Blog di Marco Castellani

Mese: Novembre 2009 Page 2 of 3

I dati di impatto di LCROSS indicano acqua sulla luna

Sembrerebbe di poter dire che l’argomento che vuole la luna secca e desolata, non sia più davvero valido. Secondo il comunicato NASA (piuttosto enfatico, forse a buon diritto…) si direbbe che i segreti che il nostro satellite ha trattenuto dentro di se per miliardi di anni, sono ora stati rivelati, per la gioia degli scienziati e degli appassionati dell’esplorazione spaziale.

In ogni caso, un nuovo capitolo nella comprensione della nostra luna sembra proprio che sia appena stato aperto. Infatti, i dati preliminari del Lunar CRater Observation and Sensing Satellite, o brevemente LCROSS, hanno mostrato come la missione ha -con pieno successo – rinvenuto la presenza di acqua durante l’impatto dello scorso 9 ottobre sulla superficie del satellite, nella regione perennemente in ombra del cratere Cabeus, nei pressi del polo sud lunare.

Come sappiamo, l’impatto dello stadio superiore della sonda LCROSS (Centaur) con la superficie lunare, ha creato uno “sbuffo” di materiale che si può analizzare in due parti separate. La prima parte era costituita da uno sbuffo di vapore e particelle sottili, emesso ad alta angolazione, mentre il secondo, emesso ad un angolo minore, era costituito da frammenti di materiale più pesante. Da notare che tutto questo materiale non vedeva la luce solare da miliardi di anni, essendo dentro il cratere sempre in ombra.

La regione dell’impatto della sonda. La camera di LCROSS mostra il pennacchio di materiale espulso, quando sono trascorsi circa 20 secondi dall’impatto
Crediti: NASA

Dall’istante dell’impatto programmato, il team di LCROSS ha lavorato assiduamente per analizzare l’enorme quantità di dati raccolti dalla sonda. I ricercatori si sono in particolare concentrati sui dati provenienti dagli spettrometri del satellite, che forniscono l’informazione più certa sulla eventuale presenza di acqua. Lo spettrometro esamina infatti la luce emessa o assorbita da diversi materiali, e aiuta ad identificare in questo modo la loro composizione.

La cosa davvero notevole, è che secondo gli scienziati di LCROSS, diverse “linee di evidenza” hanno mostrato che l’acqua era presente, sia nello sbuffo di vapore ad alta angolazione sia in quello di materiali più pesanti. Dicono che la concentrazione e la distribuzione dell’acqua e delle altre sostanze richiede sicuramente analisi ulteriori, ma si può già tranquillamente dire che Cabeus contiene acqua (!).

In particolare, il team ha guardato alle caratteristiche spettrali dell’acqua nella regione del vicino infrarosso e le ha confronatte con gli spettri raccolti da LCROSS riguardo l’impatto. “Siamo stati capaci di sovrapporre gli spettri solo quando abbiamo inserito i dati per l’acqua”, ha detto Anthony Colaprete, a capo del team di scienziati di LCROSS, “Nessun’altra combinazione ragionavole di altri componenti che abbiamo provato, può interpretare le osservazione. Anche l’eventualità di contaminazione dalla sonda Centaur è stata esclusa con sicurezza”.

Conferme aggiuntive vengono anche, del resto, dalla parte ultravioletta dello spettro, che mostra prodotti ottenuti dall’acqua tramite l’interazione con i raggi solari.

L’analisi dei dati è comunque appena cominciata. Dice Colaprete che i dati sono così ricchi, che oltre all’acqua vi sono indicazioni della presenza di altre sostanze di interesse per gli scienziati (definite “intriganti”). La regione in ombra permanente del craterer è servita davvero come una “trappola fredda” per il materiale ivi contenuto, preservandolo lungo un arco temporale di miliardi di anni.

Dopo aver viaggiato per circa 113 giorni percorrendo più o meno nove milioni di chilometri, Centaur e LCROSS si erano separati lungo l’approccio finale alla luna. Veloce come un grosso proiettile, Centaur aveva impattato sulla superficie lunare il 9 ottobre scorso, mentre LCROSS osservava attentamente con i suoi strumenti di bordo. Circa quattro minuti di dati sono stati raccolti e inviati a Terra prima che anche LCROSS impattasse sulla superficie del nostro satellite. Questi quattro minuti di osservazioni ci hanno restituito una valanga di dati, che sono attualmente in elaborazione.

