Blog di Marco Castellani

Mese: Giugno 2013 Page 2 of 3

Dire bene un bisogno

Succede. A volte fai degli investimenti minimi, che nel tempo si mostrano di un arricchimento impressionante. Ecco il mio racconto è proprio di una di quelle volte. Una di quelle volte che si è verificato in maniera davvero incredibile.
Capita infatti che andando dalla dottoressa, ti imbatta in una bancarella. Sai, quelle con libri e compact disc? Ecco, per essere pignoli, non mi ricordo se c’erano i libri. Di CD, originali per giunta, ce ne stavano parecchi. Ricordo di aver sfrugolato abbastanza, trovando anche cose interessanti (tra cui una serie di CD di Luci Battisti che un po’ mi pento di non aver preso). Tra quelle ti può capitare sotto gli occhi un vecchio CD dei Genesis, quel Three Sides Live che ricordi senza troppa emozione, come un doppio album, dal vivo, della band orma da tempo priva del geniale Peter Gabriel.

No, vabbé. Niente di nuovo. L’avevi sentito, a suo tempo. L’avevi credo anche copiato preso “in prestito” da un amico, se ben mi ricordi. Oppure te l’eri proprio comprato, anzi. E comunque, non è che te lo ricordassi con molto affetto, tutto sommato. Tanto che all’inizio, nonostante il prezzo invitante (tre euro? Poi se è doppio.. pure che me lo mettono a sei… ) stai per lasciarlo lì. Però non ce la fai, qualcosa ti vuoi portare via. Ecco che torni, ti avvicini, guardi i brani. Uhm uhm… mah. Però lo prendi in mano, lo consegni al tipo (ancora indeciso se  dargli quello o uno di Battisti o nessuno dei due). 
Quanto viene? Il tipo lo prende, fa un cenno all’altro tipo che gli dice (come speravi) Tre euro ma il primo tipo (disdicevolmente pignolo) specifica al secondo tipo Ma guarda che è doppio che facciamo e per fortuna il primo tipo non si turba affatto – la cosa non ingombra il suo spazio mentale che un solo momento e grazie al cielo dice qualcosa tipo Boh, tre euro, uguale.

Allora lo compri e te ne vai (dalla dottoressa c’eri già stato). Beh un premio ci voleva. Però nemmeno sei tanto convinto. D’accordo, lo so che sono tre euro, ma se me li risparmiavo? Poi appunto non te lo ricordi con troppo trasporto il CD, poi ecco, è la formazione post Peter Gabriel, poi questa copertina sembra già svogliata di suo, una semplice scritta nera in campo bianco. Libretto interno nemmeno a parlarne. Boh.

Con questi pensieri ritorno alla tua auto. Metti il CD in macchina e cominci a sentirlo. Beh tutto sommato non è troppo male. Non lo sai ancora, ma ormai sei agganciato.. Perché lì comincia a crescere, a crescerti addosso. Malgrado la copertina. Che anzi, alla fine ti piace pure: come una bella donna con una brutta abitudine, alla fine ti fai piacere anche quella, hai presente? Soltanto perché è lei che si comporta così. 
Ormai sono passati mesi. E periodici passaggi dalla dottoressa, ma intanto la bancarella non ci sta più, ahimè. Certo, ce ne è una di vestiti, nello stesso spazio di universo. Ma ditemi, che se ne fa uno dei vestiti quando si aspetta la musica?
E che musica. Ho un po’ di cose da dire, accumulate dai diversi ripetuti ascolti: meno male che di solito viaggio da solo, avrei fatto impazzire chiunque. Da che partiamo? Dalla qualità, mettiamo subito giù il dettaglio tecnico. Cavolo, questi dischi sono masterizzati alla grande. Suono pieno, corretto, equilibrato. Anche nella mia macchina suona che è una meraviglia. Se penso a certi trasferimenti su CD di altra roba degli anni ottanta, messa giù da far pena…
Che puoi trovare, nel disco? Un sacco di cose. Intanto ti accorgi di una cosa ovvia. Che Phil Collins suona la batteria da paura. Cioè non parliamo di virtuosismi fini a se stessi. Parliamo di uno stile attraente perché personale, perché riconoscibile all’istante. Perché vario, interessante, complesso, sfaccettato, intrigante. E che ti colpisce al cuore. Ti metti a sentire i pezzi stando magari attento al gioco di batteria, ed è bello, è bello perché è un arricchimento. 
Non è che voglio fare una recensione brano per brano (anche perché ormai chissà quanti ho già perso per strada), ma qualcosa mi va di dirla. L’inizio è una intro formidabile per un concerto dal vivo. Lento e progressivo, Turn it on again parte piano piano ed è come se invitasse all’ascolto, prima di iniziare con la sostanza – ha questo modo gentile di introdurti all’evento. Di catalizzare attenzione. Non ti sovrasta, non ti sommerge di suoni. Ti viene a chiedere attenzione.

