Blog di Marco Castellani

Mese: Marzo 2010 Page 2 of 4

Ultime su El Niño

di Sabrina Masiero, Dipartimento di Astronomia dell’Università degli Studi di Padova, Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)-Osservatorio Astronomico di Padova

I recenti dati sull’altezza del mare ottenuti dall’European Ocean Surface Topography Mission / Jason-2, il satellite oceanografico della NASA, mostrano un indebolimento degli alisei. Crediti: NASA/JPL Ocean Surface Topography Team.

 Si può giustamente dire che El Niño tra il 2009 e il 2010 ci sta facendo trattenere il respiro. I recenti dati sull’altezza del livello del mare ottenuti dal European Ocean Surface Topography Mission/Jason-2, satellite oceanografico della NASA, mostrano che, su grande scala, un sostanziale indebolimento degli alisei nella parte occidentale e centrale del Pacifico equatoriale a partire dalla fine di gennaio e per tutto il mese di febbraio hanno provocato un altra forte ondata di acqua calda in direzione est, nota come l’onda di Kelvin. Ora nella regione centrale e occidentale del Pacifico equatoriale l’onda calda appare come un’area vasta con un’altezza della superficie del mare maggiore rispetto al normale compresa tra i 150 gradi e i 100 gradi di longitudine ovest e con una temperatura più alta di quelle standard che si registrano sulla superficie del mare.
Con una serie di eventi simili ma più deboli iniziati nel giugno 2009 ha preso avvio (e si è mantenuta nel tempo) la condizione presente di El Niño.

L’oceonografo del JPL Bill Patzert afferma che “dal giugno 2009 El Niño è aumentato e diminuito, con un impatto su molti eventi meteorologici globali. Ci aspettiamo che El Niño abbandoni la scena abbastanza presto. Quello che succederà non è ancora chiaro, ma un ritorno della sorellina “secca” La Niña è sicuramente una delle possibilità, anche se non ne abbiamo la certezza. Faremo un monitoraggio della situazione nelle prossime settimane e nei prossimi mesi“.
El Niño è pure la causa dei cambiamenti inusuali nella circolazione atmosferica e nella convezione sul tutto il globo. Il Microwave Limb Sounder del JPL, strumento della sonda Aura della NASA, ha rilevato un grande spostamento della convezione in direzione est dall’attuale El Niño, che comporta una grande quantità di nubi fredde nella parte alta della troposfera.

Fonte sito Jet Propulsion Laboratory:  http://www.jpl.nasa.gov/news/news.cfm?release=2010-091 .

Sabrina

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Godersi l’universo di Hubble in 3D…

L’immagine che riproduciamo qui sotto rappresenta un vasto canyon di polvere e gas: siamo nella Nebulosa di Orione, o meglio in un suo modello tridimensionale costruito basandosi su osservazioni del Telescopio Spaziale Hubble, e creato da da esperti di “visualizzazione scientifica” del Space Telescope Science Institute (STScI) in Baltimora (USA). Nella fattispecie, è stato realizzato un filmato che conduce gli osservatori uno stupendo viaggio di quattro minuti attraverso il canyon, largo la bellezza di quindici anni luce (ovvero, un pò di più dei canyon a cui siamo abituati…).

Il viaggio non è – decisamente – dei più consueti: si consideri infatti che porta i visitatori attraverso l’eccitante scoperta dell’interno della Nebulosa di Orione, ovvero una “fabbrica di stelle” sorprendentemente efficiente, che si trova a circa 1500 anni luce da noi. E non è un “gioco spaziale” di ultima generazione, ma una realizzazione astronomica e grafica di tutto rispetto: l’odissea spaziale cinematica è parte del nuovo film Imax “Hubble 3D” (del quale ha già parlato la nostra Sabrina in un post recente)  da pochissimo in distribuzione nei cinema con tecnologia Imax sparsi per il mondo (per ora non sembra si abbiano date certe per l’arrivo in Italia; comunque appena ne veniamo a conoscenza ne daremo conto in questo sito!).

Attraverso la Nebulosa di Orione, in uno spettacolare  viaggio a  tre dimensioni…

Crediti: NASA, G. Bacon, L. Frattare, Z. Levay, and F. Summers (STScI/AURA)

Il film attraverserà in circa tre quarti d’ora i 20 anni di vita e la splendida carriera di Hubble, includendo naturalmente i dettagli della recente missione di “ringiovanimento” del telescopio, avvenuta a maggio dello scorso anno e coronata da uno splendido successo (che contempla tra i suoi punti forti il montaggio della nuova Wide Field Camera 3, già “responsabile” di meravigliose immagini di oggetti celesti).