Quali altri segreti ci svelerà la nostra luna? L’analisi sta continuando!

NASA Press Release

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XMM-Newton punta il suo occhio su un buco nero di massa intermedia

di Sabrina Masiero, Dipartimento di Astronomia dell’Università degli Studi di Padova /INAF – Osservatorio Astronomico di Padova

Hubble_NGC5408_X1

 

Questa immagine d’archivio, presa dall’Hubble Space Telescope, mostra la posizione della sorgente X, nella galassia NGC 5408 (indicata da un cerchietto). Questa galassia di tipo irregolare si trova a 15.8 milioni di anni luce dalla Costellazione del Centauro. Credit: NASA/ESA/C. Lang, P. Kaaret, A. Mercer (Università dell’Iowa) e S. Corbel (Università di Parigi).

 

Per decenni gli astronomi si sono concentrati a studiare buchi neri di piccola e grande taglia. Evidenze osservative di buchi neri di massa intermedia sono sempre state più difficili da trovare.
Recentemenete, alcuni astronomi del Goddard Space Flight Center della NASA a Greembelt, Md, hanno osservato una sorgente di raggi X nella galassia NGC 5408, che rappresenta uno dei migliori candidati a ospitare un buco nero di taglia intermedia.

I buchi neri di massa intermedia hanno valori di massa compresa tra le 100 e 10.000 volte quella del Sole. E’ stato possibile osservare buchi neri supermassicci al centro delle galassie (e si stima che ogni galassia ne abbia uno, compresa la nostra) e buchi neri di piccola massa che si formano dal collasso gravitazionale di stelle molto massicce, e che sono stati osservati nella nostra Galassia.

Parecchie galassie vicine contengono oggetti brillanti conosciuti come sorgenti di raggi X ultraluminosi (ultraluminous X-ray sources, ULXs). Essi sembrano emettere molta più energia di qualsiasi altro oggetto di natura stellare, ma inferiore a quella che si misura al centro delle galassie attive, che sono note contenere buchi neri di milioni di masse solari.

Gli ULXs rappresentano dunque dei buoni candidati per buchi neri di taglia intermedia, e quello che si osserva nella galassia NCG 5408, distante circa 15.8 milioni di anni luce dalla costellazione del Centauro, è particolarmente interessante.
Utilizzando l’Osservatorio orbitante XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), Tod Strohmayer e Richard Mushotzky del Goddard Space Flight Center hanno studiato la sorgente conosciuta come NGC 5408 X-1 nel 2006 e nel 2008.

XMM-Newton ha rivelato quello che gli astronomi definiscono un’ “oscillazione quasi periodica”, un “flichering” o lampo quasi regolare dovuto all’accumulo del gas caldo all’interno del disco di accrescimento che si forma attorno all’oggetto massiccio. Il “flichering” è circa 100 volte più lento di quello osservato nei buchi neri di massa stellare. Dalla misura del tempo di oscillazione e dalle altre caratteristiche dell’emissione, Strohmayer e Mushotzky hanno concluso che NGC 5408 X-1 deve contenere tra le 1.000 e le 9.000 masse solari.

Studiato nel radio per molto tempo, questi risultati su NGC 5408 X-1 rivelano che esso è molto più vicino a un buco nero di massa non comune rispetto a quanto si pensava fino a poco tempo fa.
Il lavoro di Strohmayer e Mushotzky sta per essere pubblicato sulla prestigiosa rivista”The Astrophysical Journal”.

Sabrina Masiero

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Esopianeti aiutano a capire la curiosa chimica del sole

Un enorme “censimento” di ben 500 stelle, 70 delle quali sono conosciute per possedere pianeti, è riuscito a stabilire un importante collegamento tra il perdurante “mistero del litio” osservato nel Sole, e la presenza di sistemi planetari. Difatti, utilizzando lo spettrografo HARPS di ESO, un team di astronomi ha  trovato che le stelle di tipo solare che hanno dei pianeti risultano aver distrutto la loro abbondanza iniziale di litio in maniera molto più efficiente rispetto alle stelle senza pianeti.