Dodo è affascinante e si prende quasi sette minuti e mezzo. Ora dico, far durare una canzone sette minuti e mezzo senza stancare, è un inequivocabile segno di classe. E – contrariamente a quanto pensavo prima – qui di classe, di mestiere, di abilità, ce n’è da vendere. 
La cosa che mi fa letteralmente impazzire è il bridge tra Dodo Abacab. Esci da Dodo, non tiri nemmeno il fiato, non hai il tempo di guardarti intorno e dire “.. però!” che già ti arriva il basso implacabile dell’intro di Abacab. Perfetto. E’ semplicemente perfetto, dopo un paio di ascolti ti sembrano legate, perfettamente integrate, parti diverse ed omogenee di uno stesso progetto, di una stessa urgenza di dire.

Eccoci. Eccoci ad Abacab

Di Abacab si potrebbe parlare per intere stagioni. La prima cosa è… ma come ha fatto? Come ha fatto Phil Collins, o meglio come hanno fatto i Genesis (c’è molto lavoro di squadra), a tirar fuori una cosa del genere? Il gioco di risposta tra chitarra e tastiera è sublime. La linea di basso è deliziosamente implacabile, sottolinea bene l’urgenza e il senso di perentorietà. Parte proprio con il basso che scandisce, scandisce inesorabile. Un primo messaggio: come dire, qui non si sta scherzando. E infatti è così. Non è un pezzo di intrattenimento: qui si fa sul serio. La coda strumentale poi è purissima meditazione per formazione rock. Una sequenza di note semplice, semplicissima, quasi un gioco di bimbi. Eppure incredibilmente efficace.

Its an illusion, it’s a game,
Or reflection of someone elses name.
When you wake in the morning,
Wake and find you’re covered in cellophane…

“Ti svegli la mattina e ti scopri incartato nel cellophane…” No, non è il Collins delle canzoncine che ti intrattengono, ti fanno passare piacevolmente quei tre-quattro minuti. E’ il Collins che attinge a piene mani dalla parte profonda di sè. E genera un capolavoro.

Well, there’s a hole in there somewhere.
Yeah, there’s a hole in there somewhere.
Baby, there’s a hole in there somewhere.
Now there’s a hole in there somewhere.

C’è un buco da qualche parte. C’è una mancanza. I conti non tornano. Qui lo dice, finalmente, in modo molto diretto. Ecco, è una canzone sul dramma di una mancanza. Sul dramma contemporaneo. Sul dramma, senza altra aggiunta. Nessuno può chiamarsi fuori, nessuno può ascoltare con sufficienza. No perché il fatto è semplice, ci sei dentro, la linea di basso è la linea del pensiero che si avvita ossessivamente, che cerca di rispondere alla mancanza. Che prova ad organizzarla, a capirla. Ecco perché ti risuona subito addosso, la senti. E nel dolore sei confortato – ecco il potere dell’arte! Perché la mancanza finalmente assume dei contorni, è riconoscibile. Esce da te, finalmente evade dalla tua solitudine. Vedi, non è più soltanto tua. E’ umana. Non è solo tuo questo smisurato bisogno. E’ umano. 

Ed ecco, è condiviso.

Baby, there’s a hole in there somewhere.

Eccolo. Intanto, la prima cura, la prima sanità mentale, il primo passo verso un percorso di guarigione, di conversione al positivo, è prenderne atto. Non nasconderselo.

Rispetto alla versione da studio, poi, questa è forse anche più bella: la parte finale della coda è impreziosita da un giro di accordi  che porta ad un climax inedito, che si adatta benissimo al contesto. Appena dopo viene il riepilogo del tema principale, e poi la chiusa.

