Blog di Marco Castellani

Mese: Gennaio 2012 Page 2 of 5

Un flare di classe M8.7 sul Sole

http://www.youtube.com/watch?v=3QppSoJjYaM

Il 22 gennaio 2012 il Sole ha eruttato, con un flare solare di classe M8.7, una potente iniezione di massa coronale (coronal mass ejection, CME) in direzione della Terra, e un flusso di protoni ad alta energia che si propaga nello spazio sottoforma di vento solare. Questo evento ha causato la più forte tempesta di radiazione solare dal settembre 2005 secondo quanto riferisce lo Space Weather Prediction Center del NOOA.

I modelli del Goddard Space Weather Center della NASA prevedono che il CME si muova a quasi 1400 chilometri al secondo, e potrebbe raggiungere la magnetosfera terrestre, l’involucro magnetico che circonda la nostra Terra, già oggi alle ore 9 ET (più o meno sette ore). Questo permetterà sicuramente la formazione di nuove meravigliose aurore, probabilmente a latitudini più basse del normale.

Per ulteriori informazioni si visiti il sito della NASA: http://www.nasa.gov/mission_pages/sunearth/spaceweather/index.html
Fonte NASA: http://www.nasa.gov/mission_pages/sunearth/news/News012312-M8.7.html

Sabrina

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Ventisei anni dopo…

Sono passati esattamente ventisei anni da quando la sonda Voyager 2, in viaggio verso l’universo profondo, passò nei pressi del pianeta Urano (come ci ricorda un “tweet” dell’account relativo alla missione). Per la precisione, il sorvolo di Urano venne effettuato dalla sonda il 24 gennaio 1986, alle ore 17.59.47 UTC. Da notare che il passaggio di Voyager 2 è ancora l’unico passaggio ravvicinato che sia mai avvenuto tra una sonda ed il pianeta.

Urano è il pianeta numero sette, in ordine di distanza dal Sole. E’ uno di quelli classificati come “giganti gassosi”. E’ stato scoperto nel settecento, e detiene il record di primo pianeta ad essere stato scoperto tramite un telescopio.

Un'immagine a falsi colori di Urano, acquisita dalla Voyager 2 (NASA/JPL)

Interessante notare come la maggior parte delle informazioni che noi abbiamo di Urano vengano proprio dalla Voyager 2, una “antichissima” sonda che è stata lanciata nel lontano 1977. La sonda sta attualmente procedendo verso l’esterno del Sistema Solare, e si pensa di riuscire a farla funzionare – anche se in maniera intermittente – fino all’anno 2025.

Cose fatte per durare… per nostra fortuna, che continuiamo a ricevere preziosi dati, dai confini stessi del Sistema Solare…!

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Scoperte galassie massicce otto miliardi di anni dopo il Big Bang

Questo diagramma a forma di torta mostra la distribuzione spaziale delle galassie massicce ottenuta da BOSS. In rosso, vengono mostrate le nuove galassie ottenute da BOSS ad alto redshift (e quindi a grandi distanze), mentre in bianco sono evidenziate le galassie a grandi distanze riprese, invece, con SDSS ; le galassie di massa intermedia (MAIN) riprese da SDSS sono evidenziate in giallo. Image Credit: Michael Blanton and the SDSS-III Collaboration.

Nata come eredità della Sloan Digital Sky Surver (SDSS) la SDSS-III’s Baryon Oscillation Spectroscopic Survery (BOSS) sta attualmente mappando la distribuzione spaziale delle galassie più massicce nell’Universo. I ricercatori dell’MPA sono stati coinvolti nella Survey della SDSS per oltre un decennio. Hanno utilizzato gli spettri galattici ottenuti da questi esperimenti per dedurre importanti informazioni di carattere fisico sulle stelle e sul gas presente in questi sistemi, che fanno capire come le galassie si sono formate ed evolute nel corso della storia dell’Universo.

In un recente articolo, realizzato da una collaborazione internazionale formata da ricevatori delll’MPA, dell’Università del Wisconsis e della Johns Hopkins University, insieme al team BOSS, si sono messe in evidenza le masse e le età di circa 300 000 galassie massicce a redshift compresi tra 0,45 e 0,7 che corrispondono ad un tempo in cui l’Universo aveva un’età pari a circa il 60% di quella attuale. Tutte queste galassie hanno masse superiori a 100 miliardi di masse solari (10^11 Msun) rendendo questo campione di galassie massicce con i loro rispettivi spettri il più grande campione finora ricavato.

