Blog di Marco Castellani

Mese: Giugno 2010 Page 2 of 3

Spiagge su Marte

di Sabrina Masiero

 

 

Questa immagine mostra come avrebbe dovuto essere Marte circa 3.5 miliardi di anni fa con un vasto oceano d’acqua.

Tre studi differenti hanno fornito un’idea delle coste e dei mari marziani in epoche remote.
Il primo studio, pubblicato su Nature Geoscience (http://www.nature.com/ngeo/journal/vaop/ncurrent/abs/ngeo891.html), afferma che un vasto oceano copriva, probabilmente, circa un terzo della superficie del pianeta 3,5 miliardi di anni fa. Gaetano Di Achille e Brian Hynek dell’Università del Colorado sono giunti a questa conclusione dopo aver osservato 52 sedimenti di delta di fiumi e migliaia di valli e vallate di origine fluviale secche sulla superficie marziana. Le informazioni altimetriche sono state fornite da numerose sonde della NASA e dall’Orbiter Mars Express europeo raccolte con un sistema d’informazione geografico o GIS, che dà un’analisi delle caratteristiche delle valli e dei delta dei fiumi.
Ne è emersa una mappa dove la maggior parte dell’emisfero Nord marziano doveva trovarsi sott’ acqua, almeno nelle primissime fasi della sua storia. Il mare doveva contenere circa 124 milioni di chilometri cubici d’acqua, che è circa un decimo del volume complessivo attuale degli oceani terrestri, distribuito su un pianeta con dimensioni metà delle nostre. Lo studio è stato finanziato dal Mars Data Analysis Program della NASA:

Un altro studio, riportato nel Journal of Geophysical Research-Planets (http://www.agu.org/journals/je/), ha rilevato all’incirca 40.000 vallate di origine fluviale marziani. “Questo numero è circa quattro volte più grande di quanto si pensava“, ha affermato Hynek, che ha portato avanti lo studio con i colleghi Michael Beach e Monica Hoke all’Università del Colorado.  Inoltre, “deve esserci stato un grande numero di precipitazioni per rilevare così tante vallate fluviali” ha detto Hynek nella news release dell’Università (http://www.colorado.edu/news/r/f9b2e81224758e6b422b6bb0735f7098.html).

Alcuni ricercatori hanno suggerito che i particolari scavati dall’acqua e osservati su Marte oggi siano il risultato di massicce piene improvvise e catastrofiche avvenute in epoche passate, mentre altri affermano che Marte in origine avesse un ciclo idrologico di lunga durata, simile a quello della Terra, completo di piogge, fiumi abbondanti, mari, oltre al fenomeno dell’evaporazione. Si tratta chiaramente di uno scenario favorevole alla vita. “Se mai la vita si è sviluppata su Marte, i delta dei fiumi potrebbero essere la chiave per aprire la porta sul passato biologico di Marte” ha affermato Hynek.

Inoltre, grazie ad un’altra survey, condotta da un diverso gruppo di ricerca, si è arrivati ad ottenere una mappa molto simile. La survey è stata realizzata sulla base di un’analisi della topografia e della geologia ottenuta dai dati del Mars Global Surveyor, del Mars Odyssey e dai Viking della NASA e concentrata in particolare sui laghi dell’emisfero sud marziano. Leslie Bleamaster, una ricercatrice all’Arizona-based Planetary Science Institute, ha affermato che il progetto di mappatura è legato all’idea che i laghi siano esistiti entro il bacino d’impatto Hellas e ovunque nella parte sud di Marte.

Questa mappatura rende le interpretazioni geologiche consistenti con gli studi precedenti e permette anche di fare una stima della loro esistenza, datata intorno alla prima metà del periodo Noachiano, tra i 4.5 e 3.5 miliardi di anni fa” ha affermato in una news release (http://www.psi.edu/press/).

Una mappa di Hellas Planitia su Marte mostra come avrebbero potuto apparire le vallate di origine fluviale e le coste marine.

