poi è come se uno si scavasse un posto nell’universo. La gente prende atto che scrivi, magari apprezza quello che fai, e si aspetta naturalmente che tu faccia questo (se lo fai per mestiere o no, è assolutamente inessenziale). Gente che non si sognerebbe mai di scrivere, probabilmente, sa che tu lo fai e si aspetta di leggere qualcosa da te. E’ come se avessi occupato quel posticino. E da quel momento fosse naturale che tu lo tenga occupato. Nella sola maniera possibile, scrivendo.
Ecco, lo vedo, quel posticino. C’è una targhetta, lì sopra. C’è scritto, scrittore.

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Tenere (veramente) un diario

L’ultimo aggiornamento di DayOne, l’applicazione che ho scelto per mantenere un diario privato, ha introdotto finalmente una caratteristica che aspettavo da tanto. Sono arrivate le etichette. 

E questo cambia tutto! Ho aperto DayOne sull’iPad e ho cominciato a rivedere i post all’indietro, aggiungendo le opportune tag, le etichette appunto, individuando una o più parole chiave. Così poi è facile percorrere in mille direzioni diverse quello che si è scritto: ogni parola appunto rappresenta una direzione di lettura, un possibile percorso nella memoria. 
Diary Page
Il diario (vero o digitale) è una traccia, è lo scrivere la vita. Per capirla.
Mi accorgo che un po’ anche la mia mente funziona a parole chiave. Fin troppo, alle volte. Se ho un disagio nel momento presente, il rischio concretissimo è che riveda la mia stessa storia pescando dall’insieme dei ricordi soltanto quelli che mi confermano nel disagio. Come se senza volerlo deliberatamente, sfogliassi la mia memoria prendendo solo i post con etichetta disagio. Grazie al cielo funziona anche al contrario: quando sono contento è più facile trovare i “post” nella memoria in cui si è contenti.
Ma la cosa più importante è che la memoria ci sia. Il disagio veramente grande secondo me è essere schiacciati sul momento presente. Tutto diverso dal fatto di vivere il momento. Mi pare che è tanto più possibile vivere bene il momento presente se non è vissuto come un granellino pazzo e sconnesso da tutto, ma fa parte di una mia storia. L’angoscia più grande è slittare nel tempo senza lasciare traccia, senza lasciare una storia.
Ma non è tutto, così ancora il cerchio non si chiude. I conti non mi tornano. Per farli tornare scopro (spesso a fatica, con un lavoro) che devo uscire da me, dal mio criterio. Sì, perché è solo quando mi sento parte di una Storia che riesco a guardare con simpatia e rispetto anche alla mia storia personale. 
Così lascio che si dipani, che aderisca allo spazio tempo, che lasci la sua impronta. Se mi sento parte di una Storia, una grande avventura cosmica – diciamo – trovo un senso anche nella mia storia personale, anche se afflitta da strappi e buchetti, da giornate mezze storte, da grumi che non scorrono bene. Il razionalismo che mi sussurra di stare solo a ciò che vedi prima di suscitarmi perplessità od obiezioni teoretiche mi mette innanzitutto una paura matta. 
Se non interpreto quello che vedo come la punta di un iceberg in cui c’è molto più di ciò che vedo, o che tocco scientificamente, la stessa parte di realtà che è visibile mi impazzisce sotto le mani. Non vi trovo il senso. Per trovarvi il senso devo fare un passo in più. Devo abituarmi a guardare il reale, le circostanze (l’unica parte del reale con cui interagisco) come segnale di altro, come invito e occasione a traversarlo per andare giù dentro di me, iniziare il viaggio – fino a trovare segno di Qualcosa che trascende il tempo e allo stesso momento ne è profonda giustificazione.
In fondo, tenere un diario è tener traccia delle manifestazioni più periferiche ma più importanti della storia dell’universo, quelle che arrivano fino alla mia interfaccia e mi provocano a pensieri, azioni, atteggiamenti. Dove la mia libertà entra in gioco. Non vi è parte più importante di tutto l’universo di quella che mi tocca, istante per istante. E l’azione di scrivere è come una ruminatio, una riflessione benefica.

