Blog di Marco Castellani

Categoria: Musica Page 3 of 8

Combattente

E’ abbastanza sorprendente capire che ci si può stupire ancora. In effetti è una regola della vita, forse la regola della vita. Quella che manda avanti tutto, comunque. Che ti permetti di respirare, in fondo. Che non ti permette mai di dire i giochi sono chiusi perché lo sai, lo sai che per dirlo devi comunque mentire, dire comunque una cosa che non è nell’ordine delle cose, non lo è affatto. E’ una variazione arbitraria della trama dell’Universo, dei suoi misteriosi campi di forza. Misteriosi, sì, ma nella loro struttura ultima, non tanto nel loro manifestarsi. Su questi, chiunque sia su questa nostra Terra già da un po’, inizia certamente a farsi le sue brave idee.
Così entrare nel nuovo disco di Fiorella Mannoia, Combattente, intanto, scompagina un po’ i miei pensieri pigri, quelli che mi vogliono insegnare a non cercare più lo stupore, che tanto non si trova. Beh, una bella favoletta, perché invece si trova, eccome.

Anche qui, in un disco che già immagini un po’ convenzionale. Beh sì, Fiorella ha cantato tantissime splendide canzoni, ma che vuoi ormai, alla sua età (terribile frasetta), dopo tanti successi…  Il bello di queste cose da finta persona matura è quando vengono spazzate via dalla realtà. Allora sì che uno inizia a prenderci gusto.
Perché già da Combattente, la prima canzone che poi dà in maniera molto discreta ma efficace, la cifra interpretativa di tutto il lavoro (poi si capisce, è un concept album appena un po’ nascosto, ma è evidente), capisci che c’è qualcosa che non torna. Accidenti. Qui rischi di stupirti di nuovo. 

Dopo un paio di ascolti la melodia mi prende, e insieme le parole, perché girano molto bene insieme. E mi sembra che dica qualcosa in modo nuovo, o fresco, qualcosa che mi fa bene risentire, riascoltare.
È una regola che vale in tutto l’universo

Chi non lotta per qualcosa ha già comunque perso

E anche se il mondo può far male
Non ho mai smesso di lottare

Che poi la cosa si fa più radicale. Da vale a cambia, il passaggio non è di poco conto.
È una regola che cambia tutto l’universo

Perché chi lotta per qualcosa non sarà mai perso

Mi risuona. In fondo è l’atteggiamento con il quale affrontiamo le circostanze, le sfide, che le cambia. Ne cambia la stoffa, la qualità, la consistenza. Non so dire come esattamente questo avvenga, ma le cambia, comunque. E’ esperienza comune, è esperienza di tutti. Anche una canzone allora ha valore, ha un valore forte, puntuale. Perché ti conduce i pensieri in questa zona. Li fa uscire dalla regione di circolazione improduttiva, dalla stagnazione. E li muove delicatamente in un una zona lavorabile. 
Capire che il mio atteggiamento influisce sul modo in cui faccio esperienza del mondo, è una nozione preziosa. Qualcosa che devo riprendere e ripercorrere spesso. 
Ed è appena l’inizio. E’ bello che nelle altre canzoni ritrovi comunque il tema accennato da Combattente che ritorna, lo trovi sempre sottotraccia, e ogni tanto riaffiora esplicitamente, a formare una bella coesione dell’esperienza di ascolto. Sarà che sono irrimediabilmente malato dall’aver appassionatamente vissuto l’epoca dei concept album, quelli che andavano negli anni settanta, chissà. Di fatto, l’ascolto di una serie di canzoni – pur belle – che trattano argomenti tra i più disparati, riunite in un album e proposte tutte assieme, mi ha sempre lasciato addosso una sensazione un po’ di non compimento. 
Esatto. Con questo album il pericolo è scongiurato. Hai la sensazione piacevole di rimanere in tema, anzi, di approfondirlo guardandolo da una serie di posizioni diverse, declinandolo in una varietà di situazioni. La cosa acquista gusto, ed interesse.
Al mio orecchio, in ogni canzone c’è almeno un friccico di nuovo. Nelle parole, nella melodia o nell’arrangiamento. C’è sempre un po’ il gusto del non ascoltato, e un accento di verità, che supera l’impressione di mestiere che invece trovo in tanta musica moderna (sto invecchiando, me ne rendo conto, e faccio probabilmente discorsi di chi sta invecchiando… abbiate pazienza, voi che leggete).
Ma la vera chicca del disco, quella che mi fa sobbalzare i pensieri, arruffarli  e scompigliarli per evidente abbondanza di bellezza,  è lì, verso il centro, quasi nascosta. Del resto, anche come inizia, in maniera tutt’altro che roboante, anzi. Con una melodia appena accennata, la voce di Fiorella che quasi indulge sul parlato. E solo dopo un po’ si aggancia alla melodia, che scopro poi efficace, persuasiva. E splendidamente agganciata alle parole. Quelle parole che (una volta tanto) appaiono davvero e compiutamente poetiche. Cioè capaci di sorprenderti in un epifania che – per un istante – spazza via i pensieri ricircolanti e squarcia un velo oltre il quale rimani soltanto in silenzio, in ammirato silenzio. 
Tale è il potere della musica, e delle parole, quando si trova chi lo sappia far sprigionare, far rifulgere.