La scoperta è decisamente importante, poichè non sono fa luce sulla mancanza di litio nella nostra stella, ma fornisce anche agli astronomi un sistema potenzialmente molto efficiente per cercare stelle con associati sistemi planetari: è proprio la chimica della stella stessa, infatti, che ci dice qualcosa sulla presenza o meno di pianeti!

Va detto per contestualizzare questa scoperta, che bassi livelli di questo elemento chimico (rispetto ad altre stelle dello stesso tipo) sono stati notati per decenni nel Sole, ma nessuno era stato in grado finora di spiegare e interpretare l’anomalia. Ora il collegamento alla presenza o meno di pianeti sembra spiegare bene i dati raccolti: la ricerca è stata lunga, molte delle stelle nel campione sono state monitorate per diversi anni usando lo strumento High Accuracy Radial Velocity Planet Searcher (in breve, HARPS) di ESO, probabilmente il “cacciatore di pianeti” più famoso al momento attuale.

Una immagine artistica di una stella “bambina” circondata da un disco protoplanetario, nel quale si stanno formando alcuni pianeti.
Crediti:
ESO/L. Calçada

Particolare attenzione è stata posta dagli astronomi alle stelle di tipo solare, circa un quarto dell’intero campione. I ricercatori hanno infatti scoperto che la maggioranza di stelle che possiede dei pianeti ha un’abbondanza di litio pari a meno dell’1% rispetto a quella delle stelle senza pianeti. Questo vuol dire che tali stelle si sono dimostrate assai più efficienti nel distruggere il litio posseduto al momento della nascita, rispetto alle loro cugine “solitarie”.

Va considerato che a differenza di molti elementi più leggeri del ferro, i nuclei di lito, berillio e boro non sono prodotti in maniera significativa all’interno delle stelle. Al contrario, si ritiene che il litio, composto da appena tre protoni e quattro neutroni, sia stato prodotto per lo più appena dopo il Big Bang, circa 13,7 miliardi di anni fa. Dunque la maggior parte delle stelle possiede la stessa quantità di litio.. a meno che, appunto, non siano efficienti processi di distruzione all’interno delle stelle stesse (come sembra in questo caso).

Ora che una connessione tra la presenza di pianeti ed il basso livello di litio sembra stabilita con buona sicurezza, bisogna comunque comprendere il meccanismo fisico che agisce dietro questa evidenza. I ricercatori indicano che vi sono diversi meccanismi possibili per i quali un pianeta possa “disturbare” il moto interno degli elementi in una stella, dunque influnzando la distribuzione stessa e forse l’abbondanza dei vari elementi chimici al suo interno. Spetta ora ai teorici – ci dicono gli autori della presente ricerca – indicarci quale sia il più probabile in atto.

ESO Press Release

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Il “Re degli Anelli” con un anello in più

Saturno e il suo grande anello

Crediti: NASA/JPL-Caltech.

di Sabrina Masiero, Dipartimento di Astronomia dell’Università degli Studi di Padova /INAF-Osservatorio Astronomico di Padova

Questa immagine artistica vuole dare un’idea della posizione del più grande anello recentemente osservato intorno a Saturno e quasi del tutto invisibile. La scoperta è stata fatta dallo Spitzer Space Telescope della NASA. L’anello appare immenso e molto distante dal pianeta gassoso e dai suoi anelli.
La maggior parte del materiale dell’anello è a circa 6 milioni di chilometri dal pianeta e si estende verso l’esterno per più di 12 milioni di chilometri circa. Per ottenere le dimensioni del diametro di questo nuovo anello, dovremmo avere 300 “Saturni” messi in fila uno accanto all’altro. L’anello è molto spesso, circa 20 volte quello del diametro del pianeta. Infatti, il volume totale dell’anello è sufficientemente grande che potrebbe contenere un miliardo di Terre!

Il nuovo alone osservato intorno al sistema di Saturno è inclinato di circa 27 gradi rispetto al piano principale degli anelli e circonda l’orbita della luna di Saturno, Febe (vedi immagine). Sia l’anello che Febe orbitano in direzione opposta rispetto agli anelli di Saturno e alla maggior parte dei suoi satelliti, compreso il più grande, Titano, e Giapeto (qui rappresentato).