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Perché stavolta non faccio il NaNoWriMo

Alla fine mi sto decidendo a lasciar perdere, e ne sono contento. Chissà perché, ci sono cose che si riescono a fare con la sufficiente motivazione soltanto una volta. Come, nel mio caso, il tragitto Roma-Argentario in bicicletta (quella estate dopo gli esami di maturità, con due amici), e per venire a questo post, il National Novel Writing Month (NaNoWriMo), quell’esercizio estremo di scrittura per cui la sfida è scrivere 50000 parole nell’arco di un mese.
Milleseicento parole al giorno non rientrano nel mio stato naturale di scrittura, al momento. Diverso è quando sarò famosissimo come scrittore e mi vedrò costretto a diminuire l’impegno come scienziato in favore di una adesione più piena alle richieste del mio (futuro) editore (chissà!).


Visualizzazione ingrandita della mappa
Una volta sola è sufficiente…

E’ vero che il NaNoWriMo è un modo eccellente e un po’ pazzo per vincere le resistenze del proprio editore interno e scrivere davvero. Però mi forza troppo. Dunque ho cominciato con qualche dubbio, ma già ieri ero abbastanza indietro. D’altra parte dovevo riconoscere che questo secondo romanzo almeno lo stavo finalmente mettendo in lavorazione. E quindi? Che fare? Fortunatamente, cercando per un numero minore di parole, mi sono imbattuto in questo articolo…. Era la risposta che cercavo. Mi è sembrato subito così sensato! 500 parole e non 1600 e più. E’ giusto darsi degli obiettivi anche giornalieri, ma è bene che siano ragionevoli.  

Ho capito cosa c’era dietro il mio calo di motivazione. Non mi va di scrivere all’impazzata tenendo solo conto del numero di parole, stavolta. Non mi va di trascurare questo blog e gli altri siti, per arrivare ogni giorno a superare le 1600 parole nel romanzo. Neanche, di sentirmi a disagio i giorni in cui non ce la faccio.

Fare il NaNoWrimo almeno una volta comunque è una pazzia divertente ed esaltante, grazie anche alla comunità di persone che si raduna intorno a questo “evento”. Così intendiamoci, sono contentissimo di averlo fatto, nel novembre del 2009, e di averlo vinto. Con tutta probabilità, non avrei ancora un mio romanzo, a questo punto della vita. Un romanzo scritto nell’arco effettivamente di un mese, anche se poi, come è ovvio, il processo di revisione e parziale riscrittura ha preso un tempo moooolto più lungo….

Ora se c’è una cosa buona che il NaNoWriMo di quest’anno (a cui appunto, non parteciperò) ha fatto, in quei due o tre giorni in cui ho pensato seriamente di buttarmici, è stato costringermi a prendere sul serio il fatto di affrontare un altro “grande progetto”. Scrivere un secondo romanzo, dopo “Il ritorno”.

Da molto tempo mi girano in testa dei fatti, delle situazioni. Dei luoghi, soprattutto. Quello che stavolta mi prende è soprattutto la geografia, vedere alcuni luoghi come catalizzatori di situazioni, di intrecci, di sentimenti. Ora mi accorgo che per molto tempo ho procrastinato, con varie (sempre onorevoli…) scuse.
Da oggi vorrei prendermi l’impegno di lavorarci in modo più continuativo, più professionale, diciamo. E siccome la cosa più importante è scrivere (è sempre la regola numero uno, a buon diritto), la cosa si traduce assai pragmaticamente in buttar giù un certo numero di parole al giorno (o alla settimana).

Tutti i libri, i manuali di scrittura, i siti per scrittori, convergono su questa cosa. Scrivere parole. Magari poi si scartano al 95%, ma non sono state vane (questa è una cosa che all’inizio non capivo, il mio ideale romantico non prevedeva di scrivere per acquisire pratica, per allenarsi, per trovare ed affinare la propria voce). E’ anche una cosa di umiltà. L’umiltà di fare pratica, di fare palestra. Crescere come scrittore, scrivendo. 