Sto parlando de I pensieri di zo, di Fabrizio Moro (fino ad ora per me, perfetto sconosciuto, tanto per richiamare la canzone dell’album che era anche colonna sonora dell’onomimo film).  E visto che pare che su Youtube la canzone non sia facilmente reperibile (immagino, per comprensibili motivi di copyright) qui mi debbo accontentare di riportare il testo, che prendo dal sito di Fiorella.
Anche se, diciamolo: accontentarsi, è un po’ far torto alla canzone, perché ci arriva addosso con un testo assolutamente favoloso. Certo, rende al massimo con la musica, dunque se non l’avete fatto, vi consiglio di cercare di ascoltarla. Vale la pena, ve ne accorgerete. 
Sai quando senti le parole che escono deliziosamente dal sentiero del già detto, che – apparentemente inoffensive – si accostano, si agganciano tra loro in modo da evocarti suggestioni, brandelli di situazioni, persone o momenti di persone, echi di giorni mezzo ricordati (per dirla con l’ottimo Roger).

Ma che belle le sere d’estate
un poì prima di uscire
quando senti che esisti davvero
e non ti sai più gestire

E il cuore beve queste parole e scalpita, riconosce la bellezza, come rispondenza misteriosa al vero delle cose, e se ne nutre. Parrà sembra esagerato per una canzone, ma a pensarci non lo è poi tanto. Specie se siamo convinti che il bello possa prendere dimore dappertutto, sia assolutamente trasversale e non inquadrabile in nessuno schema. Sia sempre un po’ oltre i nostri ragionamenti (compresi quelli che dicono che è oltre, naturalmente). In altre parole, sia ultimamente irriducibile a qualsiasi sua concettualizzazione. 
Io penso così, almeno.
E allora lascio il posto alla possibilità di emozionarmi, quando ascolto I pensieri di zo.

Mi viene da pensare, è come un contraltare più carico di letizia della pur bellissima canzone di Vasco (guarda un po’ stupendamente interpretata dalla Mannoia) che è Sally. E’ di più, è come Sally rivoltata come un guanto da una prospettiva più gioiosa,  ancora possibile, sempre possibile.
Sentire di esistere davvero. Forse qui è racchiuso il senso del tema. Quell’essere combattente non è fine a se stesso, o ad una ribellione sterile, stigmatizzata, già vista, già percorsa. E’ una rivoluzione inedita che ancora ci aspetta, quella che ci porta ad esistere davvero. 

Scriveva Holderlin (citato nel saggio Poesia e Rivoluzione, di Marco Guzzi), già nel 1797,  “Io credo in una rivoluzione futura delle concezioni e delle modalità di rappresentazione, che farà impallidire tutto ciò che finora è stato”.

In effetti, ogni bellezza parla di questo, e niente che ci interessi davvero parla di qualcosa meno di questo. Una rivoluzione tutta da fare, sempre e di nuovo.

Come ormai è chiaro, l’unico motivo rimasto per sentirsi ed essere realmente combattenti.