Rivelare la presenza di questo enorme anello intorno al “signore degli anelli”, come spesso viene chiamato in modo simpatico il pianeta Saturno, non è stato affatto facile, in quanto esso è estremamente tenue e costituto da rare particelle di ghiaccio e polvere. Se per un qualche motivo ci venissimo a trovare in quella regione, non ci renderemmo conto di essere all’interno dell’anello, dato che le particelle sono molto distanti le une dalle altre. Inoltre, alla distanza di Saturno, la luce solare è così debole che la bassa densità di particelle che costituiscono l’anello non è sufficiente a farla riflettere e quindi a permettere l’osservazione dell’anello stesso. Spitzer è stato in grado di osservare la luce infrarossa, ossia la radiazione calda emessa dagli oggetti, sebbene il materiale dell’anello sia comunque a temperature alquanto basse.

Questa scoperta offre una possibile soluzione al mistero della luna Giapeto. Dopo alcuni anni che Giovanni Cassini scoprì Giapeto ne 1671, egli fece l’ipotesi, tra l’altro corretta, che un lato della luna era bianca e l’altro scuro. Gli astronomi ritengono che la scoperta di questo nuovo immenso anello, che orbita in direzione opposta a quella di Giapeto, sia la causa dei colori differenti delle due facce del satellite.
Questo è ancora tutto da provare.

L’immagine di Saturno, di Febe e di Giapeto sono state prese dalla sonda spaziale Cassini della Nasa. Le dimensioni di Febe in relazione a quelle di Giapeto sono state aumentate per rappresentarlo meglio: Febe, infatti, è circa 200 chilometri di diametro, mentre Giapeto misura 1.500 chilometri circa. L’anello è, invece, una semplice rappresentazione pittorica.

Per ulteriori informazioni si visiti il sito della NASA alla pagina: http://photojournal.jpl.nasa.gov/catalog/PIA12256 .

Sabrina Masiero

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Un centro galattico come non si era mai visto

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Spettacolare immagine ottenuta dalle osservazioni combinate in luce infrarossa ed X. La radiazione, in parte oscurata dalla polvere, rivela un’intensa attività molto vicino al “core” galattico.
Crediti: NASA, ESA,SSC, CXC, STScI

 

di Sabrina Masiero, Università degli Studi di Padova

Per celebrare (in modo singolare) l’Anno Internazionale dell’Astronomia 2009 (IYA2009), i grandi osservatori della NASA, ossia l’Hubble Space Telescope, lo Spitzer Space Telescope e il Chandra X-ray Observatory, hanno fornito un’immagine spettacolare e unica nel suo genere della regione centrale della nostra Galassia. Le osservazioni, infatti, sono state compiute tenendo conto della radiazione infrarossa e X, che filtra attraverso la polvere che oscura il centro galattico e che rivela un’intensa attività vicina al “core” galattico.
Il centro della nostra Via Lattea è localizzato all’interno della regione brillante di colore chiaro (alla destra dell’immagine).

Il contributo fornito da ognuno dei telescopi è in varie bande (e dunque in vari colori):

– il giallo rappresenta le osservazioni compiute dall’Hubble Space Telescope nel vicino infrarosso. Queste osservazioni delineano le regioni di alta energia dove nuove stelle stanno nascendo e rivelando, allo stesso tempo, centinaia di migliaia di stelle.

– Il rosso rappresenta le osservazioni nell’infrarosso compiute dallo Spitzer Space Telescope. La radiazione e i venti stellari creano un arrossamento delle nubi di polvere che mostrano delle strutture molto complesse simili a gocce sferiche e compatte o a filamenti.

– Il blu e violetto rappresentano le osservazioni in X compiute dal Chandra X-ray Observatory. I raggi X vengono emessi dal gas riscaldato fino a milioni di gradi dalle esplosioni delle stelle e prodotti dalla fuoriuscita di materia dal buco nero supermassicci nel centro della Galassia. La chiazza luminosa di colore blu a sinistra della foto, è l’emissine da un doppio sistema di stelle che contiene probabilmente o una stella a neutroni oppure un buco nero.

Mettendo insieme queste osservazioni in vari colori, il risultato finale è una delle immagini più dettagliate mai avute prima del misterioso core della nostra Galassia.