Argentario 005
A proposito di luoghi, il mio secondo romanzo si apre qui, in Argentario…

Lo so, ci saranno giorni in cui non metterò giù parola. Lo metto in conto. Ma allora – perlomeno – mi dovrò confrontare onestamente con quanto ho scritto qui, adesso. Con l’impegno a cercare di diventare sempre migliore nello scrivere. Ecco un’altra ragione per …. scriverlo. Qui. Nero su bianco (diciamo, sfondi colorati a parte…). In un certo senso è un impegno pubblico, per cui spero che la cosa mi aiuti a tenerlo in maggiore considerazione riguardo – poniamo – ad un patto segreto tra me e me.

Allo stesso tempo, cercherò di postare periodicamente qui dei resoconti sullo stato del progetto. Per lo stesso intento motivazionale. E anche con l’intento (segretissimo!) di creare almeno un po’ di interesse 🙂

Per cioò che concerne il numero di parole, vediamo se 500 vanno bene o se dovrò ritoccare in qualche modo. Io spero che possa andare: nell’arco di una settimana (lasciando un giorno fuori per riposare o recuperare) vuol dire 3000 parole. In cento giorni di scrittura dovrei avere le cinquantamila parole del NaNoWrimo.

Non è male, se pongo mente a quanto la scrittura sia terapeutica, per me. No, non è male, se penso a quante trances di cento giorni ho fatto passare scrivendo poco o anche meno…

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Come fare il brodo…

Come ti senti? E’ una domanda che mi hanno fatto su Facebook, pochi giorni fa. Il riferimento è al romanzo appena (auto)pubblicato, Il ritorno. Come ti senti, dopo averlo terminato? Cosa fare dopo? E potrei accostare un’altra domanda, rivoltami oggi di persona. E ora che hai finito il libro? Così il saluto di Teresa, qualche giorno fa, in occasione di un battesimo. Mi raccomando non smettere di scrivere.

Forse è questo. Forse è questa la risposta e il tratto di unione con le altre domande. Mi raccomando non smettere di scrivere. Se ci penso, c’è dentro tutto. Tutto quello che mi serve. E non c’è quello che porta fuori strada. Non dice mi raccomando cerca di farti pubblicare da un grande editore, mi raccomando cerca di sfondare. Non dice questo, no. Dice solo di non smettere. 

Don’t give up.
Questo mi fa pensare ad una frase del bel libro di James Scott Bell Writing Fiction for all you’re worth. E’ sempre troppo presto per smettere.
Così uno potrebbe dirsi, ok, ci siamo tolti questa soddisfazione, ora pensiamo ad altro. No, sarebbe sempre troppo presto. D’altra parte, c’è il fatto che le parole comunque arrivano, in testa. Tendono a strabordare, se contenute. Bisogna arrendersi. Mi devo arrendere al flusso, lasciar fluire.

Sono loro che fanno tutto, le parole.

Devo soltanto accettare di colorarle lasciandole passare attraverso me stesso, lasciandole impregnare di me, dei miei umori. In fondo fare lo scrittore è come fare il brodo. Bisogna lasciar impregnare della propria carne, della propria vita le parole. Che all’inizio sono neutre, come l’acqua. E’ una cosa sulla quale lavorare, così come devo, voglio, lavorare su me stesso (tentativamente) ogni giorno della vita. Lavorare sulle parole e lavorare su di sè. Non sono cose molto distanti, a pensarci bene. E’ più un lavoro che ingloba, comprende, entrambe le cose.

Veggie Brodo in the Afternoon
Fare il brodo è come scrivere (dettagli nel testo)!

Così penso che se uno ha la passione – diciamo – per l’uncinetto, il lavoro su di sè deve comprendere, trattare, affrontare, trasportare, anche questa passione. Siamo mica neutri e uguali, come contenitori che possiamo riempire con qualsiasi cosa si voglia. No, abbiamo una conformazione interna, come una forma nascosta, siamo fatti per seguire certe strade, accogliere certe cose. Ci vuole attenzione e rispetto di sè, per individuare la vocazione e per decidere di seguirla.

Certo che si può essere disattenti a sè e non seguire. Ma non è mai una buona idea. Se non seguo, mi  metto in rotta di collisione con tutto quanto, tutto quanto mi diventa pesante. Mentre accettare di seguire, nonostante tutti i dubbi e le perplessità,  mi libera immediatamente e mi rende intimamente contento e più robusto. Quante volte me lo devo dire. Quante volte me lo devo scrivere…

Perché è semplice, in fondo. Bastano tre parole. Ha ragione Teresa.