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Tuona di già…

Non c’è niente da fare. Oggi mi rientra nei neuroni continuamente. E’ quel grumo di note e parole che definisce la mia giornata, la identifica e la separa dalle altre.
 
 
 
Complice il tempo che su Roma è veramente di diluvio accentuato, complice anche il fatto che l’ho risentita stamattina in automobile, venendo al lavoro.
 
Complice soprattutto il fatto che, sotto la scorza un po’ difficile, come quella tipica delle canzoni del Battisti “secondo periodo”, si schiude dopo qualche ascolto una tenerezza bellissima. E si rivela per quello che è, una stupenda ed appassionata canzone d’amore.

 


Così un amore, un fatto apparentemente privato, assume una rilevanza immediatamente cosmica, totalizzante.

 

Perché un amore non può assumere nessun’altro tipo di rilevanza, dopotutto.

Altrimenti non è niente.

“Tuona di già / stai buona…”

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Così lontano…

Due parole ancora sulla missione Rosetta, perché è veramente qualcosa di stupefacente quello che sta avvenendo in questo periodo. Non è possibile, infatti, non emozionarsi almeno un po’ per quello che sta accadendo così lontano da casa. La sonda Rosetta in orbita attorno alla cometa 67P, il lander Philae appoggiato alla cometa stessa, che ha timidamente ripreso i contatti, dopo mesi di completo silenzio…

Negli ultimi giorni, molti di noi hanno seguito con passione lo scambio di tweet tra RosettaPhilae dove la ripresa dei contatti veniva documentata praticamente in tempo reale (tra l’altro, esempio interessante di dialogo simulato tra due strumenti scientifici, per l’occasione simpaticamente personificati). E magari lì per lì abbiamo pensato, sì bravi, ottima cosa… facendoci sfuggire così la vera portata di questo evento scientifico. 

Anzi, di questo evento tout court.

Eh sì, perché la cosa interessante, davvero interessante, è che tutto questo sta avvenendo piuttosto lontano da noi, anzi molto molto lontano. In caso ne avessimo smarrito percezione, ci pensa un tweet di Rosetta, di appena due ora fa, a ricordarcelo:

Tweet che al momento in cui scrivo, risulta già ridiffuso 189 volte e inserito 181 volte tra i preferiti. 

Oggi Rosetta si trova dunque a 288 milioni di chilometri da casa! E da questa distanza non solo è controllata da Terra, ma scambia dati con una piccola sonda abbarbicata ad un pezzo di roccia che vaga nello spazio, sulla quale è fortunosamente atterrata con una procedura alquanto complessa, qualche mese fa.

E insieme stanno facendo cose notevoli, come scoprire l’acqua sulla cometa stessa.

Eh sì. Ben 120 regioni sono state identificate sulla cometa, che sono fino a dieci volte più brillanti della media. Osservate ad alta risoluzione, lasciano come ipotesi più plausibile quella di essere formata da ghiaccio d’acqua. Si stanno facendo esperimenti “in casa” per riprodurre le condizioni sulla cometa, in termini di miscela di acqua e minerali e illuminazione solare, e vedere in che grado le cose tornano.

E tutto questo avviene raccogliendo un esile flusso di dati proveniente da due pezzetti di metallo che si trovano a quasi trecento milioni di chilometri da Terra… So far away from home… 

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Astrosamantha impara a volare

Allora come forse saprete, Samantha Cristoforetti, la nostra simpaticissima inviata sulla Stazione Spaziale Internazionale, ha scelto i Pink Floyd al posto di Vasco, per iniziare la giornata. La prima cosa che ho pensato, mi perdoni Vasco, ma è stato che donna

Perché insomma, ha anche mostrato carattere, nel rivendicare una sua scelta. E poi – lo ammetto – ne sono entusiasta anche e soprattutto perché la scelta è andata su una canzone che secondo me è oggettivamente straordinaria. Eh beh. Learning to Fly è trascinante, stupenda. Mette allegria questa chitarra che entra, da subito, tenacemente sognante… I primi accordi già sembra che ti tirino in alto, ti invitino a lasciare i tuoi crucci, almeno per un po’, e ad osservare le cose da un’altra visuale: una visuale ampia, ariosa.

