Blog di Marco Castellani

Mese: Settembre 2013

Rilasciato Stellarium 0.12.3

Per quanto sia bizzarro il vezzo di rimanere ad una versione “0.x”, Stellarium è ormai un programma maturo e con diverse interessanti caratteristiche. Per citare solo quelle relative ai dati del cielo che il programma gestisce, basterà snocciolare qualche dato di quelli che si possono leggere nel sito del progetto:

  • catalogo predefinito di oltre 600.000 stelle
  • cataloghi extra con più di 210 millioni di stelle
  • asterismi e illustrazioni delle costellazioni
  • costellazioni per 15 diverse culture
  • immagini degli oggetti del cielo profondo (tutto il catalogo di Messier)
  • Via Lattea realistica
  • atmosfera altrettanto realistica con alba e tramonto
  • pianeti e loro satelliti
0.10-from-mars

Stavolta l’immagine di Marte non viene da un rover, ma da programma per computer… (Crediti: Stellarium website)

La versione 0.12.3 è stata rilasciata appena tre giorni fa e contiene un nuovo plugin per le Nove brillanti, insieme ad alcune correzioni del codice. Potete scaricarla dal sito ufficiale, in maniera completamente gratuita.

Loading

Fabio sognava (scrivere è attraversare la paura)

“Fabio sognava di correre insieme con Liliana. Erano in un campo vastissimo, pieno di sole e di fiori gialli gialli. Lui correva e cercava di acchiapparla, lei correva più veloce di lui, gli sfuggiva sempre per un pelo. Poi alla fine lui riusciva a prenderla, ma con la sensazione che lei si fosse lasciata prendere per essere baciata. Come quando erano fidanzati, lui la stringeva a se e lei faceva la faccia con il broncio.”
E’ un po’ che ci gioco, con questo brandello di trama venuta su così, quasi senza volere. Che parte da alcuni luoghi, da una geografia prima che da una vera e propria storia. Orbetello, Montreal, St. Moritz… Luoghi e personaggi. Così accade che mi trovo a rileggere la parte iniziale del romanzo, che vorrei percorrere piano piano, facendolo crescere, lievitare come una torta, con pazienza e applicazione. E mi domando perché sia ancora lì, fermo.

Vediamo, cerchiamo di fare luce.C’è stato l’inizio, con l’entusiasmo tipico di ogni inizio. C’è stata poi la paura. La paura che tutto questo sia una perdita di tempo, che io non sia veramente in grado di scrivere una buona storia. Insomma tutte le paure più classiche che si possono avere: io ovviamente me le sono ritrovate addosso (io le paure le me le attiro addosso abbastanza bene). Così vi sono state sessioni di scrittura faticose – perché non convinte – e soprattutto lunghe fasi di stasi. Che come tutte le fasi stazionarie, non hanno risolto nulla.
Così ora che inizia un nuovo ciclo, un nuovo anno (per me l’inizio di un nuovo ciclo annuale è circa poco dopo ferragosto, è lì che riparte tutto: dopo la pausa estiva), ora che penso a come veleggiare attraverso l’autunno che sta arrivando, e poi l’inverno, ecco che capisco che ci forse ci manca un ingradiente, alla mia analisi.

Beh, avete probabilmente già capito quale.

Il bello è questo. Attraversare questa paura e scrivere. Allargo un attimo il quadro, permettetemi. E’ bello, gustoso, attraversare ogni paura che viene. A volte mi pare di capire che sia ben di più che un atteggiamento terapeutico. Di qualcosa da raccontare all’analista. E’ qualcosa di strettamente legato al mio compito, al motivo per cui sono qui, per cui sto vivendo. Nella disposizione interiore, che si traduce in una modalità di reazioni di fronte alle circostanze, vi è il nocciolo sacro della libertà, è misterioso ed ha connessioni misteriose e profonde con tutto quanto.