Le galassie massicce sono davvero interessanti in cosmologia, perchè sono ritenute essere dei “rappresentanti” del punto di arrivo dell’evoluzione delle galassie. Il paradigma standard Lambda-Cold Dark Matter fornisce previsioni dettagliate di come la struttura della componente della materia oscura dell’universo si assembla nel tempo. In particolare, la formazione della struttura è un processo “bottom-up”, che va dal basso verso l’alto, con i più piccoli aloni di materia oscura che collassano per primi, che si fondono poi per formare sistemi sempre più grandi fino a formare giganteschi ammassi di galassie.

Per un lungo periodo queste previsioni cosmologiche furono attaccate da molti osservatori, perchè le galassie più massicce  sembravano essere costituite solo da stelle molto vecchie. Come poteva questo essere consistente con uno scenario nel quale le strutture più massicce che si erano formate durassero nel tempo? [1]

Una galassia ellittica massiccia è mostrata con i suoi lobi visibili in radio formati da particelle molto energetiche. Credit: Michael Blanton and the SDSS-III Collaboration.

Man mano che venivano costruiti telescopi di maggiori dimensioni, i ricercatori sono stati in grado di rilevare deboli galassie nell’Universo distante, dove i tempi di percorrenza della luce diventano paragonabili con l’età dell’Universo stesso.

I ricercatori hanno scoperto che il numero di galassie massicce presenti in epoche cosmologiche molto antiche era davvero molto inferiore rispetto il numero attuale confermando in questo modo che le galassie massicce si erano assemblate in tempi più recenti. Tuttavia, avevano pure trovato che le galassie più massicce nell’universo primordiale erano apparentemente composte da stelle relativamente evolute. In altre parole, non era importante quanto indietro nel tempo si andava ad osservare, perchè quello che si osservano erano poche evidenze di formazione stellare recente, una volta che la galassia in questione aveva raggiunto una certa soglia di massa stellare.

Questi risultati hanno causato molta costernazione fra i ricercatori e i tecnici ricercatori che avevano misurato e concluso che grandi quantità di gas avrebbero dovuto raffreddarsi e formare stelle negli aloni di materia oscura che circondavano le galassie massicce. Si è discusso e formulato moltissime teorie in merito ai meccanismi esotici che scaldano il gas e impediscono la formazione stellare. Gli esempi vanno dalle gigante esplosioni che sono alimentate dal materiale che si accresce nei buchi neri centrali di milioni di masse solari, ai getti, su scale del Megaparsec, di particelle cariche che viaggiano a velocità relativistiche e che penetrano e riscaldano il gas che circondano le galassie.

I nuovi risultati da SDSS-III indicano che questi meccanismi esotici possono trovare più difficoltà nel fermare la formazione stellare nelle galassie massicce ad alto redshift. Il team dell’MPA/Wisconsin/JHU ha impiegato una tecnica che potrebbe stimare l’età delle stelle in una galassia utilizzando le dettagliate caratteristiche delle righe di assorbimento stellare nei loro spettri. Nelle galassie massicce, le stelle più giovani sono spesso avvolte in bozzoli di gas ricchi di polvere che assorbono gran parte della luce blu emessa dalle giovani stelle calde, tanto che le deduzioni sulla base del colore della galassia potrebbe portare a deduzioni sbagliate sulla loro età e distanza.

Le linee continue gialle, bianche e azzurre mostrano la frazione di galassie che hanno formato più del 5%, del 10% e 15% delle loro stelle negli ultimi miliardi di anni in funzione della massa stellare. Questi risultati sono relative a galassie con redshift z=0,1 nel campione di dati selezionati da SDSS a basso redshift. Le linee tratteggiate in giallo, bianco e azzurro mostrano lo stesso risultato per galassie con redshift z=0,5 nel campione BOSS. Credit: Michael Blanton e SDSS-III Collaboration.

La nuova tecnica e il campione enorme di grandi galassie che non ha precedenti nello studio dell’universo, hanno permesso al team di ricercatori di concludere che la frazione delle galassie più massicce con giovani stelle è diminuito di un fattore 10 negli ultimi 4 miliardi di anni. Ad un redshift di 0,5 oltre il 10% di tutte le galassie con masse stellari intorno a 200 miliardi di masse solarinhanno sperimentato un episodio recente di formazione stellare.

