Forse è un’attività di tutti, in questi tempi. Intendo, quella di chiedersi io cosa posso fare? Davanti agli sconvolgimenti di questo tempo, davanti ai tristi, angoscianti scenari di guerra, forse è giusto chiederselo.

La domanda ci cresce addosso, quando siamo ormai stanchi di litigare su Facebook o su Twitter, su cosa dovremmo fare per l’Ucraina. Quando non ne possiamo più di attaccare bellicosamente (appunto) chi la pensa diversamente da noi. Dalle comodità del nostro divano, pretendiamo di decidere per chi è sotto le bombe. Abbiamo le nostre opinioni – come sul COVID, del resto – e ci dividiamo in bande, ci definiamo per contrapposizione.

Foto di James Wheeler da Pexels

Che poi siamo tutti pacifisti in epoca di pace, ma siamo onesti: questo pacifismo di superficie (e molto ideologico) nasconde spesso un’agitazione, un’irrequietezza che aspetta sovente solo l’occasione per trovare sbocco.

Scrive il poeta e filosofo Marco Guzzi, proprio oggi, che

sì, lo ripetiamo mille volte, specialmente su facebook, che dobbiamo diventare il cambiamento che desideriamo vedere nel mondo, sì, siamo tutti gandhiani e non violenti, siamo tutti schierati per la pace, ma poi basta una minima provocazione per rimetterci in testa il solito elmetto, per gridare alla solita guerra giusta, e per legittimare il prossimo massacro.

Dunque, un’occasione persa. Forse potremmo andare più un fondo, muovere domande più radicali. Tornare alla vera domanda, non per chi faccio il tifo ma cosa posso fare, appunto. Temo che la pace non si costruisca come artificio dialettico. Non è una grande pensata, la pace. Penso più ad un lavoro quotidiano, ad un qualcosa da costruire con lentezza, pazienza, anche fiducia. A volte, gioia. Un lavoro, diciamo, artigianale.

C’è bisogno di “fare squadra”, di crescere non solo nelle conoscenze, ma anche nel tessere legami per costruire una società più solidale e fraterna. Perché la pace, di cui abbiamo tanto bisogno, si costruisce artigianalmente attraverso la condivisione. Non ci sono macchine per costruire la pace, no: la pace sempre si fa artigianalmente. La pace nella famiglia, la pace nella scuola… E come artigianalmente? Con il mio lavoro, con la mia condivisione.

Questa frase di Papa Francesco mi conforta, mi dà fiducia. Parla della famiglia, della scuola. Realtà concrete, dove spendere fatica, potendo. Niente più guerre da tastiera, ma lavoro sul campo.

Quale campo, poi? Ognuno ha il suo. Ha il suo angolino di universo dove poter intervenire. Dove lei, o lui, può fare la differenza. Può spendersi, con tutti i diecimila limiti del caso (non c’è problema nel riconoscere che vi siano, almeno nel caso di chi scrive), porsi a questo lavoro artigianale. Un lavoro cordiale, da fare in amicizia con altri. Un lavoro per creare, rinforzare comunità.

Oso confidare, venendo allo specifico mio, che il lavoro di chi racconta l’Universo, sia importante. Penso che un Universo che si può raccontare è un universo amico, e un universo amico fa venire più voglia di essere amici tra noi. Sì è semplice, detto così, certo. Ma chi l’ha detto che le cose semplici non siano vere?

Vado con la mente al lavoro di squadra della redazione di Edu INAF, alle cose belle che abbiamo realizzato insieme, al Gruppo Storie, agli amici di Media INAF: a tanto lavoro straordinario, inserito nell’ordinario. Ho ancora negli occhi e nelle orecchie i sorrisi e la quieta saggezza di ragazze e ragazze del Concorso Rodari, su cui voglio scrivere ancora. Ricarico in memoria, ancora, i mille modi in cui per grazia incrocio il desiderio di tenerezza e comprensione ed amore degli esseri umani. Ammiro la loro capacità di stupirsi per un cielo stellato, anche in circostanze tragiche.

Penso a tutto questo e capisco che c’è spazio per costruire la pace. Una costruzione artigianale, che possa partire da un cuore più pacificato, un cuore quasi sorridente, e poi espandersi come un’onda, fino ai più lontani quasar.

Aiutiamoci a ricostruire l’umano. Per il fiorire di un nuovo, bellissimo, sorprendente Universo.

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