Bene, l’argomento è decisamente “appetitoso”: le scoperte di Hubble nel suo ventennio di attività – riportate in vari articoli su web, anche in questo sito – sono tali e tante che decisamente il loro contributo all’astronomia non corre il rischio di essere sovrastimato! Che altro aggiungere, se non un “ci vediamo al cinema?” 😉

NASA Press Release

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Primavera…


Little Falling Spring Mill
Inserito originariamente da Uncle Phooey

Proprio stamattina mi è venuta in mente una “vecchia” poesia, pensando al fatto che è il primo giorno di primavera. Una poesia scritta qualche anno fa (dovrebbe essere dell’aprile dell’anno 1997, nientedimeno!), semplice e lineare se volete, ma che insieme a pochissime altre – non so veramente dire nemmeno perché – mantiene nel mio cuore un posto del tutto speciale, e penso che continuerà a farlo.

Ve la (ri)propongo qui sotto. Il titolo è proprio “Primavera”.. l’intento è di augurare di cuore un buon inizio primavera. E’ il tempo di lasciar filtrare un pò di speranza nel cuore, sciogliere un pò di ghiaccio. La primavera non è la certezza, ancora. Ma è la dolce possibilità, l’eventualità buona che si intravede all’orizzonte… è questo il suo fascino, per me.
Come scrive una mia cara amica proprio questa mattina(e non potrei dire meglio, personalmente!) “Che tutte le gemme dei vostri desideri possano diventare bellissimi e profumatissimi fiori!”

Primavera nelle cose
nuovamente deste,
aperte verso l’abisso sorridente
del nuovo mattino,
ebbro di rugiada.


Anche nei campi esplosi di fiori
di colori orgogliosi
sfavillanti nel caldo sole.


Nei nuovi fiori, anche primavera,
nei nuovi fiori sui volti delle donne,
nei loro nuovi colori.
Nelle promesse credute o solo sperate
nei loro volti,
nella loro (richiesta) tenerezza.


Anche nell’attesa,
che e’ speranza,
del bene per se’.


(Roma, Aprile 2007)

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Acqua ghiacciata negli anelli di Saturno

Campeggiano in tutta la loro bellezza sulla copertina del numero di Science di questa settimana. Sono gli anelli di Saturno, ripresi e studiati in grande dettaglio dagli strumenti della missione Cassini, che da 6 anni inviano a Terra i loro dati. Grazie ad essi, il Cassini Rings Working Group, guidato da Jeff Cuzzi (NASA-AMES), ha tracciato un quadro esaustivo della struttura, composizione, evoluzione e dinamica degli anelli di Saturno.

Risultato: le particelle degli anelli principali denominati con le lettere “A” e “B” sono costituite per il 90-95% di ghiaccio d’acqua, mentre quelle dell’anello “C” risultano essere contaminate, probabilmente da carbonio e silicati di origine meteoritica.

Importante in questo senso si è rivelato il contributo italiano proveniente dall’analisi delle osservazioni dello spettrometro VIMS (Visual and Infrared Mapping Spectrometer) a bordo della sonda  Cassini, di cui l’ASI ha fornito il canale VIS mentre l’Istituto Nazionale di Astrofisica partecipa all’utilizzo scientifico dei dati prodotti.

Uno dei principali misteri degli anelli di Saturno è la loro caratteristica spettrale: le analisi effettuate nella banda di radiazione infrarossa danno forti indicazioni che siano composti di ghiaccio d’acqua puro. Un risultato inatteso, che non rivela tracce della presenza di altri componenti in essi, come ad esempio anidride carbonica, ammoniaca o metano, che pure sono stati osservati in piccole percentuali sulle lune ghiacciate di Saturno. A infittire il mistero ci sono poi le analisi condotte nella luce visibile. Gli anelli in questa banda di radiazione appaiono decisamente “arrossati”, e quindi sensibilmente diversi dal caratteristico colore blu-bianco tipico del ghiaccio d’acqua.