Non c’è da fare i sofisti. I Pink Floyd, anche  senza Roger Waters (ahi ahi doloroso capitolo, per me), qui appaiono davvero in stato di grazia: a state of bliss, come dicono anche loro.

There’s no sensation to compare with this
Suspended animation, A state of bliss
Can’t keep my mind from the circling skies
Tongue-tied and twisted just an earth-bound misfit, I…

Deve essere bellissimo ascoltare queste note da lassù, dalla Stazione Spaziale Internazionale. Con la Terra che fa capolino dalla finestra. E’ giusta questa canzone, è propulsiva, è ottimistica senza essere fatua. E’ che dobbiamo sempre ricominciare, siamo sempre qui su questo pianeta stupendo per imparare a volare.

Non me ne vogliano i fan di Vasco (per certe canzoni, dopotutto, lo sono anch’io). Non che la canzone di Vasco non sia interessante, ma da come la vedo io, è più “normale”. Possiamo ammetterlo, Dillo alla luna è gradevole. Si può ascoltare, certo.

Ma ragazzi: non decolla come Learning to Fly. 

“Can’t keep my mind from the circling sky…”

Ecco. Una meravigliosa dichiarazione di impotenza. Alla fine ancora succede: alla fine vince lo stupore. Non riesco a distogliere la mente dai cieli che girano intorno

Neanche noi. E se lo facciamo, quando lo facciamo, abbiamo comunque sempre una possibilità. Tornare al circling sky, alla sua meraviglia.

Grazie Samantha, che ce lo hai ricordato.

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Imbrigliarti tutta

Pomeriggio, interno domestico. Sono lì sul divano. Sto leggendo una rivista di poesia  sull’iPad, quando rimango colpito da un componimento breve. La sua forza – e certo anche il tema – sono complici acché io non rimanga distratto. Anzi. Rimango colpito non soltanto dalla poesia in sé. C’è un fattore aggiunto, c’è che mi ricorda qualcosa. Nel mezzo della lettura mi viene in mente qualcosa. Qualcosa – tra l’altro – di molto più recente della poesia stessa. 

Di più recente ma di straordinariamente simile.

Ma perché io non proceda troppo chiuso… intanto, eccola.

Cavallina brada, perché sbirci me con l’angolo degli occhi

assassini e corri via? Non avrei doti, io, per te?

Attenta! Saprei perfettamente conficcarti il morso,

imbrigliarti tutta, farti fare la curva a fine giro

Vivi la prateria, scarti ariosa. Puledra, non hai 

chi ti pesa addosso, e che sa tutto di cavalle.

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Bene, bisogna dire subito che è una poesia antica,molto antica.  E’ stata scritta da un tale di nome Anacreonte, un poeta greco che visse ben cinque secoli prima di Cristo. La poesia mi colpisce per la metafora decisamente scoperta e (a parer mio) molto efficace. Vedete, ha qualcosa di decisamente moderno, nonostante i secoli che ci separano dal momento in cui fu composta. Come certi componimenti di Saffo, questa poesia risveglia la mia sensibilità con un accento integralmente contemporaneo. Non devo da fare alcuno sforzo per immedesimarmi, per attraversare i secoli.

La poesia è di adesso, accade ora. Del resto, tutto ciò che non accade ora in fondo non interessa, in fondo non esiste.

Ma dicevo, mentre leggo la poesia, un altro materiale mi viene a cercare. Degli altri versi mi risuonano in testa. La mente aggancia una analogia, trova una  corrispondenza, verifica spontaneamente  un intreccio. 

Così mi tornano in mente quelle parole. La canzone è breve, e possiede quella stupenda accorata introduzione che scende subito nel punto. Non c’è tanto da fare accademia, o indulgere in disamine filologiche del testo (come nella poesia di Anacreonte, peraltro), quanto di esprimere un desiderio, anzi – potremmo dire – un bad desire… Qualcosa che tiene sulla graticola, che scotta. 