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In poche parole, di che parla?

Insegnano i corsi di scrittura che quando hai scritto un libro devi imparare anche a presentarlo, a renderlo appetibile per gli altri. Devi far capire in poche parole perché uno dovrebbe voler leggere il tuo libro. E’ anche onesto, in fondo, che un potenziale lettore possa facilmente capire, senza perdere tempo, se il libro gli interessa.
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Gli edifici ESO a Garching,
una delle location del romanzo.

Per i tre libri che ho (auto)pubblicato finora, ho scelto di non seguire nessuna strategia promozionale. Li ho messi lì a disposizione e basta. D’altronde, era già troppo forte la soddisfazione di aver sistemato in volume degli scritti che temevo sarebbero rimasti sempre in un cassetto. Il tempo e certe letture mi hanno fatto capire però che dietro questa apparente umiltà può nascondersi anche una certa dose di orgoglio. Che è sempre una roba pericolosa. Come dire, ecco qui ho regalato questa cosa al mondo, se vi intessa andate a cercarla, io quel che dovevo fare l’ho fatto.
E invece no, non va bene. Non è corretto tirarsi indietro. Se ci credo davvero, non ho fatto tutto quel che dovevo fare. Nossignori. Se ho scritto un libro, qualsiasi sia il canale scelto per la pubblicazione, devo spiegare perché tu che stai leggendo ora, proprio tu, potresti volerlo leggere. Hai presente, quando vai in libreria, ti muovi indeciso tra gli scaffali (soprattutto di questi tempi, se poi c’è l’aria condizionata, non c’è veramente fretta di uscire…), prendi un libro, valuti la copertina, lo giri, leggi le note sul retro. Spesso magari decidi da quello. Io personalmente sono molto influenzabile dalla gradevolezza della copertina e dal breve riassunto che spesso appare nel retro. Almeno fino a qualche tempo fa. Ora acquistando prevalentemente libri digitali, mi baso in buona misura sui commenti di chi il libro lo ha già letto (facilmente reperibili in tutti i maggiori siti per l’acquisto di ebook).
Bisogna anche considerare quello che succede quando parli con qualche amico, qualche conoscente. Magari mi segue su Twitter o è uno degli amici di facebook. Mi è capitato di recente. Ti saluta e ti dice a bruciapelo, ma davvero tu hai scritto un romanzo? Di che parla? Come lo pubblichi?

E’ strano, a pensarci. E’ la mia tentazione a scivolare nel ruolo del momento, a discapito della mia stessa umanità. Come se parlando con persone in un istituto scientifico non potesse venire fuori che ti piace scrivere, che sei uno scrittore (inteso letteralmente: uno che scrive).

Di che parla il tuo romanzo? Devi risponde in maniera chiara e concisa. Non puoi perderti in analisi e considerazioni su come interpretare la trama, o sul perché lo hai scritto. Devi rispondere in un minuto e farlo in modo non banale. Certo, rinchiudere in un minuto un lavoro che – pur con alcune pause – alla fine ti ha richiesto anni, può sembrare riduttivo, impossibile. Invece no, devi farlo. È onesto che tu lo faccia. Se non lo fa sei ancora centrato su di te, invece ti devi aprire. Se veramente vuoi fatti leggere, ti devi aprire agli altri.


Insomma la cosa che più desidero e più mi spaventa allo stesso tempo… già sento che prendono forma  nella mia testa quelle parole, mi fanno paura ma sono reali, sono parole di guarigione…