Per ulteriori informazioni, visitate il sito della NASA: http://www.nasa.gov/topics/universe/features/milkyway_heart.html .

Sabrina Masiero

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Camminare…


Red Carpet
Inserito originariamente da Rhys Jones Photography

Caro mio, bisogna pur che te lo dica. Sì, bisogna che te lo dica di nuovo, caro me stesso, visto che dici di saperlo già, ma sempre te lo dimentichi.

Ecco qui: non pretendere di risolvere subito tutto, non pensare che tutto debba sempre essere chiaro: cammina anche se il percorso è illuminato a sprazzi…

Camminando, tratta con la massima affabilità il magma di passioni e impulsi che ti si muove dentro.. tratta con affabilità le altre persone, e soprattutto te stesso (che poi le cose sono legate a filo doppio…).

Ragiona: prima era necessario risolvere in maniera fredda, analitica. C’era da farsi una strada, guadagnare un posto nel mondo, acquisire, allargare. Ora è invece assai più necessario accogliere, sostare anche nelle zone d’ombra, pazientare, camminare piano, comunque. Non rigettare niente di se stessi, non porre nessuno “steccato” artificioso, ma accogliere le proprie passioni con affabilità e dolcezza. Baciarle, come dice A. Grun.

Niente più fretta, lavoro paziente sul limare i propri difetti, basta un passettino piccolissimo ogni giorno: e questo è assai bello perchè non pone quasi condizioni… si può fare sempre…

Insomma, mai più l’atteggiamento aridamente cartesiano verso il proprio sè: separare “con le pinzette” le emozioni e gli impulsi, uno ad uno, per metterli sotto la fredda luce di un improbabile imparziale esame, per tentare di “risolvere”, “spiegare”, enucleare i fattori uno alla volta… mai più, mai più ! Queste cose sono come i quark: non sono separabili, se non a spese di una smisurata energia … Voglio dire, la dolcezza non è compatibile con la tentazione sottile di questo atteggiamento, i dubbi e i nervosismi aumentano soltanto, ci si rigira nell’aspra irrisoluzione conseguente ad una atteggiamento sbagliato…

Che bella, invece, quella giornata in cui io non ho risolto nemmeno una delle mie incertezze e fatto luce su nessuno dei miei dubbi, ma ho solo imparato ad accogliere queste e quelli con pazienza affabilità e amore verso il tesoro che è la mia vita… in cui allora queste cose non sono più obiezione, ma accolte diventano inaspettatamente “amiche”, in un modo che la realtà stessa si addolcisce appena e più colori filtrano alla mia finestra… davvero che bella giornata..!

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Nuove immagini della formazione stellare nella Girandola

La nuova spettacolare camera istallata a bordo del Telescopio Spaziale Hubble durante la quarta “missione di servizio” è al lavoro da pochissimo tempo, eppure ha già inviato a Terra alcune immagini davvero mozzafiato, a testimonianza delle sue notevoli capacità. Questa volta ci soffermiamo sulla visione più dettagliata mai raggiunta delle regioni di formazione stellare nella galassia a spirale M83, chiamata anche Galassia Girandola del Sud, una delle galassie a spirale a noi più vicine.

La galassia è interessante, oltre che per la sua vicinanza che ci permette di osservarla con un certo dettaglio, anche per il fatto che sta subendo – specialmente nella zona del suo nucleo – una fase di formazione stellare assai intensa, molto più marcata ad esempio che quella delle regioni attive della Via Lattea.

In questo contesto, l’occhio assai acuto della nuova camera Wide Field Camera 3 (WFCP3) è riuscita a catturare centinaia di ammassi stellari giovani, assieme a segni di ammassi globulari più antichi, e a centinaia di migliaia di stelle singole, per lo più supergiganti blu o rosse. Il largo intervallo di lunghezze d’onda rilevabili dalla WFPC3 in questo contesto è utilissimo, perchè permette di rilevare stelle in fasi molto differenti della loro evoluzione, consentendo così agli astronomi di “dissezionare” in dettaglio la storia di formazione stellare della galassia medesima.