E’ possibile dare un’occhiata alla mappa su sito web americano “Geological Survey” alla pagina: http://pubs.usgs.gov/sim/3096 che raccoglie i dati geografici non solo del pianeta Terra ma anche di altri pianeti. Il progetto è sostenuto dal Planetary Geology della NASA e dal Geophysics Program.

Dov’è andata a finire tutta l’acqua su Marte?

Dato che Marte è molto più piccolo della Terra, gli scienziati sospettano che il suo nucleo fuso si sia raffreddato in modo relativamente veloce facendo sì che il pianeta perdesse il suo campo magnetico globale. Senza una magnetosfera simile a quella terrestre, Marte ha avuto meno possibilità di respingere le particelle elettricamente cariche del vento solare. Nel tempo, queste particelle devono aver distrutto quasi tutta l’atmosfera marziana, interrompendo il ciclo idrologico.

Una spiegazione alternativa potrebbe essere quella secondo cui Marte ha potuto trattenere solo in parte la sua atmosfera a causa della sua più debole influenza del campo gravitazionale. In entrambi i casi, l’atmosfera marziana ha perso il suo strato di bioossido di carbonio. E senza una coperta superficiale che permettesse di mantenere un po’ di calore, il pianeta si è via via raffreddato. Oggi l’acqua esiste principalmente sottoforma di ghiaccio, ai poli oppure mescolata nel terreno freddo. In parte l’acqua deve aver reagito con i minerali per formare rocce carbonate e, recentemente, è stato osservato che vi sono evidenze d’acqua liquida sulla superficie 1.25 milioni di anni fa.

Cercando di capire dove sia andata a finire tutta l’acqua su Marte Hynek ha affermato che “questa è sicuramente una delle domande più importanti a cui si vorrebbe rispondere“. Le future missioni su Marte potrebbero aiutarci in tal senso. Per il 2013 la NASA ha in programma una missione su Marte, denominata MAVEN (Mars Atmosphere and Volatile Evolution) e controllata dall’Università del Colorado.

Fonte Cosmic Log: http://cosmiclog.msnbc.msn.com/_news/2010/06/14/4508231-see-the-shores-of-mars

Ringrazio di cuore il mio amico Ricardo Garcia per l’aiuto nella pubblicazione di questo post.

Sabrina

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Prima luce per TRAPPIST

 di Sabrina Masiero

Prima luce per TRAPPIST: la Nebulosa Tarantola. Cortesia: ESO.

Ha iniziato a funzionare TRAPPIST (TRAnsiting Planets and Planetesimal Small Telescope), telescopio di 60 cm sistemato all’Osservatorio dell’ESO, La Silla (Cile) e che viene manovrato da una sala di controllo a Liegi, in Belgio, a 12.000 chilometri di distanza. TRAPPIST si dedica di ricercare sistemi planetari, in particolare pianeti che orbitano attorno ad altre stelle e comete in orbita intorno al Sole.

Entrambi questi rami di ricerca sono fondamentali per l’astrobiologia, che mira a studiare l’origine e la distribuzione della vita nell’Universo. “Pianeti di tipo terrestre simili al nostro pianeta sono sicuramente l’obiettivo per la ricerca di vita al di fuori del Sistema Solare, mentre le comete si pensa abbiano un ruolo importante nell’apparizione e nello sviluppo della vita sulla Terra“, ha affermato Emmanuel Jehin, scienziato a capo della parte del progetto che riguarda lo studio delle comete.

La galassia a spirale M83 ripresa da TRAPPIST. Cortesia ESO.

TRAPPIST rileverà e caratterizzerà gli esopianeti grazie alle alte misure di precisione dei cali di luminosità che si verificano a causa dei transiti planetari davanti alla stella. Durante un transito, la luminosità osservata della stella diminuisce sensibilmente, dato che il pianeta blocca una parte della sua radiazione luminosa. Più grande è il pianeta, maggiore sarà la luce bloccata e maggiore sarà anche la diminuzione della luminosità della stella.