Dall’analisi condotta da Gianrico Filacchione (INAF-IASF Roma e coautore della pubblicazione) sui dati di VIMS, risulta che il grado di “arrossamento” degli spettri nel visibile degli anelli di Saturno sia strettamente legato con l’intensità delle bande del ghiaccio d’acqua osservate nell’infrarosso. Poiché entrambi questi parametri aumentano con lo stesso andamento nelle regioni degli anelli più dense (anelli A e B) si può dedurre che la natura del materiale che assorbe la radiazione ultravioletta, e dunque il “responsabile” dell’arrossamento osservato, sia strettamente legata al ghiaccio d’acqua delle particelle. Un simile effetto si può ottenere mediante limitate quantità di atomi di carbonio (catene PAH) o nanofasi di ossido di ferro (Fe3+).

“Questi importanti risultati indicano che anche gli anelli di Saturno possono contenere particelle di elementi contaminanti, spiegando così in modo naturale un effetto altrimenti misterioso”, commenta Angioletta Coradini, direttrice dell’INAF-IFSI di Roma e membro del team scientifico di VIMS. “Risultati come quelli descritti nell’articolo di Science sono stati possibili grazie alle notevoli performances dello strumento VIMS ed alla dedizione di giovani brillanti come Gianrico Filacchione, recentemente assunto come ricercatore dall’INAF”.

Con un diametro di circa 280.000 km ed uno spessore di circa 100 metri, il sistema degli anelli principali di Saturno è sicuramente l’oggetto piatto e sottile più esteso (oltre 44 miliardi di km quadrati) all’interno del Sistema solare. Fin dalla loro scoperta, avvenuta 400 anni fa, nel 1610 da parte di Galileo Galilei con il suo cannocchiale, gli anelli di Saturno hanno rivestito un ruolo fondamentale nello studio delle proprietà dinamiche, evolutive e della composizione chimica del Sistema solare esterno.

Gli anelli di Saturno ripresi dalla Sonda Cassini in copertina sul numero del 19 marzo 2010 di Science
(Crediti: NASA/JPL/Space Science Institute)


“VIMS, così come gli altri strumenti realizzati dall’ASI in collaborazione con la NASA/JPL per la missione Cassini, continua a lavorare perfettamente. Questo dimostra sia la qualità costruttiva degli strumenti che il livello di innovazione dei loro progetti. Infatti ad oltre 15 anni dalla loro realizzazione sono sempre in grado di fornire dati di eccezionale valore scientifico contribuendo ad incrementare ancora il numero di scoperte e la conoscenza del Sistema di Saturno”, dice Enrico Flamini, responsabile per ASI della Missione Cassini.

La sonda Cassini, frutto di una cooperazione internazionale NASA-ASI-ESA, continuerà a compiere osservazioni dettagliate degli anelli di Saturno fino alla conclusione della missione, prolungata recentemente di due anni, prevista nel 2017.

Articolo originale publicato su INAF Media

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Due buchi neri supermassicci al limite dell’universo visibile

di Sabrina Masiero, Dipartimento di Astronomia dell’Università degli Studi di Padova,  Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)-Osservatorio Astronomico di Padova

Questa rappresentazione artistica mostra uno dei più primitivi buchi neri supermassicci conosciuti (il puntino scuro centrale) nel core di una galassia appena formatasi e ricca di stelle. Crediti: NASA/JPL-Caltech.

Gli astronomi si sono imbattuti in quelli che sembrano i più primitivi e giovani buchi neri supermassicci mai conosciuti. La scoperta, avvenuta sulla base di lunghe osservazioni compiute dallo Spitzer Space Telescope della NASA, permetterà di approfondire meglio la conoscenza del nostro Universo e di capire meglio come si siano formati non solo i buchi neri, ma anche le galassie stesse che li ospitano oltre alle stelle che compongono le galassie.

Abbiamo trovato quella che possiamo definire la prima generazione di quasar, nati in un mezzo vuoto di polvere e ai loro primi stadi evolutivi” ha affermato Linhua Jiang dell’Università dell’Arizona, Tucson. Jiang è primo autore dell’articolo apparso ieri, 18 marzo, su Nature.
Come tutti gli oggetti massicci, anche i buchi neri producono distorsioni dello spazio-tempo. Quelli più massicci e attivi nel core delle galassie sono spesso circondati da strutture a forma toroidale (simili a delle ciambelle, per dare una visione più simpatica) di gas e polvere che sostengono e alimentano il crescente buco nero centrale. Questi buchi neri supermassicci sono chiamati “quasar”.