Una spettacolare vista della Galassia Girandola, ottenuta dalla nuova camera WFPC3 di Hubble
Crediti:
NASA, ESA, R. O’Connell (University of Virginia), B. Whitmore (Space Telescope Science Institute), M. Dopita (Australian National University), and the Wide Field Camera 3 Science Oversight Committee

Nel dettaglio, le nuove immagini rivelano con una precisione mai raggiunta prima, il rapido tasso di formazione stellare di questa suggestiva galassia. Le stelle “bambine” delle generazioni più recenti si tendono a formare in gran parte in ammassi, che si collocano ai bordi delle striscie più scure formate da gas e polvere, strisce che costituiscono l’ossatura, per così dire, delle braccia a spirale della galassia. Queste giovani ma esuberanti stelle, vecchie appena pochi milioni di anni (pochissimo, per gli standard  temporali dell’universo stellare) stanno spingendo lontano gli strati polverosi ove sono immerse, producendo grandi bolle rosso brillante di idrogeno gassoso. Proprio le regioni così “scavate” concorrono a dare alla galassia quell’impressione unica di una sorta di “formaggio svizzero” assai colorato.

Nell’immagine si possono scorgere anche i residui di supernova di ben 60 stelle, ovvero ben cinque volte più di quelle che si potevano vedere con i dati precedenti all’avvento della camera WFPC3. La camera è stata in grado di identificare con precisione tali resti di supernova, attraverso lo studio dei quali, gli astronomi possono comprendere importanti dettagli sulla natura delle stelle progenitrici, responsabili della creazione e della successiva dispersione di gran parte degli elementi più pesanti prodotti dalla combustione stellare.

Nel complesso, un’altra eccellente conferma delle ottime potenzialità della WFPC3, verrebbe quasi voglia di regalare una stella data la dedizione di queste persone, oltrechè una ennesima testimonianza della perizia esercitata dal personale della “Servicing Mission 4“, al quale in fondo dobbiamo un “grazie” sentito per tutte queste splendide nuove immagini!

NASA Press Release

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Un romanzo… in un mese?

Mi sembrava una pazzia, anzi un pò mi sembra ancora adesso. Però ho deciso di provare: l’ idea del National Novel Writing Month indubitabilmente mi attirava. Per un mese intero, provare a scrivere un “romanzo breve” o “novella” (50.000 parole, da raggiungere entro la fine di novembre). L’idea di questa pazza attività di scrittura è anche quella di ridurre al silenzio il cosiddetto editor interno almeno una volta ogni tanto, scrivendo per il gusto di scrivere senza preoccuparsi troppo della qualità (anzi idealmente, per nulla) ma puntando sfacciatamente sulla quantità.

Il fatto di avere una deadline in effetti aiuta a far si che – una volta tanto – uno si metta a scrivere veramente, invece che a ragionare sull’idea o sull’utilità o sulla sua propensione a farlo. E il dover buttar giù le 50.000 parole, ci si riesca o non ci si riesca, fa sì che uno si lasci andare anche al rischio di scrivere una cosa mediocre o proprio imbarazzante. In ogni caso si sarà imparato qualcosa. E il fatto di lasciare le correzioni per dicembre, e dedicare novembre solo a buttar giù testo, aiuta a comprendere come effettivamente non si può pretendere quasi mai di scrivere da subito una versione ottimale di qualcosa, ma bisogna rischiare di buttar giù il testo e poi passare attraverso le necessarie e inevitabili revisioni.

Dall’altro lato, la dimensione “sociale” che ha assunto tale competizione, con forum, microblogs (provate solo a cercare per “nanowrimo”, su Twitter…!) e altre iniziative meno virtuali, come gli appuntamenti per scrivere, nelle varie città, fornisce un valore aggiunto e soprattutto un incitamento quando, dopo i primi giorni di entusiasmo, sopravviene comunque il senso critico e uno magari inizia a dubitare…

Non so se riuscirò a “vincere” il mio primo NaNoWriMo, se alla fine del mese sarò arrivato al fatidico traguardo, ma già sono contento che in questi primi nove giorni abbia scritto le prime 13.410 parole del mio racconto “Il ritorno”. Comunque vada, è già un bel risultato per me.

Ok, ora dovrei tornare a pensare a qualche sviluppo per la mia trama. Vediamo….

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