Venendo poi a scrivere. Scrivere è sempre rischioso (un rischio salutare) e scrivere un romanzo è molto rischioso, è come lasciare il porto e fare rotta verso un punto lontano. Verificare le dotazioni di bordo e andare. Del resto, dice qualcuno, le barche in porto stanno sicure: ma non sono fatte per rimanere in porto, le barche.
Allora il viaggio di quest’autunno, di questa fine anno e inizio del prossimo, potrebbe essere questo. Potrebbe essere far crescere un secondo romanzo, dopo Il ritorno. Scrivere un romanzo è una cosa, ma farne un secondo ha una portata profonda (vorrei dire, a prescindere dall’esito). Vuol dire riconoscere che non si può stare lontani dal raccontare storie. Vuol dire che non era una tantum. Vuol dire che non puoi farne a meno, no. 
Che la vita risulti scolorata e tesa quando uno non scrive, quando tenta di legarsi le mani (senza riuscirci) per risparmiarsi questa complessità e eludere ogni incertezza, è un segnale. Forte, netto, che deve essere assimilato. Non è certo completamente in mio potere decidere di scrivere bene. Ma è in mio potere accogliere questa (pressante) richiesta a scrivere, o rifiutare. Rifiutare però vuol dire comprimersi sulla superficie, mancare in profondità, perché il no avvelena e corrompe. Così devo passare oltre la mia autosvalutazione e dire sì. 
Alla fine è semplice: devo fare questo, devo andare a vedere. Devo vedere cosa succede nella storia di Fabio e di Liliana. Perché si sono allontanati, se si potranno riavvicinare, per che motivo, o per chi. Non devo creare, devo soltanto ascoltare i miei personaggi. Fare pace e silenzio dentro di me, perché loro mi parlino. E tenere traccia umilmente di quanto mi vogliono dire. Del resto, lo stanno già facendo. Mi stanno già parlando e io devo solo abbassare lo strato protettivo di distrazione e affanno per lasciar emergere quanto mi dicono. A piccoli passi, con pazienza. Baby steps, sempre.
E’ il tempo giusto per farlo, probabilmente. 
E’ sempre, questo tempo. Ma è soprattutto adesso, mi sembra.

Loading

Uno sguardo al centro

Guardarsi intorno fa bene, e lo facciamo spesso, anche da queste colonne. Ogni tanto però è anche bello ed istruttivo dare uno sguardo direttamente al centro. E il centro per noi più… “centro” di tutto è senz’altro quello della nostra Galassia. E’ ormai praticamente certo che nella zona centrale della Via Lattea si trovi un buco nero supermassivo (come del resto accade per gran parte delle galassie). l suo nome è Sagittarius A* ed è il vero protagonista di questa immagine acquisita con il telescopio spaziale Chandra, che lavora in banda X.sgra_gasChandra_900c

Per la precisione, il riquadro centrale è largo appena mezzo anno luce, e ritaglia la zona esatta del centro della nostra Galassia, lontano circa 26000 anni luce da noi. L’immagine combina dati in infrarosso (colori rossicci) e in banda X (colori blu). La cosa interessante è che dall’analisi dei dati risulta che il buco nero “di casa nostra” mostra un comportamento insolitamente “tranquillo”.

In effetti pare che molta parte del gas caldo – prodotto dalle stelle di grande massa – riesca a scappare all’attrazione del buco nero stesso, per cui l’attività energetica di Sagittarius A* è relativamente ridotta. Detta in termini semplici anche se un po’ imprecisi, ha poca benzina e preferisce gestirla oculatamente… 😉

Sorgente: APOD 6.09.2013, crediti immagine: X-ray – NASA / CXC / Q. Daniel Wang (UMASS) et al., IR – NASA/STScI

Loading

Una spirale in una… pompa d’aria!

Questo autentico gioiellino cosmico si trova ad una distanza di circa centodieci milioni di anni luce dalla Terra, nella costellazione di Antlia (la Pompa d’Aria). Si tratta della galassia a spirale chiamata IC2560, rivelata qui in tutta la sua bellezza in una immagine ottenuta dal glorioso Telescopio Spaziale Hubble.