Questi risultati sono in contrasto con le ipotesi da parte di alcuni ricercatori secondo i quali le stelle nelle galassie massicce si sono tutte formate circa 2-3 miliardi di anni dopo il Big Bang. I risultati sono pure entusiasmanti, perchè la nuova generazioni di satelliti in X sarà in grado di rilevare la presenza del in raffreddamento mentre forma stelle nelle galassie massicce. La nuova generazione di survey in radio permetterà di tracciare e di descrivere come le particelle energetiche dai buchi neri trasferiscono la loro energia in questo gas.

L’articolo è stato pubblicato su ArXiv:  http://arxiv.org/abs/1108.4719: “Evolution of the Most Massive Galaxies to z=0.6: I. A New Method for Physical Parameter Estimation”, di Yan-Mei Chen, Guinevere Kauffmann, Christy A. Tremonti, Simon White, Timothy M. Heckman, Katarina Kovac, Kevin Bundy, John Chisholm, Claudia Maraston, Donald P. Schneider, Adam S. Bolton, Benjamin A. Weaver, Jon Brinkmann; 2011, arXiv:1108.4719v2 [astro-ph.GA].

[1] Scenario bottom-up: la materia oscura dominante è di tipo freddo (Cold Dark Matter) cioè con bassa dispersione di velocità, ad esempio particelle molto massive, m > 30 Gev (come l’ipotetico neutralino). Si formano prima le galassie, poi man mano le strutture più grandi (clustering gerarchico). I dati attuali supportano lo scenario bottom-up di clustering gerarchico, dominato da materia oscura fredda (CDM).

Fonte: Max-Planck-Gesellschaft: http://www.mpg.de/de e Message to Eagle: MPA Sientists Discover Massive Galaxies Still Alive Eight Billion Years After The Big Bang .

Sabrina

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Foschia blu e arancione su Titano

Questa immagine della sonda Cassini della NASA che punta in direzione della regione polare sud del satellite maggiore di Saturno, Titano, mostra una depressione all’interno degli strati di foschia color arancione e blu vicino al polo sud.

Lo strato di foschia più alto del satellite appare blu in questa foto, sebbene la foschia atmosferica principale sia di colore arancione. La differenza in colore potrebbe essere dovuta alla dimensione delle particelle che costituiscono la foschia. La foschia color blu probabilmente deve essere composta di particelle con dimensioni inferiori rispetto a quelle della foschia arancione.

Vi è pure una zona di transizione tra le due foschie, a circa un terzo dal bordo sinistro dell’immagine, con uno strato più attenuato. Il Polo sud del satellite si trova in alto a destra e, col passare delle ore e lo spostamento del Sole verso nord, sta penetrando nella zona più buia. Lo strato superiore della nebbia è ancora illuminata dalla luce solare.

Le immagini scattate con filtri spettrali rossi, verdi e blu sono state combinate per creare questo foto a colori naturali. Le immagini sono state ottenute l’11 settembre 2011 ad una distanza di circa 134 000 chilometri da Titano. La scala dell’immagine è pari 787 metri per pixel.

Credit: NASA/Ames/JPL-Caltech. Fonte NASA: http://www.nasa.gov/multimedia/imagegallery/image_feature_2140.html

Sabrina

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E Voyager prosegue. Al freddo.

Al fine di ridurre l’assorbimento di energia, i tecnici della missione Voyager hanno… “spento i riscaldamenti” su parte della sonda, lasciando scendere la temperatura dello spettrometro ultravioletto di più di 23 gradi Celsius. Al momento dunque lo strumento si trova ad operare alla temperatura di ben 79 gradi sotto lo zero: sicuramente la temperatura più bassa che ha mai dovuto sopportare, in tutta la sua lunga vita.

“Spegnere i riscaldamenti”, per così dire, non è una mossa improvvisata ma è parte di una bel calibrata strategia nella gestione delle ridotte risorse energetiche, che ha lo scopo ambizioso di continuare a raccogliere dati dalla sonda fino all’anno 2025.

Ma come stanno andando le cose? Quanto soffre lo strumento? Al momento, ci dicono dalla NASA che lo spettrometro continua imperterrito (e… infreddolito) a raccogliere dati e ad inviarli a Terra. Un’altra delle meraviglie di questa longevissima sonda! Pensate che era stato progettato per operare a circa 35 gradi sotto lo zero, ma ha continuato ad operare a temperature via via più basse negli ultimi diciasette anni, quando sono stati progressivamente spenti gli strumenti atti a riscaldarlo, posti intorno alla sua posizione. Non era affatto scontato che lo spettrometro continuasse a funzionare, ma dal 2005 di fatto si trova comunque a temperature al di sotto dei 56 gradi sotto lo zero. Da ciò gli ingegneri hanno… “preso coraggio”, e sperano che lo strumento continui a funzionare ancora, anche dopo che, nel mese di dicembre, altri riscaldatori sono stati disattivati.