Hey little girl is your daddy home

Did he go and leave you all alone

I got a bad desire

Oh, I’m on fire

Qualcuno l’avrà riconosciuta: è I’m on Fire, di Bruce Springsteen. Non sono un particolare fan del Boss, ma sono un fan sfegatato di questa canzone. Così diversa e così sincera, ha un taglio intimistico affascinante.

Ma quello che mi colpisce adesso è la strofa successiva

Tell me now baby is he good to you

Can he do to you the things that I do

I can take you higher

Che potremmo ardire di tradurre  come

Dimmi bimba se lui è bravo con te

Se può farti quel che ti farei io

Io posso portarti più in alto

Che ricalca – in pratica – qualcosa scritto appena 2500 anni prima….

Saprei perfettamente conficcarti il morso,

imbrigliarti tutta, farti fare la curva a fine giro

Che possiamo dire. La modulazione dei sentimenti umani è quella. Cosa aveva l’uomo di due millenni fa uguale a quello contemporaneo, se non il fatto stesso di essere uomo, quel nucleo di speranze e desideri, bisogni ed evidenze elementari dai quali ultimamente si riconosce e che la letteratura elabora e rispecchia? E la poesia è come schianto che percorre i secoli, i millenni. Ed è sempre e continuamente moderna. 

Poesia è il dire anti-retorico per eccellenza. E’ il dirsi sincero e perennemente rivoluzionario. Anche quando parla di amore, anche quando alza il velo sui bad desires. Sulla poesia la retorica non prende: scivola, slitta via, non fa presa. Le poesia celebrative di quel partito o di quella ideologia sono poesie – prima di tutto  – brutte. Sono versi violentati. Forzati a qualcosa che non vogliono fare. A qualcosa che non possono essere. Ad un giro che non vogliono e non possono compiere.

La parola spurgata dalla costruzione retorica torna al suo alveo originale. E’ parola che guarisce. Che sfida e converte ogni costruzione egoica iniettando un devastante siero che richiama tenacemente l’uomo a (ri)scoprire se stesso, la sua umanità. Lo costringe a lasciare la presa, lo prende di sorpresa, sbriciola la sua inesausta pretesa di costruirsi una sua sicurazza, di fabbricare un proprio idolo, di formularsi autonomamente uno schema di salvezza. Per riconsegnarlo, spogliato di tutto ciò che non è essenziale, alla sua profondità infinita, al suo infinito bisogno.

E’ davvero un ricostituente planetario, come indica Marco Guzzi nella bella poesia Dal parlatoio.  

Credimi!
E’ forte la parola che ti mando.
La guarigione
Passa per gocce
Medicamentose, per idee.
Scrivile
Tu.
E’ il ricostituente
Planetario.
Non c’è armamentario
Che ti serve. Va’ come sei.
Spargi il mio contagio.

Per questo la poesia non è di questo mondo: è in questo mondo ma non appartiene alle strutture di questo mondo. E’ sempre rivoluzionaria e perennemente guaritrice. E’ qualcosa che scalpita dentro ogni architettura precostituita e perciò stesso già stantia: qualcosa che non puoi domare, non puoi imbrigliare. 

Ma dalla quale, se appena ti lasci prendere, appena inizi a darti pace, sei imbrigliato.  

Cioè, sei liberato

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Ciao Pino

Uno dei commenti più limpidi e belli sulla recentissima scomparsa di Pino Daniele, a mio avviso, è quello del nostro Luca Parmitano su Twitter

Non c’è bisogno di spendere molte parole, il rischio della retorica è sempre alto in queste situazioni, proprio quelle in cui la evidenza forte della vita – e della sua fine terrena – impongono semmai una riflessione personale e un silenzio di meditazione. Però forse c’è spazio per un omaggio, per usare le parole al fine di dare un tributo. Ed è proprio Luca che mi consente un aggancio allo spazio, al cielo. Perché la musica è legata al cielo, comunque. E’ l’arte. E’ quello che ci fa alzare la testa, ci fa tornare a guardare le stelle.