AntliaPompa

                                                  Crediti:ESA/Hubble & NASA Ringraziamenti: Nick Rose

Per quanto la distanza possa sembrare considerevole, in realtà sull’ordine delle scale cosmiche, risulta una galassia relativamente vicina. Non è da sola, ma fa parte dell’ammasso di galassie Antlia, un gruppo di più di duecento galassie tenute insieme dalla muta attrazione gravitazionale. Va detto che l’ammasso di galassie in questione è abbastanza peculiare, potremmo quasi dire unico nel suo genere: a differenza della maggior parte degli ammassi, non presenta alcuna galassia con ruolo “dominante” al suo interno. Ricordiamo al proposito che già la nostra Via Lattea fa parte di un gruppo, che si chiama (buffo ricordarlo qui) “Gruppo Locale“, di circa una settantina di galassie, e che all’interno di questo gruppo condivide con Andromeda (M31) il ruolo di galassia dominante.

Nell’immagine qui presentata, è facile rintracciare sia lo snodarsi dei bracci di spirale sia la tipica struttura “barrata”. Questa spirale viene chiamata dagli scienziati galassia di Seyfert-2, ed è caratterizzata da un nucleo centrale molto luminoso e da linee di emissione decisamente marcate, con segni peculiari di alcuni elementi quali idrogeno, elio, azoto e ossigeno. Si ritiene che la luminosità del nucleo centrale della galassia sia causata dall’espulsione violenta di enormi quantità di gas caldo da una regione che circonda un gigantesco buco nero.

C’è da raccontare una curiosità riguardo il nome Antlia. La costellazione dove si trova IC2560 fu infatti così chiamata dall’astronomo francese Abbé Nicolas Louis de Lacaille, in onore dell’invenzione della pompa d’aria avvenuta nel diciassettesimo secolo.

Un’altra storia che val la pena menzionare riguarda specificamente IC2560. Una sua immagine ha infatti preso parte alla competizione indetta da ESA mesi fa, per indurre gli appassionati a scovare i “tesori nascosti” nell’ingente archivio di Hubble. In cosa consiste è presto detto: gli scienziati si sono ben presto accorti che la mole di immagini acquisite da Hubble è veramente immensa. Come tale, solo poche immagini sono state portate agli onori della cronaca, mentre esistono tantissime foto astronomiche sepolte negli archivi, magari meritevoli (con qualche ritoccatina cosmetica, come spesso si usa) di essere viste e godute da un pubblico più vasto.

Entrando così negli archivi, con l’aiuto di apposite istruzioni, si poteva selezionare una immagine, sistemarla ed abbellirla con appositi software online (o addirittura, per i più intrepidi, lavorarla utilizzando software astronomico professionale), e sottoporla per il concorso. L’ennesimo caso in cui gli appassionati non rivestivano più un ruolo subalterno, ma erano messi in condizioni di lavorare sui dati reali. 

Cosa che qualche anno fa – prima di Internet – sarebbe stata semplicemente inconcepibile.

Derivato da un articolo su spacetelescope.org

Loading

Venere e il Sole, nel triplo ultravioletto

Questa ve la voglio far vedere assolutamente, perché a parte le considerazioni astronomiche che possiamo fare, è prima di tutto una immagine di grande fascino. E il territorio tra scienza e bellezza è proprio quello che vogliamo esplorare in questo sito, con sempre maggiore concentrazione. Insomma, guardate l’immagine qui sotto (apparsa su APOD pochi giorni fa). Come spesso accade per le foto dallo spazio, potrebbe benissimo essere un quadro! Cosa rappresenta quello che vediamo? Val la pena di saperlo, perché se lo capiamo… potrebbe soltanto piacerci di più, come ci dice il grande Feyman.