Complessivamente, una vera meraviglia.

Behind the lines e Duchess pescano ancora da quell’album fantastico che è Duke. Che proprio queste versioni dal vivo mi hanno fatto capire quanto fosse fantastico. Ci voleva un Phil Collins in fase matrimoniale problematica per tirare fuori queste perle, questo parlare autentico. 

Anche il resto del lavoro è godibile. Ormai siamo tra amici, anche i pezzi più vecchi filano via bene, resi collinsoniani dalla voce e dalla inconfondibile batteria.

Insomma, il mio rispetto per i Genesis post-Peter è cresciuto immensamente, riascoltando questo lavoro. Zoppi, null’altro che zoppi diceva la recensione di And then there where three su un antico numero di Stereoplay (che è stata per anni la mia rivista musical-tecnologica di riferimento). E in un certo senso è vero – magari per quell’album è più vero, lo concedo.

Ma qui questi zoppi volano altissimo. A pensare a quanta musica degli anni ottanta, riascoltata, suona così insopportabilmente velleitaria! Ho provato a riascoltare gli Ultravox, che a suo tempo mi facevano impazzire. No, non riesco più, a parte qualche pezzo. Ora che li vedi alla distanza, lo capisci: molta elettronica, due o tre idee, riciclate un po’ furbamente a tirar fuori il pezzo.

Qui invece te la godi, te la godi proprio…

E poi sono una squadra. Mi fanno pensare ai Beatles, in un certo senso. Compattissimi, nessuno fuori dai ranghi. Nessuno che ti fa sparate individualistiche. Non c’è un assolo di chitarra che sia uno, ad esempio. E anche la batteria di Phil, sempre evidente, è comunque al servizio del gruppo, niente invenzioni estemporanee. Ma va bene così. Tutto è perfettamente funzionale al risultato complessivo.

Perché già dire bene un bisogno, è come accoglierlo.

Perché già accogliere un bisogno, dargli spazio, è come curarlo. 
Come esporre la ferita, farla spurgare. Perché possa essere sanata.

Domandare che sia sanata: una semplice domanda, e già filtra la luce, la vedi filtrare.

Perché le regole dell’universo sono queste, perché … la domanda è già un miracolo. È il primo modo della coerenza, del compimento di sé, della propria libertà (Luigi Giussani)

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M56, una collezione di antiche stelle

Questa che vedete è una immagine prodotta dal Telescopio Spaziale Hubble, che si trova a circa 33.000 anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione della Lira. L’ammasso è composto da un enorme numero di stelle, strettamente legate tra loro dalla reciproca gravità.

Che sia pieno di stelle a noi può sembrare evidente, ma non lo era certo nel lontano gennaio del 1779, quando l’astronomo Charles Messier per primo osservò la struttura.  Messier descrisse M56 come “una nebulosa senza stelle”, come del resto la maggior parte degli ammassi globulari che aveva scoperto.

Lo splendore di M56, uno degli ammassi globulari della nostra Via Lattea (Crediti: NASA & ESA)

Lo splendore di M56, uno degli ammassi globulari della nostra Via Lattea (Crediti: NASA & ESA)

D’altra parte, non possiamo biasimarlo: il suo telescopio non era abbastanza potente da risolvere in stelle l’oggetto che aveva puntato, che piuttosto doveva apparirgli soltanto sotto forma di nebulisità diffusa.  Possiamo facilmente renderci conto dall’esame della foto di quanto la tecnologia lungo il corso degli anni ci abbia aiutato a comprendere la vera natura degli oggetti astronomici!

Gli ammassi globulari sono fondamentali per lo studio dell’universo, essendo costituiti dalle stelle più antiche che riusciamo a rintracciare: tanto che la stima dell’età degli ammassi più vecchi restituisce con buona approssimazione l’età stessa dell’universo.

E’ interessante ricordare come, a fronte di una stima di età compresa tre i 13 e i 14 miliardi di anni, ormai accettata dalla grande maggioranza degli astronomi, l’età dell’universo è stata nell’ultimo ventennio dello scorso secolo un campo di acceso dibattito tra i ricercatori. Il fronte del contendere, proprio l’età derivata dalle caratteristiche degli ammassi globulari più vecchi. La teoria forniva infatti stime che andavano dai 18 ai 20 miliardi di anni, mentre le stime cosmologiche si attestavano intorno al valore di 10 miliardi di anni. Per un certo verso, sembravamo giunti al paradosso di stelle… più vecchie dell’universo che le contiene! Ovviamente c’era qualcosa da sistemare, ancora, negli strumenti teorici. Che infatti attendevano un necessario raffinamento.