Ti devi mettere in gioco, Marco.
OK. Torno al romanzo. Dunque come si potrebbe raccontare la trama in non troppe parole?
È la storia di Luca, uno scienziato di mezza età, un matrimonio apparentemente tranquillo e un lavoro solido. Niente che non va, si direbbe. Sotto l’apparente normalità però cova una tensione, una insoddisfazione, una nostalgia di tempi passati, di fuochi che sembrano spenti. A sparigliare una situazione che pare congelata in una dolorosa stasi, arriva una partenza, il contatto con un anziano scienziato e alcuni suoi misteriosa calcoli, che promettono di rivoluzionare l’approccio ad un importante progetto. E soprattutto, a sparigliare c’è Francesca, una avvenente e giovane collaboratrice, segnata da una profonda, dolorosa solitudine. I problemi di Luca e la solitudine di Francesca inseguono un contatto, baluna il miraggio di una mutua compensazione. Per Luca arriva però presto il momento di assumersi la responsabilità di una decisione, una decisione per l’esistenza. Una sfida rinnovata che abbraccia il lavoro come gli affetti. Dal moto segreto del cuore, dall’intimo attimo si coscienza, nasce la scelta di un cammino, di un sentiero. La posta in gioco è la consistenza di sé, consistenza ontologica, prima ancora che etica. Proprio per questo, una posta decisiva. Un possibile ritorno.
Il romanzo sarà disponibile entro la fine dell’estate (è tutto scritto e sto facendo delle prove di impaginazione), e potrà essere acquistato sia come copia cartacea che in formato elettronico. Nei prossimi post sarò più preciso sulla data di uscita, e inserirò qualche brano del testo. Se volete rimanere in contatto esiste un apposito hashtag Twitter, ed è #IlRitornoLibro (certo è una cosa che Balzac non poteva avere, ma la tecnica servirà pur a qualcosa…).

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La scadenza è il quindici

Se non metto scandenze non termino nulla, è l’amara verità. Rimangono i progetti in piedi, a metà, anche per anni.
Ora c’è questo romanzo, Il Ritorno. Va finito. Bisogna mettere la parole fine e lasciare che vada per la sua strada. E’ un romanzo importante, almeno per me. E’ una sfida vinta, è un sogno realizzato. Pur nei suoi limiti, è una cosa che sono riuscito a fare e che non avrei pensato di riuscire a fare.
Il nucleo del romanzo è stato elaborato durante il “Nanowrimo” del 2009: in un prossimo post, vi regalerò qualche dettaglio sulla trama.  Per chi non lo sapesse, il National Novel Writing Month è essenzialmente una sfida. Innanzitutto, con se stessi. Si tratta di abbandonare per un mese tutte le perplessità, mandare in vacanza il proprio censore interno, e scrivere. Scrivere e basta. Contano le parole: un romanzo di almeno 50.000 parole. Questa è l’unica condizione per vincere: 50.000 parole.
Facendolo, ho scoperto che il fatto di puntare esclusivamente alla quantità è assai meno ridicolo di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Vuol dire, sostanzialmente: fai il lavoro. Stacci. Non farti bloccare ma buttati dentro questa cosa.

Per me è stata una sorpresa bellissima esserne uscito vincitore. Mi ha lasciato con un manoscritto da rivedere e per la prima volta nella vita, con un romanzo mio, da poter mostrare al mondo.
In realtà, come ho potuto scoprire, la vera sfida inizia dopo, alla chiusura della competizione. Dopo un mese galvanizzante, in cui hai dovuto combattere contro tutte le resistenze, dove sei riuscito a mettere da parte tutti i velenosi dubbi, ecco che hai srotolato una trama, un percorso.
Ma sei solo all’inizio.

Ci sono tante cose da sistemare, da mettere a posto. Devi lasciar decantare e poi ritornarci dentro. Devi passare dentro le parti che ti sembrano deboli, le parti che ma ho davvero scritto io questa roba? e lavorarci. 
Accettare lo scarto tra cosa vorresti e cosa ottieni. Così la tentazione più facile e pericolosa è lasciare tutto ad uno stadio di quasi pronto, con uno spazio mentale per dire beh ma devo sempre lavorarci… 


La cosa sorprendente, è vedere che lavorandoci sopra, lo scarto tra quello che ottieni e quello che vorresti, può essere ridotta. Ti puoi avvicinare a quello che volevi, senza arrivarci quasi mai (ma quando ci arrivi è bellissimo).

Così ho fatto una revisione, due revisioni.. l’ho stampato con Lulu, l’ho regalato a mia moglie, ho ricominciato a lavorarci. Mi sono accorto che ormai giravo su me stesso, prendendo tempo e scuse per non terminare mai. 
Allora, basta. Un mese fa ho messo una deadline. Una scadenza (in inglese mi suona più perentorio).