sunvenusuv3_dove_960

Il sole osservato in banda ultravioletta, rivela una serie impressionante di peculiarità e di caratteristiche insospettate… (Crediti: NASA/SDO & the AIA, EVE, and HMI teams; Digital Composition: Peter L. Dove)

Notate intanto il pallino nero in alto un po’ a sinistra? E’ un pianeta. Per la precisione stiamo osservando una eclisse di Sole. Stavolta però non è la nostra luna a passare davanti al nostro astro, come ci potremmo aspettare, ma il pianeta Venere. Dunque potremmo chiamarla una “eclisse di  Venere”, con un intorno illuminato particolarmente ampio (in pratica, la parte del Sole veramente occultata da Venere è minima, come vedete). E’ quella avvenuta l’anno scorso, ed è un evento piuttosto raro. Didatti, le occasioni che abbiamo di vedere Venere “occultare” il nostro Sole appaiono veramente minime: considerato il moto del pianeta rispetto al nostro astro, la prossima occasione si avrà nientemeno che nel 2117, data nella quale è improbabile che molti di noi (ehm…) avranno occasione di vederla…

Su questo siamo d’accordo, abbiamo capito. Ma… e il Sole? Come mai appare in queste peculiare combinazione di forme e colori? Insomma, è davvero il nostro Sole, quello a cui siamo abituati? La risposta è affermativa: sì è il nostro Sole. Ma come ogni cosa dipende un po’ dal modo in cui la si guarda, così anche il Sole presenta particolari diversi a seconda di quale banda di lunghezze d’onda venga usata per investigarlo. Qui in particolare stiamo usando una composizione di colori derivata da tre diverse bande ultraviolette, rilevate dalla sonda Solar Dynamic Observatory. Decisamente un Sole più complesso e variegato rispetto a come siamo abituati a pensarlo… Dunque ogni cosa, ogni persona, non è come ci appare, ha sempre qualcosa che ci sfugge, che viene fuori soltanto se si guarda in un certo modo… Che dire, il Sole non fa eccezione!

Loading

Scarafaggi che volano. Ad alta quota.

Così più ci sbatto il muso, più ripercorro certe canzoni, certi album, più non capisco, rischio di non capire. Più ci studio meno ci capisco. A volte è così, a volte l’analisi minuziosa dei fattori non ti aiuta. Anzi. Ti butta di più ancora nella confusione. Una meravigliosa confusione, in questo caso.
Perché è questo il punto. I Beatles – i celebri scarafaggi che hanno rivoluzionato la musica dagli anni ’60 in poi – li conosciamo tutti, d’accordo. E siamo abituati a catalogare le loro canzoni in un certo modo, in un certo ambito. Siamo furbi, in un certo senso: non ci facciamo sorprendere, non ci caschiamo nella sorpresa. Siamo vaccinati contro gli entusiasmi a buon mercato. Siamo persone consapevoli, dopotutto. Siamo adulti, dopotutto.
Questo è certamente ragionevole, da un certo punto di vista. Eppure qualcosa rimane fuori. Qualcosa non si riesce ad inquadrare, organizzare, catalogare. Qualcosa rimane con un suo carattere irriducibile di meraviglia. Una meraviglia che sembra localizzata, individuata e individuabile. Diciamo pure, catalogabile. Ma che straborda, invece. Senza alcun senso di economia, straborda.
Ho seguito il ciclo di lezioni sui Beatles dei giornalisti Ernesto Assante e Gino Castaldo, all’Auditorium Parco della Musica. Iniziato l’inverso scorso, si è protratto fin quasi all’estate. E’ stata una bella esperienza. La mia considerazione del quartetto di Liverpool è cambiata totalmente. In meglio.
Però volevo dire questo. A tutte le lezioni sono andato con interesse, con curiosità. Ogni lezione era centrata su un album diverso: dall’inizio alla fine della loro esperienza, sono stati analizzati tutti. Eppure c’è stato un momento. Un momento particolare. C’era una lezione, su tutte, che aspettavo. Che non avrei voluto perdere per nessun motivo al mondo.
Esatto. Proprio quella. Abbey Road.
Lo aspettavo praticamente dall’inizio. Tutto aveva senso perché c’era questo retropensiero, saremmo arrivati ad Abbey Road. E quando è finalmente arrivato il momento, ero emozionato. Sì, quel giorno ero emozionato. Ero emozionato mentre mi recavo all’Auditorium, emozionato come un bambino, avevo addosso il senso preziosissimo di vivere un evento. Non era una cosa tra le tante, tra le tante cose che si possono fare. Non era una normale cosa della giornata, che si fa e poi si pensa ad altro. Oppure, peggio, si pensa ad altro mentre la si fa.
Era una cosa diversa, una cosa speciale, una cosa unica. Era ragionare intorno ad un mistero, riunirsi attorno ad un mistero, farlo brillare, lasciarlo espandere, dedicargli tempo, attenzione. Non da solo, tutti insieme. Come potrebbe essere, chessò, una esecuzione della Nona di Beethoven, della Settima di Bruckner (ora ci sarà chi storcerà il naso, ma non sto mettendo le opere in ordine di importanza, che probabilmente non esiste nemmeno, o se esiste è indietro rispetto a ciò di cui parlo). Ecco il punto, il vero punto: ci stai davanti e sono dei misteri.