Io sono proprio convinto che l’Italia, tra tutte le altre cose, è terra di musicisti. Oltre i vecchi steccati, le separazioni tra generi musicali, i talenti sono tanti e si allargano a discipline come la classica, il jazz, la musica popolare e contemporanea. Non sono assolutamente un esperto, per cui vi risparmio le disquisizioni teoriche, ma quello che c’è di più caro, di più intimo, che unisce tutti i nostri musicisti, che ci aiutano a guardare in alto, è questa cantabilità del tutto propria del nostro bellissimo paese. Il ritmo ce lo insegnano gli anglosassoni, magari (certe volte). Anche certe sperimentazioni. Ma la cantabilità, no: quella è nostra ed è anzi intimamente nostra. E’ qualcosa che passa attraverso Puccini, coinvolge i bellissimi dischi dell’ultimo Battisti, passa per delle dolcissime melodie di Mango, e naturalmente in tante stupende canzoni di Pino Daniele. E tantissimi altri.

Così ora, nel cielo, c’è più musica. E noi abbiamo, forse, un motivo in più per guardare in alto, per cercare la musica tra le stelle…

Ciao Pino, riposa in pace.

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Ciao Pino

Uno dei commenti più limpidi e belli sulla recentissima scomparsa di Pino Daniele, a mio avviso, è quello del nostro Luca Parmitano su Twitter

Non c’è bisogno di spendere molte parole, il rischio della retorica è sempre alto in queste situazioni, proprio quelle in cui la evidenza forte della vita – e della sua fine terrena – impongono semmai una riflessione personale e un silenzio di meditazione. Però forse c’è spazio per un omaggio, per usare le parole al fine di dare un tributo. Ed è proprio Luca che mi consente un aggancio allo spazio, al cielo. Perché la musica è legata al cielo, comunque. E’ l’arte. E’ quello che ci fa alzare la testa, ci fa tornare a guardare le stelle.

Io sono proprio convinto che l’Italia, tra tutte le altre cose, è terra di musicisti. Oltre i vecchi steccati, le separazioni tra generi musicali, i talenti sono tanti e si allargano a discipline come la classica, il jazz, la musica popolare e contemporanea. Non sono assolutamente un esperto, per cui vi risparmio le disquisizioni teoriche, ma quello che c’è di più caro, di più intimo, che unisce tutti i nostri musicisti, che ci aiutano a guardare in alto, è questa cantabilità del tutto propria del nostro bellissimo paese. Il ritmo ce lo insegnano gli anglosassoni, magari (certe volte). Anche certe sperimentazioni. Ma la cantabilità, no: quella è nostra ed è anzi intimamente nostra. E’ qualcosa che passa attraverso Puccini, coinvolge i bellissimi dischi dell’ultimo Battisti, passa per delle dolcissime melodie di Mango, e naturalmente in tante stupende canzoni di Pino Daniele. E tantissimi altri.

Così ora, nel cielo, c’è più musica. E noi abbiamo, forse, un motivo in più per guardare in alto, per cercare la musica tra le stelle…

Ciao Pino, riposa in pace.

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Uomo e donna (in fila al casello)

Mentre sto per uscire dal casello, noto la fila dall’altro lato. Come a volte accade all’ingresso Telepass, una macchina ha problemi ed ha bloccato la fila. Un coro di clacson splendidamente  strutturato e denso, armoniosamente compatto, arriva spavaldo e perentorio alle mie orecchie. Proprio mentre sarebbero occupate ad ascoltare la splendida versione di Blood of Eden di Peter Gabriel interpretata in modo attrattivamente personale da Regina Spektor, nel disco – ruvido, imperfetto, tenero, bellissimo – And I’ll scratch yours, .

Ebbene, per qualche motivo il contrasto così eclatante tra lo struggimento per la ricerca di una profonda armonia – che è poi l’oggetto della canzone – e la rabbia veicolata dalla nota strutturata dei clacson sovrapposti mi colpisce, come evidenza solare. Mi fa balzar fuori da quella sorta di fastidioso inganno in cui abito per la maggior parte del tempo. Quello che mi dice che tutti sono felici e soddisfatti a parte me. Che solo io ho momenti di frustrazione, insoddisfazione, di misteriosa tensione, di dubbi esistenziali, laddove quasi tutti (ammetto solo piccole eccezioni) continuano tranquilli e paciosi nel lavoro dell’essere appagati dal loro stile di vita, senza più perplessità o problemi, salvo palesi avvenimenti esterni che arrivino a perturbare tale stato (lavoro, salute, etc).