Immagine di Voyager 1

Una immagine artistica della sonda Voyager 1 (Crediti: NASA/JPL-Caltech)

In ogni modo, scienziati e ingegneri della missione continueranno a monitorare le performance dello spettrometro. E’ stato parecchio attivo durante l’incontro di Voyager con Giove e Saturno: da allora è un team internazionale guidato da scienziati francesi, che segue e analizza i dati dello strumento.

La sonda Voyager 1 è stata lanciata nel lontano 1977, poco dopo la Voyager 2: attualmente è l’oggetto artificiale più distante dalla Terra. Lo stato delle due sonde può essere seguito momento per momento tramite il relativo account Twitter (al momento di scrivere, ha ben 5748 followers, tra cui ovviamente ci siamo anche noi di GruppoLocale).

Chi l’avrebbe detto, al momento del lancio (nei profondi anni ’70), che avrebbe inviato aggiornamenti di stato in un social network, parte di un mondo telematico, all’epoca ancora tutto da inventare…?

Traduzione e adattamento da una Press Release NASA

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La Grande Nube di Magellano in luce infrarossa

Questa nuova immagine mostra la Grande Nube di Magellano in luce infrarossa catturata da Herschel Space Observatory, una missione dell’European Space Agency (ESA) con contributi importanti da parte della NASA e dello Spitzer Space Telescope della NASA.

Nei dati combinati ottenuti dai vari strumenti di bordo, questa galassia nana vicina si presenta come il risultato di un’enorme esplosione. Ma in realtà, più che fuoco, queste non sono altro che onde giganti di polvere che si stanno espandendo e che hanno dimensioni di centinaia di anni luce. I campi dove avviene formazione stellare sono visibili al centro, nel centro destra e in alto a destra. La regione luminosa nel centro sinistra è chiamata 30 Doradus, o Nebulosa Tarantola, per il suo aspetto in luce visibile.

Questa immagine viene a mappare la polvere nelle galassie come la Piccola e la Grande Nube di Magellano, galassie satelliti della nostra Via Lattea.

“Studiare queste galassie offre la migliore opportunità per studiare la formazione stellare al di fuori della nostra Via Lattea” ha affermato Margaret Meixner, ricercatrice dello Space Telescope Science Institute a Baltimore, Maryland, e Principal Investigator del progetto. “La formazione stellare viene a influenzare l’evoluzione delle galassie; per questo speriamo che la comprensione della storia di queste stelle ci permetterà di rispondere ad alcune domande sui cicli di vita galattica”.

La Grande e la Piccola Nube di Magellano sono le due galassie satelliti più grandi nei dintorni della nostra Via Lattea, anche se sono ancora considerate “galassie nane” se confrontate con la nostra grande galassia a spirale o con altre galassie. Le galassie nane contengono, inoltre, un minor numero di metalli, o elementi più leggeri dell’idrogeno e dell’elio. In un tale ambiente si pensa che vi sia un rallentamento dell’evoluzione stellare. La formazione stellare nell’universo ha raggiunto un picco circa 10 miliardi di anni fa, anche se le galassie contenevano una abbondanza di metalli minore. In precedenza, i ricercatori avevano solo un’idea indicativa del tasso di formazione stellare nelle Nubi di Magellano, ma queste nuove immagini ora consentono di studiare il processo in modo più accurato.

I risultati sono stati presentati al 21 esimo Meeting dell’American Astronomical Society ad Austin, Texas il 10 gennaio 2012.

Herschel è una missione tra le più ambiziose dell’European Space Agency, con strumenti scientifici forniti da vari consorzi di Istituti Europei e con un’importante partecipazione della NASA. Il Progetto Herschel della NASA è basato anche sul Jet Propulsion Laboratory della NASA, Pasadena, California.