Abbey Road, London
Abbey Road in tempi più recenti
(Crediti: adam arseneau su Flickr, CC)

Questa cosa è troppo importante, devo cercare di spiegarla, di scriverla. A costo di essere parziale, imperfetto. Inadeguato, perfino. Devo farlo.

Il reale – non in sé ma per come scegliamo di percepirlo – avvolge il mistero e cerca di neutralizzarlo, cerca di riportarci alle cose comuni, tranquillizzanti, consuete. A rischio dell’aridità, magari.  Ci costruiamo un territorio noto, cerchiamo le cose conosciute, allontaniamo la meraviglia, un po’ alla volta, fino a meravigliarci che … non ci meravigliamo più! 

L’operazione comunque non funziona al cento per cento, ha degli strappi. Del resto non puoi stare tranquillo davanti ad Abbey Road. Non te ne dai ragione, semplicemente. L’analisi dei singoli fattori, lo strutturalismo più esasperato, non rende nulla. Smontare i pezzi ti fa soltanto capire che quando li monti insieme c’è di più, molto molto di più dei singoli pezzi. Come in ogni opera d’arte. Come ogni opera d’arte, porta dentro un mistero che sfugge ad ogni analisi, ad ogni riduzione. Porta addosso una irriducibilità esasperata.

Scavare dentro la vita degli artisti, se pur interessante, è alla fine ugualmente frustrante. Non dà ragione, non spiega. Arrivi giù fino a trovare gente comune, con lati belli e lati brutti, arrivi a uomini. Che forse hanno – questo sì – il guizzo geniale di non censurare la propria umanità (diventando perciò stesso creativi).

Roba così. Roba che tu provi in tutti i modi a disinnescare la meraviglia: non è che lo fai con deliberata cattiveria, diciamolo, in fondo ti farebbe comodo, no? Solo questo: ti farebbe comodo che non ti scomodasse. La meraviglia ti scomoda, ti rimette in corsa, non è roba da pantofolai.
Non è questione di biasimarsi. Non è così strano, ammettilo. Hai delle idee sulla vita, sulla morte, sull’arte, sull’uomo. Sull’universo. Ci hai messo anni ad ottenere una posizione su questo, una posizione che magari ti pare stabile. Tutto sommato ti va bene, almeno per ora. E non è che ora un semplice disco pop/rock ti può venire a sovvertire tutto, no? Non è che questo senso di meraviglia e mistero ti faccia correre il rischio di farti sentire ancora provvisorio, non sistemato… ovvero ancora vivo. 