Ottimo, direte voi. Ben fatto.

E il guaio è solo che era una deadline di un mese, per cui… è quasi finita. La tentazione di prorogare è tanta, le scuse le ho già pronte (famiglia, incombenze, lavoro, etc… ) ma cercherò di non farlo. 

Ecco qui: ci lavoro fino al 15 luglio, poi mi prendo fino alla fine del mese per sistemarlo in volume e proporlo su un sito di autopubblicazione (a meno che un grosso editore non si faccia sentire con una vantaggiosa proposta…), e ad agosto è lì disponibile per essere acquistato.
Che ne pensate? Soffrite anche voi di tendenza alla procrastinazione sine die? Afflitti da perfezionismo cronico? E in caso, che strategie adottate contro queste cose? Fatemi sapere nei commenti!

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Tenere (ancora) un diario

Sono un tipo con poca memoria. Credo di esserlo sempre stato, in realtà. Faccio fatica a ricordare le strade, i nomi delle persone, le date. Anche le scadenze, e questo è un po’ un problema.
Di recente (una settimana fa, stando al diario) abbiamo passato la giornata in un agriturismo, un bel pranzo all’aperto in chiusura dell’anno scolastico della piccola Agnese, con genitori e maestri. Ho registrato la mia posizione su Foursquare, per mezzo dal telefonino.

Lui ha preso atto, poi mi ha detto qualcosa tipo ah bene, era da ottobre dello scorso anno che non venivi più qui.

Una foto presa all’agriturismo (via Instagram)



Accolgo la cosa con qualche perplessità. Anzi, a dirla tutta, con molte perplessità. Un botto di perplessità.

Come sarebbe, ottobre? Ma non ci eravamo venuti l’estate scorsa, in chiusura dell’anno scolastico precedente? Ecco, il mio telefono è impazzito. Oppure quelli di Foursquare hanno dei problemi con il database.
Che fare, concediamo il beneficio del dubbio…? Non è che magari ci siamo stati in estate e poi tornati anche ad ottobre? No, non sembra. Neanche a mia moglie risulta, ci siamo venuti una volta sola.

Alla fine viene fuori, la verità.  Siamo venuti effettivamente ad ottobre. Non era affatto estate (ottobre può essere amabile, ma non è certamente un mese estivo).

Ha ragione Foursquare. Ovviamente.

Ricostruiamo (cioè, ricostruisce mia moglie, io ho come al solito ricordi slavati e svaporati in una fitta nebbia). Ecco. Siamo venuti per  festeggiare il pensionamento della maestra… E con l’occasione abbiamo fatto vedere ai pargoli la raccolta delle olive. I bimbi hanno potuto osservare le varie fasi, la macchina che scuote i rami e poi la raccolta con le reti, poi ancora la stanza dove vengono lavorate le olive… ricordo un pochino… quella miscela densa da cui alla fine viene fuori l’olio…
Il diario ha definitivamente messo a posto la quesitone. Ho aperto DayOne e ho fatto una ricerca per “agriturismo”. Eccolo, salta fuori il post. Eravamo lì il 16 ottobre dello scorso anno (in caso vi interessi). 
Rileggendo le note del diario carico in memoria non solo il fatto, ma le mie sensazioni, i fastidi, le soddisfazioni, le cose che mi passavano in testa quel giorno.

Da quando tengo un diario mi sono riappropriato di una parte del mio tempo. Prima, tutto si addensava nell’indistinto, scompariva alla vista dopo qualche giorno. 
Il diario mi aiuta a sondare la dimensione del tempo. E mi permette di scrivere senza problemi, senza pensare a chi mi legge. 
Ho capito che scrivere un diario personale non è più un’opzione. E’ una necessità.

Però lascio ancora troppi spazi vuoti. Dovrei scrivere qualcosa ogni giorno, almeno una riga. Buttar giù almeno qualche metadato della giornata. Tanto per permettere alla memoria di riprendere il file in oggetto.

E per capire, finalmente, che nessun giorno è davvero uguale all’altro.

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