Walking on water 209779 640

Siamo come bimbi in cammino, dopotutto…

Eh già, perché qualcosa non mi torna. Stavolta, lo devo ammettere. Se siamo tutti contenti e soddisfatti (a parte me, sempre in cerca di qualcosa che a volte non so neanche definire) come mai ci arrabbiamo tanto facilmente?

I saw the darkness in my heart

I saw the signs of my undoing

Forse non sono così solo nella mia condizione. E pensarlo mi fa bene. Non sarà – mi dico – che già il fatto di ammettere che uno possa stare così così, riconoscerlo senza drammi, già questo aiuta a vivere meglio? Se non essere sempre felici non è un problema, magari ti rilassi e intanto questo fa bene.

Siamo d’accordo, poi lo struggimento di certe parole non ti aiuta, nell’acquietarti. Regina le canta in maniera molto diversa da Peter, quelle parole, ma attraverso la sua ugola acquistano una limpidezza nuova, una evidenza quasi lancinante…

In the blood of Eden lie the woman and the man

With the man in the woman and the woman in the man

In the blood of Eden lie the woman and the man

We wanted the the union oh the union of the woman, the woman and the man

E così lo struggimento rimane e avverto anzi uno scarto formidabile tra quello che avviene intorno e quello che ora Regina sta cantando. E non posso farne a meno, mi domando come mai. Chi dei due stia sbagliando. O quelli in fila al casello – fatta da tanta gente come me – o lei che canta di una armonia così dolce, che sembra quasi una armonia perduta. Irraggiungibile, forse. Che non riusciamo più ad afferrare… 

My grip is surely slipping

I think I’ve lost my hold

Yes, I think I’ve lost my hold

I cannot get insurance anymore

Allora? Allora mi accorgo semplicemente che non riesco a tenere insieme le cose, non riesco a salvarne una o l’altra. Non riesco a decidere chi ha ragione, e chi invece me la sta raccontando. 

A meno che …

… a meno che non possa riuscire a salvarle entrambe. A salvare l’impazienza dell’uomo, la mia impazienza, guardandola con un nuovo, rinnovato moto di simpatia. Facendomi prendere dall’affetto per l’umano e per tutte le sue manifestazioni, che poi – in fondo in fondo – sono proprio le mie. Ecco, finalmente. Perlomeno capisco quello che ci vuole. Lo sguardo affettuoso sopra tutte le tensioni e le imperfezioni, che sono completamente le mie.

Cioè, invece di tentare di essere al di sopra di tutte queste cose – tipo, le gente che suona il clacson e  la gente impaziente e incoerente e che va avanti piena di errori e difetti… riconoscere di esserci dentro, di esserci dentro fino al collo. E dunque, intanto, smettere di agitarsi per uscirne fuori. E iniziare, invece,  a guardare questa cosa – questa dolente fragile coloratissima umanità che ho dentro ed intorno – con calore e con simpatia. Con affetto.

Oggi, più che mai forse nella storia, la certezza di cui l’uomo ha bisogno non è appena una comprensione intellettuale, dogmatica delle cose, ma (…) una conoscenza affettiva della realtà (Davide Prosperi, in “Non sono quando non ci sei”, Giornata d’inizio anno degli adulti e degli studenti universitari di CL)

Perché l’umano è veramente una cosa grande, una cosa meravigliosa. Le nostre imperfezioni sono gemme. Sono gemme perché siamo voluti bene, che è l’unica ipotesi ragionevole, che è l’unica cosa che conta. Perfino l’incoerenza può sfavillare, se siamo voluti bene.

Perché poi, appena me ne accorgo, anche il dolore per questa misteriosa rottura di simmetria, penetra nella canzone e ne informa di sé la melodia, le parole

Is that a dagger or a crucifix I see

You hold so tightly in your hand

And all the while the distance grows between you and me

I do not understand

Che a volte la distanza cresca tra te e me, nonostante tutto lo sforzo che noi persone civili possiamo produrre, personalmente lo prendo come la sconfitta esistenziale di Cartesio (mi perdoni l’esimio filosofo).