Da tempo si portava avanti l’idea che il primitivo Universo non dovesse avere polvere e, di conseguenza, anche i primissimi quasar dovessero essere privi di polvere. Finora non era stato possibile osservare quasar “immacolati”, ossia privi di polvere. Lo Spitzer Space Telescope ne ha individuati due a una distanza di circa 13 miliardi di anni luce di distanza dalla Terra. I quasar, denominati con le sigle J0005-0006 e J0303-0019, sono stati rivelati nella luce visibile utilizzando i dati della Sloan Digital Sky Survey. Il team che ha compiuto la scoperta, che comprende la ricercatrice Jiang, è stato guidato da Xiaohui Fan, co-autore del recente articolo all’Università dell’Arizona. Il Chandra X-ray Observatory della NASA ha rilevato emissione di raggi X da uno dei due oggetti e un fascio di luce nell’ultravioletto e nell’ottico da entrambi i quasar prodotto dal gas che li circonda, soggetto all’attrazione gravitazionale.
I quasar emettono un’enorme quantità di energia, rendendoli letteralmente osservabili al limite dell’universo visibile” ha affermato Fan.

Quando Jiang e colleghi iniziarono a compiere le loro osservazioni di J0005-0006 e J0303-0019 con lo Spitzer Space Telescope tra il 2006 e il 2009, le due galassie rientravano all’interno del campione di quasar da analizzare e non avevano nulla di atipico. Lo Spitzer misurò la luce infrarossa proveniente dai due oggetti insieme a quella di altre 19 galassie, tutte appartenenti ad una classe di quasar tra i più distanti mai conosciuti. Ciascun quasar possedeva un buco nero supermassiccio nel suo centro con masse di circa 100 milioni di masse solari.
Dei 21 quasar, i dati di Spitzer mostravano che J0005-0006 e J0303-0019 erano prive della firma caratteristica della presenza della polvere calda. La vista infrarossa di Spitzer ha trasformato il telescopio spaziale in uno strumento ideale per rilevare il bagliore caldo della polvere che era stata riscaldata man mano che si alimentavano i buchi neri.

Riteniamo che i primissimi buchi neri si siano formati al tempo in cui la polvere si stava formando nell’Universo, meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang” ha affermato Fan. “Il primitivo Universo non conteneva alcuna molecola che avrebbe potuto formare la polvere. Gli elementi necessari per questo processo sono stati prodotti e riversarti nell’Universo più tardi, dalle stelle“.

Infine, i ricercatori hanno notato che la quantità di polvere calda in un quasar cresce con la massa del suo buco nero. Man mano che un buco nero aumenta, la polvere ha tempo sufficiente per formarsi intorno ad esso. I buchi neri nel core di J0005-0006 e J0303-0019 hanno valori di massa più piccoli misurati finora nel primitivo universo, indicando che sono particolarmente giovani e ad uno stadio tale che la polvere non si è ancora formata intorno ad essi.

Fonte Jet Propulsion Laboratory: http://www.jpl.nasa.gov/news/news.cfm?release=2010-088 .

Sabrina

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Dall’interno di Titano

di Sabrina Masiero, Dipartimento di Astronomia dell’Università degli Studi di Padova-Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)-Osservatorio Astronomico di Padova


Rappresentazione artistica che mostra la probabile struttura interna del satellite maggiore di Saturno, Titano, ricavata dal campo di gravità misurato dalla sonda spaziale americana Cassini. Crediti: NASA/JPL.

E’ stata possibile la determinazione della distribuzione di materia all’interno della luna di Saturno, Titano, dalle deboli variazioni gravitazionali esercitate da quest’ultimo sulla sonda Cassini della NASA. La notizia pubblicata il 12 marzo sulla rivista Science mostra come Titano sia evoluto in modo differente dai pianeti interni quali Mercurio, Venere e Terra, o dalle lune ghiacciate di Giove, come Ganimede, dove l’interno è formato da più strati diversificati, dove vi è una diversificazione fra elementi pesanti (rocce) ed elementi leggeri (ghiacci).

Questi risultati sono fondamentali per capire la storia delle lune del Sistema Solare esterno” afferma Bob Pappalardo che segue il Progetto Cassini e che fa parte del Jet Propulsion Laboratory (JPL) della Nasa. “Ora è possibile capire meglio Titano fra tutti i satelliti ghiacciati del nostro Sistema Solare“.
I risultati mostrano che la luna più grande di Saturno è per metà circa composta di ghiaccio e per metà di roccia, ma erano necessari i dati gravitazionali per rilevare come la materia era effettivamente distribuita. Inoltre, pare che su Titano vi sia una mescolanza fra ghiacci (di metano, in particolare) e roccia; solamente negli strati più esterni che hanno uno spessore di circa 500 chilometri, si può osservare una prevalenza di ghiacci.

Perchè non vi sia la separazione tra ghiacci e roccia, è necessario che il ghiaccio non si riscaldi troppo” afferma David J. Stevenson, one dei co-autore dell’articolo e professore di scienze planetarie al California Institute of Technology a Pasadena. “Questo comporta che Titano si è formato, a differenza degli altri satelliti, lentamente in circa un milione di anni o poco più, molto dopo la formazione del nostro Sistema Solare e quindi in ritardo rispetto alla media degli altri satelliti”. Viceversa, il rapido aggregarsi di materiale avrebbe innalzato le temperature e quindi separato rocce e ghiacci.

Questa separazione incompleta di ghiaccio e roccia rende Titano meno simile ad un’altra luna di Giove, Ganimede, dove il ghiaccio e la roccia si sono completamente separati, ma forse molto vicino ad un altro satellite gioviano, Callisto, dove si suppone vi sia una mescolanza di ghiaccio e roccia al suo interno. Sebbene queste lune abbiano quasi le stesse dimensioni, le loro storie evolutive sono molto diverse.

Al momento, non si può escludere che ci possa essere un oceano di metano liquido ad una certa profondità all’interno del satellite. Qui, infatti, la pressione sviluppata dagli strati superiori su quelli sottostanti permetterebbe un aumento delle temperature e quindi la possibilità di formazione di un oceano di metano liquido, che verrebbe ad inserirsi nel discorso più generale di “ciclo idrologico” recentemente scoperto su Titano. Bisognerà aspettare altre misurazioni, in particolare quelle relative agli effetti mareali prodotti da Saturno su Titano, che il gruppo di scienziati che seguono Cassini è già in attesa di eseguire.

Fonte JPL: http://www.jpl.nasa.gov/news/news.cfm?release=2010-084
“News” (rivista online L’Astrofilo) di Michele Ferrara: http://www.astropublishing.com .

Sabrina

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Obiettivo sull’infanzia dell’Universo

Hubble si prepara a riprendere l’Universo come era solo poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, per ottenere così una immagine complessiva delle galassie primordiali con un dettaglio mai raggiunto prima. Per mettere in pratica l’ambizioso programma i sofisticati sensori del telescopio spaziale, recentemente aggiornati dagli astronauti dello Shuttle, verranno utilizzati in maniera intensiva nell’arco dei prossimi tre anni: ben tre mesi e mezzo di riprese complessive delle galassie più distanti. Mai prima d’ora era stato assegnato tanto tempo osservativo per un singolo progetto scientifico di Hubble.

Nel team internazionale di ricercatori partecipano anche gli astronomi dell’INAF Adriano Fontana e Andrea Grazian, dell’Osservatorio Astronomico di Roma, e Alvio Renzini dell’Osservatorio Astronomico di Padova. “Sarà come osservare il ‘giardino d’infanzia’ delle galassie” commenta con soddisfazione Adriano Fontana. “L’Universo oggi ha 13,7 miliardi di anni: noi osserveremo le galassie che lo popolavano da quando aveva solo 500 milioni di anni fino a quando ne aveva circa 5 miliardi. Le prime galassie erano estremamente diverse da quelle di oggi: erano ‘blob’ informi, centinaia di volte più piccoli delle galassie odierne, ben diverse dalle eleganti galassie a spirale o ellittiche che vediamo intorno alla Via Lattea, ma erano attivissime nel formare stelle. Prevediamo di osservare oltre 250.000 galassie, e di ricostruire così la storia dell’Universo nei suoi primi 5 miliardi di anni. Lo scopo finale è quello di comprendere meglio i fenomeni fisici che hanno plasmato l’evoluzione delle galassie fino a far loro assumere la forma che osserviamo oggi”.

Galassie distanti fino a 12 miliardi di anni luce da noi riprese dal telescopio spaziale Hubble.

Credit: NASA, ESA

“L’altro obiettivo principale di queste osservazioni è identificare le Supernovae che esplodono in queste galassie remote” ribadisce Alvio Renzini. “Le Supernovae sono prodotte da stelle che esplodono alla fine del loro ciclo evolutivo, e sono utilizzate come ‘candele standard’, cioè come indicatori della distanza delle galassie in cui risiedono. Proprio studiando le Supernovae gli astronomi hanno trovato i primi indizi dell’esistenza dell’Energia Oscura, che pervade l’Universo e ne provoca l’espansione accelerata che osserviamo oggi. Identificando per la prima volta Supernovae così lontane potremo raffinare queste misure e capire se le stelle che esplodono nell’Universo primordiale, e quindi molto distanti da noi, sono simili a quelle dell’Universo vicino, giustificando il loro uso come candele standard”.

“Il nostro ruolo sarà quello di collaborare all’analisi dell’enorme quantità di dati che questo progetto produrrà” conclude Andrea Grazian “e, soprattutto, quello di coordinare ed eseguire le osservazioni complementari con i grandi telescopi da Terra, come il Very Large Telescope in Cile o il Large Binocular Telescope in Arizona. Per avere la migliore visione possibile dell’Universo primordiale, oltre le fondamentali riprese di Hubble, è infatti necessario collezionare e integrare i dati raccolti da tutti i principali osservatori del mondo”.


Articolo originale:
INAF media (con una Intervista audio ad Adriano Fontana: “Che ne sarà dei dati di Hubble man mano che verranno raccolti?”)

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Nuove particelle dal centro della Terra

di Sabrina Masiero, Dipartimento di Astronomia dell’Università degli Studi di Padova-Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)-Osservatorio Astronomico di Padova

 
Uno schema semplificato dell’interno della Terra.

Per la prima volta nella storia della scienza particelle provenienti dall’interno della Terra sono state rilevate dai laboratori sotterranei del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN). Una scoperta compiuta dai ricercatori di Borexino provenienti da vari istituti italiani, americani, tedeschi, russi e polacchi e coordinati dal Professor Giampaolo Bellini dell’INFN di Milano. In particolare, sono stati osservati i “geoneutrini”, le più piccole ed elusive particelle di antimateria provenienti dall’interno del nostro pianeta, una sorta di antineutrini di origine terrestre.
Queste particelle sono il risultato del decadimento degli elementi radioattivi che si trovano a migliaia di chilometri sotto la crosta terrestre. Il decadimento produce enormi quantità di calore che fa poi spostare i continenti, scioglie le rocce e le trasforma in magma e lavi per i vulcani.

L’esistenza dei geoneutrini e della radioattività che ne consegue permettono di spiegare le enormi energie che provengono dalle parti centrali della Terra, una delle principali fonti di energia del pianeta, anche se non l’unica. Anzi, con questa scoperta, viene smentita la teoria secondo la quale al centro del nostro pianeta vi sarebbe un enorme reattore nucleare che da solo lo riscalda tutto.

Già in passato, ricercatori giapponesi erano sulla strada giusta per la rilevazione dei geoneutrini, ma i loro rivelatori non erano stati in grado di segnalarli per via della presenza di centrali nucleari troppo vicine alla zona dell’esperimento che con i loro antineutrini andavano continuamente a disturbarne la rilevazione. I laboratori del Gran Sasso dell’INFN, lontani almeno 500 chilometri dalla più vicina centrale nucleare, hanno rilevato un segnale non contaminato della radioattività naturale del nostro pianeta, grazie soprattutto alla radiopurezza di Borexino, unica al mondo. Con questo esperimento, si potrà avere un’idea della quantità dell’Uranio, elemento radioattivo, presente sulla Terra e cercare di identificare preziosi giacimenti di combustibili nucleari.

Per il Professor Giampaolo Bellini “questa scoperta apre una nuova era nello studio dei meccanismi che governano l’interno della Terra. Uno studio esteso dei geoneutrini in vari punti della Terra darà la possibilità di avere informazioni più precise sul calore prodotto nel mantello terrestre, e quindi sui moti convettivi che sono alla base dei fenomeni vulcanici e dei movimenti tettonici“.

E’ un grande regalo per i ricercatori di Borexino che da anni si applicano sullo studio dei geoneutrini. Lucia Votano, Direttore dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso afferma che “l’esperimento stava già dando importanti informazioni sul funzionamento interno del Sole e adesso ha prodotto la prima misura mondiale dei geoneutrini provenienti dalle profondità del nostro pianeta. Ancora una volta i Laboratori del Gran Sasso dimostrano di essere un centro di ricerca di eccellenza nel campo della fisica astro particellare“.

Con i geoneutrini possiamo guardare direttamente all’interno della Terra fino a migliaia di chilometri di profondità. Ancora una volta, il nostro pianeta è un enorme laboratorio ricco di sorprese.

Fonte: Istituto Nazionale di Astrofisica, Comunicazione – Comunicati stampa 02-03-2010- Primo sguardo al centro della Terra dalle viscere del Gran Sasso: http://www.infn.it/indexit.php .

Sabrina

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