Per ulteriori informazioni si visiti il sito di Herschel su: http://www.herschel.caltech.edu, e http://www.esa.int/SPECIALS/Herschel/index.html
Sito di Herschel dell’European Space Agency: http://sci.esa.int/science-e/www/area/index.cfm?fareaid=16
Fonte NASA: http://www.nasa.gov/mission_pages/herschel/news/herschel20120110.html
NASA Gallery: http://www.nasa.gov/mission_pages/herschel/multimedia/pia15254.html

Sabrina

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Nuove teorie sul nucleo di Giove

Giove. Credit: Gemini Observatory/AURA.

Anche i giganti possono perdere il loro cuore. Nuovi calcoli indicano che il nucleo roccioso del gigante Giove si sta dissolvendo. Il lavoro di Hugh Wilson e Burkhard Militzer dell’Università della California, Berkeley è a favore di questa teoria e potrebbe contribuire a spiegare perchè il nucleo di Giove appare più piccolo e la sua atmosfera più ricca di elementi pensanti del previsto.

Si ritiene che i pianeti giganti come Giove e Saturno si siano formati come corpi solidi composti di roccia e di ghiacchio. Man mano che il loro core cresceva fino a diventare circa dieci volte la massa della Terra, la loro gravità ha attirato gas dalla nebulosa primordiale dando ai pianeti delle atmosfere molto spesse e ricche principalmente di idrogeno.

Curiosamente, alcuni studi hanno suggerito che il core di Giove possa avere una massa inferiore a 10 masse terrestri, mentre il core di Saturno sembra avere una massa che supera le 15 masse terrestri. Nel 2010 [1] un gruppo di ricercatori guidati da Shu Lin Li dell’Università di Pechino, Cina, ha offerto una spiegazione incredibile: Giove sarebbe un pianeta roccioso più grande della Terra schiacciatosi fino a diventare il pianeta che conosciamo con la vaporizzazione della maggior parte del suo core, molti miliardi di anni fa.

Questo scenario potrebbe anche dare la risposta ad un’altra questione aperta: perchè l’atmosfera di Giove contiene una più alta frazione di elementi pesanti rispetto al Sole, la cui composizione si pensa sia lo specchio di quella della nebulosa che ha dato origine ai pianeti del sistema solare.

Ora Wilson e Militzer hanno suggerito un’altra spiegazione, anche se un po’ meno “tragica” di quella di Shu Lin Li. Il core di Giove si sta gradualmente dissolvendo, processo che sta avvenendo fin dalla sua formazione, 4,5 miliardi di anni fa.

Altri ricercatori avevano proposto che le pressioni e le temperature intense nel core di Giove potrebbero portare alla dissolvenza del suo core nell’atmosfera circostante, che è ad alta pressione e si comporta come un liquido.

I ricercatori hanno usato le equazioni della meccanica quantistica per vedere come l’ossido di magnesio, che si pensa sia un componente del nucleo di Giove, si comporti alle pressioni di Giove, pari a circa 40 milioni di atmosfere terrestri e a temperature di 20 000 °C. Tali condizioni non possono essere ricreate nei laboratori terrestri, alcuni esperimenti possono approssimare le pressioni che si hanno, ma oltrepassano le temperature di un fattore 100 o poco più.

I ricercatori hanno scoperto che in tali condizioni l’ossido di magnesio in effetti si dissolve nel suo ambiente fluido. “Si può pensare all’ossido di magnesio come di un pizzico di sale sul fondo di un bicchiere. Versiamo acqua tiepida sul sale ed esso comincerà a sciogliersi nel bicchiere, con l’acqua salata sul fondo e l’acqua meno salata in alto” ha affermato Wilson.
Egli sospetta che la roccia che si è disciolta possa essersi mescolata al resto dell’atmosfera nel corso del tempo. “Si potrebbe almeno in parte spiegare sia l’arricchimento di elementi pesanti nell’atmosfera più esterna, sia il fatto che il suo nucleo possa essere più piccolo di quanto i modelli della formazione suggeriscono” ha aggiunto Wilson.

Il calcolo suggerisce perchè Saturno, che è circa un terzo della massa di Giove, sembra avere un nucleo più pesante. Le condizioni all’interno del pianeta non sono così estreme come quelle entro Giove, tanto che il core di Saturno si sta dissolvendo completamente. “Sarà un dissolvimento molto lento” ha aggiunto Wilson.

Il team ipotizza che il processo avviene probabilmente molto più rapidamente nei pianeti più massicci di Giove. Dave Stevenson del California Institute of Technology di Pasadena è d’accordo con questa ipotesi. “L’erosione del core è probabilmente molto più efficace man mano che aumenta la massa” ha affermato. “E’ una specie di segnale del fatto che Giove è ancora in formazione, non essendosi ancora stabilizzato in uno stato stazionario”.