La controversia è durata diversi anni, andandosi poi a sciogliere intorno al valore (grazie anche ai dati di WMAP) di 13,7 miliardi di anni. Valore sul quale concordano pure le più recenti stime per gli ammassi globulari, condotte con i parametri più aggiornati. Come pure, le stime ottenute dai modelli cosmologici più recenti.

(Derivato in parte da una press release di SpaceTelescope.org)

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Dall’orbita, verso terra

TerraOrbita

Ecco una bella immagine dell’astronauta Chris Cassidy – un ingegnere di volo della missione #36 – intento ad acquisire una foto della Terra attraverso un obiettivo da 400 mm connesso ad una macchina fotografica digitale. In questo momento la Terra si trova più di 400 km sotto di lui. Cassidy si trova a bordo della Stazione Spaziale Internazionale dalla fine di marzo, e rimarrà a bordo fino a settembre.

Crediti immagine: NASA

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Crisi

Arrivando a trattare questa parolina dai grandissimi significati, crisi, non riesco ad evadere prima di tutto da una suggestione musicale. C’è un album di Mike Oldfield che si chiama appunto Crises. Il nome è poi quello di una suite di circa 20 minuti che occupa la prima parte del lavoro. Sicuramente i più conoscono l’album non da questo brano, ma dalla canzone che apriva (avremmo detto un tempo) il secondo lato dell’album, quella splendida Moonlight Shadows che oltre ad essere diventata una canzone simbolo degli anni ’80 è stata anche ispirazione per l’omonimo racconto di Banana Yoshimoto.

Non posso non partire dall’album anche perché nello svolgimento musicale della suite c’è secondo me un accenno di risposta, una indicazione come di atteggiamento. Cercherò di concentrarmi non tanto sulle qualità dell’album – che sono molte – ma di approdare alla trattazione di questa parola.

jap_garden_oct3-2
Accettare il disagio, non resistergli, vuol dire ricominciare già
a vedere i colori…
(Crediti: ahp_ibanez su Flickr, licenza CC)

Basta guardare sul dizionario per accorgersi che Crisi abbraccia sostanzialmente due ambiti, quello sociale e politico e quello personale. Siamo abituati a ragionare in modo da vedere questi due significati come diversi, separati e con scarse interazioni. C’è però un pensiero diverso, che vede invece i due aspetti come differenti manifestazioni di una unica cosa. Che entrambi possono essere abbracciati dal guardare la crisi (personale o sociale) come una opportunità. 


Crisis, crisis – I need you on my side cause there’s a crisis.
And you can’t get away

La crisi punge tanto più forte quanto più si cerca di allontanarla. Proprio perché nasconde una opportunità è necessario lasciarla venire, lasciarsene inondare. Osservare. E aspettare.

The watcher and the tower
Waiting hour by hour.

Non fare più resistenza. Osservare (The watcher) e aspettare (Waiting hour by hour)

A volte è questo. Uno cresce, cambia. Si modifica. E le cose che andavano bene prima, non vanno più bene. O comunque sia, si rende necessario un cambiamento. Ecco, senza entrare in uno stato di crisi, difficilmente saremmo disposti alla scomodità di un cambiamento. Certo, a parole lo saremmo, ma siamo onesti: chi vorrebbe davvero abbandonare la propria zona di conforto che magari si è costruito in tanti anni, magari con dedizione e buona volontà, se non fosse spinto dal disagio? Da un misterioso quanto acuto e persistente disagio?
Anche qui il lavoro (il mio lavoro, almeno) è essere disposti a vedere nella crisi una opportunità. La vita mi sta chiedendo di più che rimanere nel solito binario, nel consueto tapis roulant. Può darsi che io ancora non sappia esattamente come cambiare, in che direzione… può darsi (ammettiamolo) che io non lo sappia affatto. 

Però è veramente bellissimo, è liberatorio, per intanto, non censurare la domanda. Ammettere il bisogno, dirlo, dichiararlo. Farlo risuonare. 
La cosa più asfissiante è infatti censurare il proprio bisogno, seppellirlo sotto una coltre di (magari) pie intenzioni e di (anche) devote convinzioni. Dimenticando che siamo creature, davvero, bisognose di tutto.

Così la crisi viene e se tu non fai muro, ti cambia. Muti pelle e per quanto sia doloroso, è più doloroso opporsi. Non sai dove arriverai ma intanto non blocchi il cambiamento, non ostacoli. Se c’è da soffrire, va bene, soffri. Lo fai non stoicamente (per carità!), ma per il presentimento di una felicità maggiore, in futuro. Per un compimento più grande. In termini della saggezza cristiana, è accettare la croce.

E la promessa è questa. Qualcosa che ti dice, quasi contro la tua volontà (che tu vorresti chiuderti nel tuo piccolo mondo di piccole sicurezze, magari anche buone ma piccole), che ti dice, ecco, la vita è più di quanto avevi previsto.

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M82, la magnifica

Cigar

Eccolo. Un magnifico e meraviglioso mosaico creato da diverse immagini della galassia starburst chiamata Messier 82 (M82). E’ una galassia in cui il processo di formazione di nuove stelle è non solo ancora in atto, ma è anche eccezionalmente violento, tale da consumare in fretta le sue riserve di gas. M82 si trova a circa 12 milioni di anni luce da noi, ed è un ottimo esempio di tale tipo di galassie. Ed è anche molto bella… 😉

Crediti foto: NASAESA and the Hubble Heritage Team STScI/AURA). Acknowledgment: J. Gallagher (University of Wisconsin), M. Mountain (STScI) and P. Puxley (NSF).

 

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Telescopio Spaziale Hubble, ecco come si rivela la bellezza

Vi siete mai chiesti come si ottengono tutte le bellissime immagini che ci ha regalato finora il Telescopio Spaziale Hubble, nel corso della sua onorata e lunga carriera? Sono spesso panorami celesti tali da farci rimanere a bocca aperta! Come fanno dunque i dati “grezzi” acquisiti da Hubble ad andare a comporre una di quelle immagini bellissime, come quella di Arp 274, presentata qui sotto? E’ davvero un processo interessante, se teniamo conto che – propriamente parlando – le camere a bordo di Hubble non acquisiscono immagini a colori: contano soltanto i fotoni nelle diverse bande fotometriche.

Il tripletto di galassie Arp 274.

Il tripletto di galassie Arp 274. Nella (bella) immagine sembrano parzialmente sovrapposte, ma in realtà sono a distanze diverse. Crediti: NASA, ESA, M. Livio and the Hubble Heritage Team (STScI/AURA)

Al proposito, il team di Hubble ha prodotto un video nel quale viene mostrato il processo per cui si crea una immagine stratosferica come quella di Arp 274. E’ in inglese, naturalmente, ma può valera lo stesso la pena di vederlo: ci dà un’idea interessante di cosa avviene “dietro le quinte” e come funziona la “galleria estetica” forse più importante del mondo…

Le immagini a colori provenienti da Hubble sono ottenute dalla combinazione di immagini in “bianco e nero” acquisite attraverso i vari filtri. Per una immagine, di solito la sonda deve prendere tre foto diverse, una attraverso un filtro rosso, una per il verde e una per il blu. Ognuna di queste foto deve poi essere inviata a Terra, dove le varie sequenze sono finalmente combinate in una immagine a colori. 

Questo sarebbe già sufficiente. Consideriamo però che Hubble dispone in realtà di una quarantina di filtri nelle diverse bande, che vanno dall’ultravioletto (più “blu” di quanto i nostro occhi non possano vedere) fino all’infrarosso (più… “rosso” del rosso, in pratica). Questa grande disponibilità di dati nelle diverse bande fornisce al team che produce le immagini una grandissima flessibilità, permettendo loro di “portare in luce” qualsiasi informazione sia rintracciabile nei dati. Come pure, di tanto in tanto, di prendersi qualche leggera “licenza artistica” … 😉

Da un articolo su Universe Today

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Saranno così gli insediamenti su Marte?