Battuto, non serve nemmeno la moviola in campo: è plateale, la sconfitta.

Cioè che basti indagare e quantificare a sufficienza le cose (immergere tutto in un bel sistema di assi cartesiani, appunto) per fare chiarezza, sistemare le cose come se fosse semplicemente un problema di sapere di più (la sottile tentazione della manualistica, potremmo dire). Essere analitici, scientifici. Mentre invece di ottenere chiarezza – paradossalmente – va a finire che le incomprensioni crescono, le distanze esplodono. Mi ricorda qualcosa come la Torre di Babele. E quello che è peggio, cadiamo nell’errore di ridurre questo a fatto privato, a chiederci cosa non va…

Un grandissimo errore della cultura del nostro tempo, fonte di un notevole aggravio della sofferenza individuale, consiste proprio nella privatizzazione delle problematiche esistenziali, nella loro riduzione psicologistica a fatti privati appunto, privati del loro sfondo umano, che è sempre universale, ampio, comune e condiviso, come il tessuto delle nostri carni, fatto del filo delle medesime sostanze di cui sono fatti la terra, i cieli, e le stelle. (Marco Guzzi, Lettera ai miei figli sulla bellezza del matrimonio)

Smarrito lo sfondo globale, è ancora più facile perdere chiarezza… 

I do not understand…

Così il non capisco guadagna strada e la mancanza di una connessione emotiva lacera dolorosamente ogni tentativo di ricomposizione. Il non capisco cerca una soddisfazione razionale quando una strada per la risposta viene da altro, sospetto, da qualcosa di inedito, come una nuova tenerezza.  Più che necessaria in questo tempo.

E’ un’opzione, in ultima analisi. Un’opzione del cuore. Da questo dipende la mia percezione, di una violenza o una tenerezza. Intorno a me, sul tuo volto. Nelle tue stesse mani. Se sei qui per farmi del male o per amare. Per una lista di torti e ragioni che ultimamente mi inchioda, o per una tenerezza. Dipende ciò che vedo, da come lo vedo, perché delle mille possibili rifrangenze interpretative della realtà, mi riviene addosso quella che risponde al mio atteggiamento del cuore.

L’osservatore non è mai neutro, è sempre coinvolto. La fisica l’ha scoperto relativamente da poco, la saggezza umana lo sa da sempre.

Cosa tieni in mano: una lama, o un crocifisso. O meglio, cosa vedo (I see) nella tua mano?

Is that a dagger of a crucifix I see

E guardare con affetto allo stato di devastazione emotiva che a volte sento dentro di me, iniziare a guardare proprio con tanta tenerezza allo iato tra quello che sono e quello che correi essere, è veramente una conversione piacevole e necessaria, un lavoro che rende di nuovo la vita interessante.

Sì, è un lavoro, che può essere lungo, che chiede pazienza. Che chiede di riconoscere ed accogliere la propria ferita, risalendo – meglio se con un aiuto esterno, psicologico, spirituale – al punto in cui il dolore è più forte. Al punto in cui siamo stati davvero feriti. Scavando pazientemente fino a ritrovare quel punto infiammato, riconoscerlo, accoglierlo, e avviare un risanamento. Mettersi in cammino.

La vera rivoluzione è apprendere la tenerezza (prima di tutto verso noi stessi).

Così torno a giocare e mi piace la musica e Regina canta di qualcosa di cui finalmente posso concedermi la tenerezza, la tenerezza che ogni momento potenzialmente porta con se, se solo accetto di essere in cammino (troppo rivoluzionario questo pensiero, dovrò accontenterai di capirlo piano piano, semmai). E così riesco a salvare tutto quello che accade, la canzone e l’accordi di clacson multipli.

Che poi – ve lo posso confidare – per un istante hanno suonato quasi in armonia con le note della canzone, creando un effetto incredibile ed inaspettato. Davvero, ve lo assicuro: come se melodia e rumore si fossero accordati in un unico momento di perfetta consonanza.

Vorrà pur dire qualcosa.

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