[1] disponibile su: New Scientist (Space): Jupiter swallowed a super-Earth, di David Shiga, Magazine issue n. 2773,
http://www.newscientist.com/article/mg20727733.600-jupiter-swallowed-a-superearth.html

Articolo originale disponibile su arXiV: http://arxiv.org/abs/1111.6309, Rocky core solubility in Jupiter and giant exoplanets, Hugh F. Wilson, Burkhard Militzer, arXiv:1111.6309v1 [astro-ph.EP]; articolo in pdf: http://arxiv.org/PS_cache/arxiv/pdf/1111/1111.6309v1.pdf

Fonte New Scientist: http://www.newscientist.com/article/dn21317-jupiters-heart-is-dissolving.html

Sabrina

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Un quadro, del settantatré

Domenica pomeriggio, mettiamo su i quadri. Sono appoggiati in camera da letto da una vita, ormai. Su quel carrello ormai vecchio e rovinato, che dobbiamo buttare. Scomoda, come sistemazione. Anche perché c’è il fatto che se ti alzi di notte per andare in bagno ci puoi sbattere contro (succede, succede…).   A dire la verità, niente come l’iPod Touch – o roba simile –  per muoversi a mò di felino a notte alta con un minimo di luce (se poi non ti riviene sonno, puoi leggere qualcosa o controllare la posta… anche se, chi ti scrive a quell’ora di notte?)
Ma sto divagando…Torniamo ai quadri. E’ incredibile come cambia l’aspetto della casa mettendo due o tre quadri appena. Io e Paola li prendiamo uno alla volta, li puliamo, cerchiamo di capire dove stanno meglio. Ne giro uno, fatto da mio nonno materno (dipingeva per hobby, ma dipingeva bene, secondo me). Vedo la firma e la data. Aldo Poli. Settembre 1973. 

Faccio un rapido conto, e mi colpisce una coincidenza. Mio nonno lo dipinse quando io avevo l’età di Agnese, la nostra bimba più piccola. Quante ne ha viste passare quel quadro! E ancora è lì, ancora svolge la sua funzione. E’ ancora bello. Ancora mi trasporta indietro, mi fa pensare all’infanzia, al nonno. E’ un bel quadro. Ma anche se non lo fosse, sarebbe lo stesso importante, per me. Per la mia famiglia.
Dipingere
Il fatto di creare ha qualcosa dentro, un mistero che non puoi esaurire, comprendere. Spesso ragiono – nel giudicare i miei tentativi letterari-  per categorie semplificate; o una cosa è pienamente riuscita, è un’opera d’arte, diciamo, o non lo è. E se non lo è quasi non si capisce perché uno abbia perso tempo, magari molto tempo, per realizzarla. 
Però questo ragionamento semplificato manca diversi punti. Uno è che creare di per sè è un’attività terapeutica d’eccellenza. Seguendo la spinta interiore a creare capisco meglio il mondo e me stesso, mi muovo verso un equilibrio, affermo la positività ultima del reale (anche se scrivo una tragedia… se sto scrivendo di per sè è come se dicessi vale la pena). Reprimere un impulso a creare non fa mai bene alla salute. A prescindere dal “valore” di quello che riesci a creare. Il secondo punto è che – sappiamo bene – tra il capolavoro e il tentativo da buttare esiste uno spettro larghissimo di possibilità; il mondo è sempre più vario e sorprendente di come riusciamo ad immaginarlo. 
Inoltre dimentichiamo spesso che dietro tantissimo capolavori c’è il lavoro paziente e tenace, ci sono tanti tentativi parzialmente riusciti, che dunque acquistano un loro specifico valore, come può essere la strada che conduce (in un tempo e in un modo non deciso da noi) alla realizzazione di sè.
Assecondare la propria vocazione, mi sembra analogo ad accettare di stare su una strada, di rimanere in un cammino, di cui magari vedi appena pochi metri avanti. Ci sono tante curve, non vedi oltre la prima. A volte ci può essere nebbia. O ti trovi a percorrere una selva oscura, magari. Sei inquieto o triste o insoddisfatto, forse non sai nemmeno perché. Non per questo, devi smettere di camminare: “Guarda che dopo splende il sole; sei dentro l’onda, ma poi sbuchi fuori e c’è il sole” (Luigi Giussani). 
Non per le difficoltà, il tuo diventa meno ragionevole. 

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