Guardate la foto riprodotta qui sotto. Potrebbe a tutti gli effetti assomigliare ad uno dei futuri insediamenti umani su Marte, non pensate? Almeno, è quello che ha ritenuto il nostro astronauta Luca Parmitano esprimendosi così in un suo tweet di ieri: “E’ probabile che un giorno i nostri insediamenti su Marte saranno così.”

Ma alla fine cos’è questa struttura misteriosa – che deve essere enorme e sembra anche trovarsi nel mezzo di … assolutamente nulla? Un nuovo ramo segretissimo della famigerata Area 51?

Non esattamente. In realtà è una delle più grandi strutture per la produzione di sali di litio, e si trova nel cosiddetto “triangolo del litio”, tra Argentina, Cile e Bolivia. Nella fattispecie, la foto mappa una zona del deserto cileno di Atacama.

La colonizzazione di Marte in realtà – lungi dall’essere appena una simpatica boutade astronautica – è ritenuta da molte persone uno dei passaggi chiave nello sviluppo futuro dell’uomo. Molte agenzie spaziali hanno concentrato la loro attenzione sul pianeta rosso, per definire delle possibili strategie di insediamento sul pianeta. Va detto che con le tecnologie attuali, un viaggio umano verso Marte richiederebbe almeno sei mesi. In ogni caso, è il pianeta raggiungibile da Terra con il minor impiego di energia; e vi sono anche diverse analogie tra la Terra e Marte (ad iniziare dalla durata del giorno solare marziano, straordinariamente simile a quello terrestre) che rendono lo scenario meno ‘fantascientifico’ rispetto alle ipotesi di colonizzazione di altri pianeti del sistema solare.

Certo vi sono anche importanti differenze: Marte è decisamente più freddo della Terra, con una temperatura media di -63 gradi Celsius, e con punte minime anche di -143 gradi. Inoltre, possiede sì una atmosfera, ma non dimentichiamoci che è una atmosfera costituita principalmente di diossido di carbonio. Inoltre a causa dell’assenza di una magnetosfera, i venti solari vengono a colpire direttamente la sua ionosfera.

Vi sono addirittura progetti di singoli privati, come Mars One (proposto e guidato dal ricercatore olandese Bas Lansdrop), che articolano nei dettagli le tappe di una conquista umana di Marte. Quanto poi vi sia ancora fantascienza, in tutto questo, è ovviamente una ottima domanda…

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Formazione stellare in NGC 6334: come un dipinto…

C’è una stupenda galleria d’arte nello spazio, un’esposizione permanente, aperta 24 ore al giorno. Le istallazioni sono sparse un po’ dovunque e si chiamano Nebulose Planetarie. Sono veramente come dei quadri: chi ci segue avrà avuto modo di vederne diverse veramente interessanti (perché qui ci piacciono molto, non perdiamo occasione per proporle…!)

Questa che ospitiamo oggi nel nostro sito è NGC 6334, ed è una delle zone di formazione stellare a noi più vicine. E’ stata scoperta da John Hershel nel lontano 1837, con osservazioni condotte dal Capo di Buona Speranza, in Africa.

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La nebulosa NGC 6334, zona di furibonda formazione stellare (Crediti: S. Willis (CfA+ISU); ESA/Herschel; NASA/JPL-Caltech/ Spitzer; CTIO/NOAO/AURA/NSF)

La novità per questa nebulosa sono abbastanza interessanti: le osservazioni recenti hanno permesso di identificare e separare un grande numero di sorgenti contaminanti, incluse molte galassie sullo sfondo (le galassie sono onnipresenti nell’universo…) e stelle giganti fredde nel piano galattico, per ottenere una statistica più completa delle stelle giovani appena formate.

L’intervallo di luminosità stellare registrato nelle immagini è sbalorditivo, andando da stelle di luminosità circa pari a quella del Sole, a stelle anche un milione di volte più deboli. Tuttavia quel che si vede, anche qui, non è tutto. Infatti è necessaria una estrapolazione per arrivare a contare anche quelle stelle che non si riescono a vedere: la conoscenza della funzione di massa stellare – ottenuta da diversi studi – insieme con le osservazioni raccolte, permettono di compiere questa procedura con una sufficiente precisione.

Dunque interessante sotto il profilo teorico. Ma non meno, aggiungeremmo guardando la figura, sotto quello squisitamente pittorico…!

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