Perché a volte – mi pare – è comodo dire di essere vivi e in realtà non esserlo. Essere tanto ricoperti da strati di consuetudine e buone maniere (condite con una certa moderata ed educata delusione, molto moderna e in quella forma da salotto che perdipiù non infastidisce, ed è abbastanza gestibile, almeno in pubblico). Non è che sei disposto a farti bucare tutti gli strati protettivi messi sù in anni ed anni, da un disco rock di quattro ragazzetti degli anni ’70, dopotutto. 
Dopotutto hai le tue idee, non sei sprovveduto. Sì d’accordo, il genio pazzo, la libertà, ma poi l’irresponsabilità, ma poi le droghe… si sa come sono gli artisti, si sa cosa gira intorno al mondo della canzone. Hai insomma tutto questo bel bagaglio di nozioni e giudizi e pregiudizi, che dovrebbe funzionare abbastanza bene nello schermarti dal rischio di meraviglia e stupore. Così, rischi poco, in fondo. Ti aspetti poco e rischi poco. E ti credi furbo e moderno nel tuo rischiare a scartamento ridotto. E invece, fattelo dire, ti perdi il meglio.

L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale (Luigi Giussani)

L’hai letto e riletto, sei d’accordo, ma spesso fai altro. Spesso dimentichi. 

Poi però – grazie al cielo – in ogni istante, può saltare tutto. Nonostante tutto, salta tutto. Qualcosa fa saltare il banco quando meno te lo aspetti, il tuo gioco a sponda ridotta viene spazzato via. Ti senti vivo come tutto un mondo di finte gentilezze e rifinite cortesie non ti facevano più sentire. Vivo! Non sai come o perché, ma sei a contatto con il cuore. Con la parte grezza emozionale profonda, insieme con la complessità articolata, che delizia il cervello. Tutto insieme, ti fa palpitare.

Che poi diciamo c’è questo, del disco. Ti prende dall’inizio, siamo d’accordo. Ma lo fa con garbo, lentamente. Dopotutto Come Together può essere fin troppo lennoniana, puoi metterci un po’ per entrarci (ora cerco di smettere di dire che è geniale, dovrei usarlo troppe volte). Ma poi entri. Something segue a ruota ed è forse una della cose più belle uscita dall’estro dei quattro di Liverpool.  Vai avanti e finisci il primo lato con I want you. E tu ormai sei cotto. Completamente catturato. L’inizio del secondo lato non ti fa più stare nella pelle. Non ha senso nemmeno speculare sui singoli brani, non ha più senso frammentare, analizzare, ormai. Aspetti giù il medley che occupa tutta la lunga parte finale. E’ un caleidoscopio di stili e di trovate, non hai tempo di respirare che veramente sei come sovrastato. Creatività incredibile e precisione geometrica ineguagliabile. Ogni suono, ogni rumore, è lì dove dovrebbe essere. Ed è sorprendente, sorprendente la libertà gioiosa di questi quattro, sorprendente pensare che correva l’anno 1969 …
No, rinuncio a fare un resoconto puntuale del disco. Nun je la fo. Perdonate, recensioni ne troverete dovunque. A me piace tornare a questo senso di mistero, a questa bellezza che fa pulsare il cuore. Fa quasi piangere di gioia. Sleep pretty darling do not cry…

E così è stato. Ho sbattuto di nuovo la testa davanti ad un mistero. Non so se è così per tutti, forse nemmeno mi interessa. Questo mi pare di sapere, che comunque per tutti c’è qualcosa che frantuma la corazza, spazza via le protezioni, fa sentire improvvisamente vivi. Può essere un attimo, un momento, una sera quasi magica (come quella che ho vissuto io all’Auditorium), ma c’è e può tornare sempre, quando meno ce lo aspettiamo.

Può tornare a ricordarci che abbiamo un cuore, e che ascoltarlo può essere il lavoro della vita. Un lavoro che, comunque, non andrà sprecato.

Loading

Page 2 of 2

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén