Blog di Marco Castellani

Categoria: poesia Page 3 of 4

Ripartire dalle emozioni

Sogno un mondo dove
arte e scienza
non sono nemiche o
indifferenti
un mondo dove la poesia
è compagna della fisica
e dell’astronomia
e la biologia e l’arte
vanno a braccetto
e ogni cultura ogni
curiosità e voglia
di sapere 
e di sapersi
è di nuovo unica
di nuovo unita
e pacificata
e l’uomo
è al centro –
le sue emozioni
sono al centro
sono il fulcro
il punto focale
la base e sempre
il ritorno.
Sogno di dedicare
la vita a questo
di vivere
da ora in poi
di vivere
per questo.



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L’opzione della poesia

Sono sempre meravigliato quando cose di tempi ed ambienti diversi si incontrano così bene. Come nuove cose e nuove possibilità rendono presente una cosa antica. Una cosa non fatta per questo ma che trova inaspettato segmento espressivo in questa nuova possibilità.

Lo so, non ci avete capito niente. E avete ragione. Mi spiego con degli esempi. Tipo, ecco: l’algebra di Boole. Squisitamente teorica fino a quando non ci si è accorti che andava benissimo per i calcolatori. Anzi, era necessaria per i calcolatori. O tipo la poesia. Certa poesia. Come le poesie di Saffo. Frammenti brevi, istantanei. Antichissimi. Ma anche molto, molto moderni. Non so se vi capita di leggere Saffo e sentirla più moderna – poniamo – di un sonetto del Guinizzelli. Prendete Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo.

Intendiamoci, è molto bella. Ma ecco, facciamo un rapido (e certo non esaustivo) esperimento: accostiamo appena un verso del Guinizzelli

Per li occhi passa come fa lo trono,
che fer’ per la finestra de la torre
e ciò che dentro trova spezza e fende

dove parla della “potenza” dello sguardo dell’amata, con un frammento di Saffo, sempre dedicato allo sguardo

Rapita
nello specchio dei tuoi occhi
respiro 
il tuo respiro.
E vivo ……

Non sempre assai più moderna la seconda? Asciutta e diretta – e anche meno attenta nello stemperare l’effetto nella intelaiatura formale. Ovvero, libera dalle forme, con un contenuto che ti arriva addosso subito, e capisci a botto quello che vuol dire. Antica e modernissima, in un certo senso.

Più moderna di Guinizzelli, oserei dire.

O di un Foscolo, un Carducci. Per capirci.

Insomma, è moderna perché – come ci è arrivata a noi – è frammentata, diretta, decisa. Breve. Non è formale. Ed è moderna perché si sposa benissimo con il modo moderno di (uso una brutta parola) consumare l’informazione. In altre parole, è moderna (anche) perché si trova perfettamente a suo agio su di un libro come su di uno schermo dell’iPhone.

Come gli haiku, per dirne un’altra. 

L’ho scoperto soltanto da poco, da quando ho iniziato a leggere (e scrivere) su Wattpad. Che detto tra noi, mi sembra sempre più un modo efficace e moderno di scrivere per dispositivi mobili (certo anche per computer, ma è sui tablet o sugli smartphone che rende al meglio). 

Sì, è così: l’ho capito bene soltanto oggi. Leggendo una raccolta di Haiku su Wattpad, tramite l’iPhone, appunto. Portandomela appresso e approfittando dei tempi morti per tornare a leggerla.

Ora, apriamo una piccola parentesi. Non so voi, io pur nelle giornate più convulse, incontro sempre dei tempi morti. Ovvero, dei momenti in cui sei un un posto A aspettando l’evento B (un incontro, l’apertura di un negozio, l’orario di una visita). Certo, puoi consultare Facebook. Spedire foto di appetitose pietanze su Instagram. Ma dopo un po’ rimane un senso di stanchezza, di tedio, perché rimani sempre su uno strato orizzontale. Non vai nel profondo. Come puoi fare con la letteratura, o la poesia.

L’arte affonda in verticale, è un balsamo. Deframmenta il tuo hard disk celebrale. Unisce. Guarisce.

Huerbetal 245551 640

Ormai si può leggere ovunque, in ogni momento…

Certo che nelle piccole pause di solito non apri Guerra e Pace  oppure Il dottor Zivago, di solito (sopratutto su uno smartphone con schermo da quattro pollici): capace che prima che ritrovi il punto in cui stavi, l’attesa è finita. Poi comunque devi caricare in memoria una situazione, un antecedente, ricordarti cosa stava succedendo. Ma un haiku, o un frammento di poesia di Saffo, non ne hanno bisogno. Quelli in un istante ti possono dare accesso ad una dimensione verticale. Che ti radica più sul terreno, cioè in quello che fai.

In un certo senso la compattezza, la brevità, sono favorite dai nuovi media: ormai ragioniamo per serie di tweet. Però questo non vuol dire necessariamente rinunciare alla profondità. Sopratutto non vuol dire sempre consegnarsi inermi al processo continuo di frammentazione e centrifugazione informativa a cui siamo sottoposti.

Perché l’arte trova sempre un modo per raggiungerci. Anche forme antichissime d’arte: che inaspettatamente, si possono trovare a loro agio con la tecnologia più moderna.

E così l’ultimo, decisivo passo, è di nuovo a noi, alla nostra libertà. L’opzione di vivere distratti, o di trattarci bene, di avere cura di noi stessi. Anche, di lavorare su noi stessi (con delicata attenzione e una punta di simpatia).

Ovvero, di leggere poesia.

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In pieno volo

Le ho tenute lì per parecchio. Erano cresciute naturalmente, dopo aver chiuso l’altro libretto, “Per prima è l’attesa”, che per averlo messo insieme un po’ in fretta, si è rivelato capace di darmi soddisfazioni che non avrei osato mai sperare. La gioia più grande – una delle più grandi e più dolci in assoluto, per me – è stata quella di imbattermi in persone  (in rete, ma soprattutto in carne ed ossa) che venivano da me per dirmi quanto avevano apprezzato le mie poesie. Non è una questione di orgoglio o di sentirsi chissà che: non sono certo come Ungaretti, che aveva una chiara coscienza del suo valore e se a suo tempo si proclamava il più grande poeta italiano, per quanto potesse apparire autocelebrativo ed anche un pelo irritante, era probabilmente vicino al vero. 

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A che quota volare per superare le nuvole…? 

Ad un certo punto c’è stata anche una fase intermedia che è risultata la più critica. La più insidiosa. Impantanato nelle sabbie mobili del dubbio, rileggevo le poesie ogni tanto e non ero più sicuro, non ero più certo che volessero dire qualcosa, che riuscissero a dire qualcosa, a farsi quel ponte tra le persone che giustifica il fatto che vengano pensate, vengano scritte, che trovino spazio sulla carta o in una memoria di computer.

Insomma, non volavano più, in un certo senso. E io stesso non volavo, o volavo a quota molto bassa. Sul volare a quota molto bassa si è certamente detto e scritto molto, e non vale la pena affrontare qui una esposizione completa ed esaustiva del fenomeno. Per la qual cosa, mi limito a registrare qualche semplice evidenza rimandando, come si dice in questi casi, il lettore a più esaustive trattazioni.

Allora. Una prima cosa, è che a volare basso (dicono) si scappa ai radar. Questa informazione in un buon filmone sulla seconda guerra mondiale, compare sempre. Dunque deve essere vero.  Cioè non ti vede nessuno, non ti identifica nessuno. A prima impressione potrebbe essere una cosa buona. Forse lo è, se sei in missione in un paese nemico con intenti non propriamente amichevoli. Però a ben pensarci, può non esserlo se stai tentando di esprimere la tua voce, la tua personalissima voce, trovarle un posto nel mondo. Devi rischiare di farti trovare, di farti leggere. Di farti anche criticare, persino deridere, in caso. Comunque devi esporti, smettere di nasconderti.

Una seconda cosa è che a volare basso prima o poi si sbatte da qualche parte. Non so, una parete, un’ostacolo qualsiasi. Un gatto addormentato, se voli proprio basso basso (non so perché mi è venuta proprio questa immagine, ma penso che renda l’idea). Insomma non sei libero di muoverti nell’immensità dello spazio, sei guardingo e temi diecimila imprevisti, ogni piccola asperità del terreno è un problema. Non sei sereno, non sei rilassato.

Essermi deciso a far leggere il manoscritto, permettere che vedesse la luce (sia pure per pochissimi occhi, ai quali sono grato) mi ha permesso di uscire dalla situazione di stallo, e riprendere quota. Ho ricominciato a lavorare con più convinzione a queste poesie, e come accade spesso in questi casi, dalla nuova convinzione sono scaturite anche nuove idee, nuovi tentativi, nuovi modi di miscelare queste parole, di renderle più adatte al volo.

Sembrerà curioso, ma l’ultimo ostacolo era il titolo. Quello provvisorio non mi soddisfaceva più (non lo svelo così me lo posso sempre rigiocare un’altra volta…), non era propulsivo quanto basta, non spingeva al salto, al salto da fare nel permettere che queste poesie potessero essere finalmente lette. Soprattutto, non parlava di me come sono adesso, dei miei desideri, dei miei bisogni. Del mio cuore.

PienoVolo

Bruno Liljefors (Swedish, 1860-1939), “Trutar”.

Fino a che mi è arrivato in mente il verso di una canzone. Eccolo, eccolo il titolo della raccolta che arriverà, che sta per arrivare: In pieno volo (con il corrispondente hashtag #pienovolo).

E’ lui. E’ quello che cercavo. E’ lui.

Sono appena tre parole, estrapolate da una canzone di Victor Heredia, Ojos de cielo. Oltre ad essere una canzone bellissima, mi è cara per come è stata lanciata alla mia attenzione durante il mio personale volo nella ricerca di ciò che è essenziale. E se è entrata nella mia vita in un momento in cui il senso, il significato di tutto, subisce delle oscillazioni, in cui si avverto un doloroso sfocamento, in cui ricerco con più desiderio la mia personalissima ed unica ragione per vivere, forse non è per caso.

Ojos de cielo, ojos de cielo ,

no me abandones en pleno vuelo

Il fatto che non è più tempo di indugiare o di fantasticare il futuro. A quest’età uno si sente necessariamente in pieno volo. E dunque quando si sente incerto, insicuro, dubbioso, nasce l’esigenza essenziale di trovare qualcosa, qualcuno, degli occhi che lo sostengano proprio ora, proprio adesso: proprio nel pieno del volo.

E il volo è anche quello di abbandonare ogni esitazione e scrivere, con fiducia.

Finalmente.

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Poesia

E’ come una meraviglia perenne, una scintilla sempre pronta ad innescarsi. Custodita tra le pagine di un libro, o tra i files di un computer. Così protetta, sembra quasi innocua, tranquilla. Tranquilla come le cose più tranquille che ci abitano intorno. Con le quali abbiamo fatto ormai un patto di dominio, di usufrutto vicendevole e utilitaristico. Con le cose che – siccome siamo diventati adulti – non ci meravigliano più.
Così abbiamo fatto questo patto, l’abbiamo bevuto come prezzo inevitabile del diventare grandi. Certo, lo sappiamo, è necessario diventare grandi ed anche abbandonare questo rapporto magico con la realtà e le cose. E’ necessario imparare ad usare le cose per come si prestano, non soltanto esserne spaventati od estasiati. Avere l’abilità di costruire. 

A volte nel tentativo di essere adeguati e misurati però perdiamo il contatto con la meraviglia potenziale delle cose.Vediamo tutto a livello di superficie, e a quel livello – alla fine – niente sembra veramente interessante (questo lo dico di passaggio ma è veramente drammatico) Sarà perché siamo fatti per un livello diverso forse?

Così a volte il sistema di geometria cartesiano che (in apparenza) regola il mondo ci diventa improvvisamente strettissimo. Almeno per me è così. Cerco una possibilità di morbidezza, di sperdutezza diversa, che non si trova nella quotidianità. Oppure che dalla quotidianità è stata cacciata, nel tentativo di una maggiore efficienza, di una più netta incisività. Perdendo forse l’umano. 

Photo Credit: eperales via Compfight cc

Quello che mi colpisce della poesia è che la vedo come una porta di accesso – sempre ed instancabilmente aperta – ad un sistema di comprensione delle cose diverso: forse più sfuggente, dai contorni più indistinti, ma certo meno angusto del mio. Una comprensione delle cose più affermativa, più intrinsecamente affermativa, anche nelle composizioni più cupe. E’ anche un accesso veloce e possibile a tutti.

Non serve nessuna preparazione particolare, non serve alcuna erudizione: provare per credere. C’è qualcosa di incredibilmente moderno in questa velocità. E insieme di antichissimo. E’ l’elaborazione di un senso – di un legame tra le cose e gli uomini, e tra gli uomini stessi – in una delle sue forme più pure, più facilmente assimilabili. Mi viene da parlarne come un farmaco, o forse – come è stato detto – come bene comune.



E’ buffo che un’epoca così veloce come la nostra non frequenti molto le poesie. A differenza di altre forme di espressività letteraria, si prestano benissimo ad essere veicolate su web. Perfino su Twitter possono girare efficacemente scampoli di ottima poesia: c’è gente che in meno di centoquaranta caratteri ci ha lasciato dei capolavori, delle epifanie sconvolgenti. E forse, leggendo certi frammenti di Saffo, o di Ungaretti, nella loro drastica brevità sembra proprio di trovarci di fronte ad una sorta di tweets ante-litteram. 

Così la poesia rimane una risorsa per noi uomini distratti. Una risorsa che noi spesso non consideriamo. Ma non importa. Mi verrebbe da dire, non fa nulla.

Perché tanto lei c’è. 
E potrà sempre riaccadere.

Potrà sempre succedere che ritrovi quella strana meraviglia; che leggendo poesie – scorrendo i versi di un poeta o una poetessa magari a me sconosciuti – senta scendermi dentro quelle misteriosa e dolcissima tranquillità che tante volte mi manca, senta risuonare il mio cuore di una corrispondenza tanto incredibile quanto insperata, come un dono che superasse l’attesa.

E sarà di nuovo come affondare le mani in una meraviglia,
vicina ma spesso celata.

E sarò colpito.

Tanto che alzando gli occhi dal libro mi accadrà di nuovo, di vedere il mondo e gli oggetti consueti, con una luce diversa: più carica della incredibile bellezza di questa nostra imperfetta umanità… 

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Scrittore

Se ti comporti da scrittore, lo sei. Uno scrittore fa questo, scrive. A prescindere dal fatto che venga pubblicato, oserei dire. Sì, perché poi la vocazione trova comunque un suo sbocco, una sua strada. L’importante è che tu non decida di bloccarla (cosa che ti potrebbe costare un bel pezzo di salute psichica, ovviamente).
Così capita che si vada, come domenica mattina, al centro culturale a vedere il presepio allestito dalla pittrice, tua parente acquisita. Capita anche che lei sia una tua entusiasta lettrice. Davvero, entusiasta. Che il librettino di poesie che le hai regalato abbia subito una circolazione ben più vasta di quanto si pensava. Che te ne chieda insistentemente altre copie, per poterlo regalare a Natale ad alcuni suoi amici.
Capita che entri nel centro e vieni presentato come lastrofisico scrittore (non me voglia la mia amica Licia Troisi), che ti si chieda se sei disposto ad un incontro. E tu dici sì, certo. Ti viene spontaneo. Ed è vero. E ti senti tranquillo e a posto, nel rispondere a queste cose. Non senti sforzo, finalmente, non devi adeguarti ad essere qualcuno o qualcosa. Non hai modelli da tener presente. Ti viene naturale essere attento e gentile. Forse perché sei te stesso, finalmente. Sei riconosciuto per quello che senti di dover fare. E la cosa ti porta una bella pace interiore, una maggiore capacità di gestire le circostanze, un senso dolce di stare facendo quello per cui sei al mondo.

the writer
Scrivere, è fare amicizia con il reale
nel modo in cui ci è stato richiesto.
Sono ormai diverse le situazioni in cui il semplice fatto di scrivere ha fatto la differenza. Occasioni di incontri, di rapporti, di conoscenze, in cui aver dato voce a questa tensione interna – peraltro difficilmente ignorabile – mi ha di fatto portato su percorsi differenti e migliori.
Poi è come se uno si scavasse un posto nell’universo. La gente prende atto che scrivi, magari apprezza quello che fai, e si aspetta naturalmente che tu faccia questo (se lo fai per mestiere o no, è assolutamente inessenziale). Gente che non si sognerebbe mai di scrivere, probabilmente, sa che tu lo fai e si aspetta di leggere qualcosa da te. E’ come se avessi occupato quel posticino. E da quel momento fosse naturale che tu lo tenga occupato. Nella sola maniera possibile, scrivendo.
Ecco, lo vedo, quel posticino. C’è una targhetta, lì sopra. C’è scritto, scrittore.

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La poesia è molto più di questo

Guest post di Andrea Castellani
Nel novembre del 2002 si è verificata una curiosa coincidenza: una signora novantenne ha regalato  alla famosa rivista “Poetry” cento milioni di dollari per superare le difficoltà finanziarie di questa nuova epoca, soldi che ha ereditato insieme alla casa farmaceutica produttrice del Prozac. “E’ un segno del destino che il denaro speso per antidepressivi sia andato a finanziare la più antica e ignorata delle medicine”, scrive Gramellini su La Stampa (“I versi della nonna”, 20/11/2002). Ma sa anche che, in fondo, la verità è un’altra, come dimostra l’età della fortunata ereditiera: sono sempre loro, gli anziani, a cercare consolazione per una vita che ormai sfugge dal loro controllo. Emblematica la sua conclusione: “Rimane la gioia di vedere tanti vecchi rifugiarsi nella poesia […]. E la rabbia di saperli quasi costretti a scrivere, dal momento che il mondo non li ascolta più.”
Poesia
“Ovunque io vada,vedrò una poesia abbracciarmi” (Adonis)

Già, perché nel mondo del terzo millennio non c’è più spazio per loro, come non ce n’è per la loro poesia…Essi, come la poesia, sono ormai vestigia di un epoca passata, e non possono certo trovare un proprio posto nella società dell’attuale, tanto presa dal presente da dimenticare il passato, e gettarsi senza scrupoli in un futuro che non comprende. Già nel 1975 Montale aveva avvertito le conseguenze di una società in cui i mass media hanno tentato di “annientare ogni possibilità di solitudine e riflessione” (“E’ ancora possibile la poesia?”, Discorso tenuto all’Accademia di Svezia in occasione del Premio Nobel per la poesia), una società ormai dominata da un “esibizionismo isterico” (o.cit.) che poi è l’apparire, non importa il come e il perché, l’illudersi di essere protagonisti dell’interminabile corsa verso un “attuale” in costante mutamento, quindi irraggiungibile. Da allora, credo di poterlo dire con sicurezza, tale processo non ha fatto che accelerare: i conflitti, i governi, le idee e le mode vanno e vengono con la stessa velocità di una hit dell’estate.

In una società così votata all’apparenza della felicità nel nuovo, che ruolo potrà mai avere la poesia? Per lei non c’è più spazio tra le pagine delle maggiori pubblicazioni, né sui principali canali radio-televisivi, né tantomeno nei famosi caffé di una volta, e neppure nelle parole dei nostri idoli, della nostra classe dirigente. Se questa popolarità, questo indiscusso e riconosciuto ruolo di guida sociale è ciò a cui aspira la poesia, allora sì, è morta, forse per sempre. E a poco servirebbe condannarne gli assassini, perché ne saremmo tutti complici, di questo pubblico delitto… e non la farebbe comunque tornare in vita.

Ma forse la poesia non è davvero questo, forse è altro: una “possibilità infinitamente sospesa” (G. Raboni, “La poesia? Si vende ma non si dice”, sul Corriere della Sera, 18/01/2003), un sentimento unico, sfuggente, sorprendente, che alberga in tutti noi, nel profondo. Se la poesia fosse davvero morta, nota giustamente G. Conte (“Ma la poesia non sempre deve essere popolare”, su Il Corriere della Sera, 15/01/2003), “non sarebbe un capitolo della storia umana a chiudersi, ma sarebbe l’umanità stessa a cambiare”. O, per meglio dire, a scomparire: la poesia, a mio avviso, è molto più che forma, molto più che un paio di pagine scritte in versi… è nella musica, vecchia e nuova, nell’arte, nei romanzi, nel cinema, anche nei videogiochi, purchè tutto ciò sia ispirato da veri sentimenti, piuttosto che da analisi di mercato; è insomma nel nostro linguaggio, nelle nostre idee, nei nostri pensieri, è nella vita di tutti i giorni. Senza di essa, non saremmo che macchine. 
Se è questa la poesia, allora non morirà mai. E fa poca differenza il fatto che, rispetto alle epoche passate, abbia perso un suo preciso riconoscimento sociale all’interno di limiti e convenzioni prestabilite, al punto che oggi  l’occasionale evento mediatico “inquina senza scampo quelle privatissime risonanze” (C. Fruttero, “L’indice di Borges”, Tuttolibri, 11 gennaio 2003) che essa produce…anzi, oserei dire, è un bene: di fronte al conformismo sempre più diffuso della società,  forse essa è davvero l’unica cosa che ci resta di inimitabile, insostituibile, personalissimo, e proprio per questo, quindi, universale.

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Faticosa, ma saporita

Finalmente, verrebbe da dire. Sta per cominciare un altro anno, un anno lavorativo e scolastico e familiare. La pausa estiva disegna e separa gli anni meglio di un trentun dicembre. Ecco tra poco entriamo – domani entriamo, diciamo – nell’anno nuovo. E bisogna entrarci bene. Cioè questo. Con una contentezza o un miraggio o una domanda di una contentezza o della possibilità di una contentezza, oppure solo nel non negare la possibilità di una futura o presente contentezza.

Sta iniziando un anno. Sta andando via la stagione calda. Viene l’autunno, fa sera presto, fa più freddo. Che bello.  Sta iniziando un anno, mesi e mesi, il lavoro nelle settimane, l’osservatorio, le puntate in asdc, la mensa. Le cose per Gaia, che l’anno prossimo finalmente se ne andrà a spasso a scrutare la Galassia. Fa sera presto, è più bello predisporsi a tornare a casa, dopo il lavoro. Pensare al caldo rifugio che ci aspetta, a lei che ci aspetta e sta preparando la cena, dopo aver lavorato anche lei, fuori. 

Autumn

Bello fare le cose, salutare gli amici, i colleghi, avviarsi verso casa. Bello avere un margine di libertà e ampiezza anche davanti ai problemi Anche davanti alle tentazioni. Non essere schiacciato da un niente da un nulla da un nientenulla che avvelena.

Essere più vicino a respirare,
ad avere un respiro fondo, regolare.
Bello alternare lavoro e riposo
e quasi senza accorgersene
tornare a progettare
fare progetti
di nuovo.

Come una vacanza o l’ipotesi di una casa
e gli esami della figlia oppure anche
i compiti della piccola
e il lavoro degli altri che è pur lavoro. Bello
sorridere perché appoggiati
a radici solide
sorridere per un briciolino di luce
uno scherzo di luna
per le radici e per il respiro.

Sentire addosso il tempo che passa
come un rivestimento più saldo
strato su strato
nell’attesa e nel guardarsi
indietro
senza timore
contando i passi del cammino.
E il bello è sempre davanti.
E la dolcezza di casa quando
si sprofonda nell’inverno sarà

sarà ancora maggiore
pioggia alle finestre e tuoni e fuori la consueta
dominante azzurra
mentre dentro casa
dentro
la calda gialla operosa e tranquilla
lieta luminosità

e sì farà freddo e qualcuno
dirà copriti e sarà come una gemma regalata
un segno di affetto come dire
non voglio che ti ammali
mi sei caro mi sei
non posso stare a vederti star male

sarà come una gemma respirata
e un vestito e un maglione pesante
e un sorriso leggero per
uscire aspettando con serena pazienza il rientro.

Sarà questo e sarà un anno azzurrossogiallo e quanti colori vuoi
sarà da piangere e da ridere e arrabbiarsi anche
e dire come, chi, perché
e anche chi me l’ha fatto fare
e correre sotto la pioggia con la borsa e trovare
il traffico
e avere preoccupazioni assortite e cose da
sistemare ma sapere
che vi sono radici profonde
– e siamo grandi e siamo bambini e potremmo
un giorno potremmo chissà
diventar vecchi e rimanere bambini –
e comunque niente più la vita piatta e niente più il niente ma

la vita, quella colorata
faticosa ma saporita
la vita.

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Sulla sfacciata modernità della poesia

C’è qualcosa che non torna, a pensarci bene. C’è qualcosa che stride, qualcosa che si adatterebbe benissimo ma non sembra farlo. Per molto non sembra. Eppure è così. Si parla tanto spesso della frammentazione della modernità, del fatto che siamo presi sempre da mille cose, senza riuscire a dedicare tempo a quelle impegnative, che richiedono tempo e pazienza.
Da tutto questo, cosa dedurrebbe un osservatore esterno? Cosa penserebbe un marziano appena atterrato a Roma, oppure a New York? Secondo me, vista la situazione, direbbe benissimo, questi qui leggono un sacco di poesia. 

Certo, e il marziano avrebbe i suoi bravi motivi. Cosa c’è di più istantaneo, circoscritto, definito nel tempo, segmentabile, frazionabile, separabile in versi e parole, della poesia? Se hai cinque minuti magari non ti va di leggere un’altra pagina e mezzo di Dostoevskij, ma una poesia di Luzi o di Ungaretti o di Rondoni o di chi vuoi la puoi sempre leggere (tanto per restare in Italia).

E lei rimane lì, contenuta in sè e in sè sufficiente, come un’isola (sufficiente in sè perché sempre rimanda ad altro). Certo poi ne leggi altre e arricchisci il quadro, capisci di più. Ma una ti basta, per respirare, per ampliare l’orizzonte, per bucare la superficie delle cose ed entrare nella dimensione verticale. Perché il fatto è questo, una buona poesia buca sempre la superficie delle cose, lavora sempre in verticale. 
Il mondo orizzontale ha più che mai bisogno di riequilibrarsi. Il movimento verticale dona stabilità e tranquillità al cuore (la preghiera è il movimento verticale per eccellenza, e anche il nostro marziano si rende conto che tante poesie sono preghiere, come pure tanti salmi sono indubbiamente poetici).

Non è una speculazione culturale per chi ha tempo da perdere. Se non leggiamo poesie ci facciamo del male. Lo spettro possibile della poesia è amplissimo, si può arrivare a diversi livelli di profondità, di comprensione. Se la poesia è valida, è sempre un viaggio, un’avventura. E se leggi, prima o poi ti capitano dei versi che  ti ricircolano in mente, come qualcosa che lungi dall’essere esaurita, regala ancora il suo saporito succo. 
E’ stupendo come la poesia si possa incastrare con i ritmi e i modi di vita del mondo contemporaneo. Sarebbe un vero peccato sprecare una simile occasione.

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