L’Osservatorio dell’ESO a La Silla, ai margini del deserto di Atacama, è certamente uno dei migliori siti astronomici del mondo” ha affermato Michael Gillon. “E poiché è già sede di due straordinari cacciatori di pianeti extrasolari, non avremmo potuto trovare posto migliore per installare il nostro telescopio robotico“.

Gli astronomi del progetto TRAPPIST lavoreranno a stretto contatto con i team che utilizzano HARPS sul telescopio da 3.6 metri e che utilizzano anche CORALIE collegato al telescopio svizzero di 1.2 metri, Leonhard Euler, entrambi a La Silla.
TRAPPIST è una collaborazione tra l’Università di Liegi e l’Osservatorio di Ginevra che verrà anche utilizzato per lo studio delle comete nell’emisfero meridionale. E’ un telescopio robotico completamente automatizzato e in grado di tracciare il cielo ad alta velocità per tutta la notte senza essere custodito. Una stazione meteorologica fa un monitoraggio costante del tempo e decide se chiudere la cupola in caso di maltempo.

Fonte The TRAPPIST : http://arachnos.astro.ulg.ac.be/Sci/Trappist ; ESO website: http://www.eso.org/public/news/eso1023.

Sabrina

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Il Regno Unito a caccia di segni di vita su Marte

L’agenzia spaziale del Regno Unito ha appena annunciato che sono stati assegnati più di dieci milioni di sterline per lo sviluppo di strumenti in grado di cercare segni di vita (presente o passata) su Marte. Gli strumenti sono parte del carico scientifico del prossimo rover ExoMars, che dovrebbe essere lanciato nel 2018 nel quadro di un progetto che coinvolge sia l’ESA, l’ente spaziale europeo, che la NASA. ExoMars rappresenta un progetto di importanza chiave per la UK Space Agency.

Il progetto si articola in due tempi: i giochi si dovrebbero aprire nel 2016, quando la NASA lancerà una sonda (guidata da ESA), con l’obiettivo di capire l’origine e la distribuzione di alcuni gas nell’atmosfera del pianeta rosso. In particolare, si punta a capire perché il gas metano – che secondo le stime degli scienziati dovrebbe distruggersi entro pochi centinia di anni nell’atmosfera del pianeta – appaia invece formarsi tuttora, in certe regioni del pianeta.

La sonda ExoMars (Credits: ESA)

La sonda dovrà poi rilasciare una seconda piccola sonda sperimentale, destinata ad atterrare sulla superficie di Marte: la faccenda è di un certo interesse, perché sarà la dimostrazione di come l’Europa sia capace di effettuare un atterraggio controllato su un altro pianeta.

Dopodichè, nel 2018, la NASA farà atterrare il rover ExoMars di ESA, insieme con un altro rover della stessa NASA. E’ proprio ExoMars il rover destinato a beneficiare dei fondi appena stanziati: è uno “scienziato robotizzato” in grado di cercare evidenze di vita passata o presente su Marte, nonchè di studiare le condizioni locali, al fine di poter capire dove si possano rintracciare gli ambienti più ospitali per eventuali forme di vita. ExoMars avrà con se un radar in grado di ispezionare il suolo al di sotto del rover, nonché di un’altro strumento in grado di scavare fino a 2 metri (!) sotto la superficie per estrarre materiale che poi verrà analizzato nel laboratorio a bordo dello stesso rover..

Nel complesso, un programma ambizioso, ma di sicuro impatto: e  una mossa coraggiosa e lungimirante, il finanziamento del rover. Oggi più che mai è necessario che la scienza europea non rinunci alla sua parte, anche di protagonista, nell’esplorazione spaziale… e quella italiana non ceda alla tentazione di “tirarsi fuori” (come purtroppo a volte appare da diverse constatazioni recenti) ma investa con coraggio e convinzione nei progetti europei!

L’articolo originale di UK Space Agency

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Esopianeta colto in movimento

Per la prima volta è stato fotografato e filmato un pianeta esterno al Sistema Solare mentre ruota intorno alla sua stella, Beta Pictoris. L’attore protagonista dell’inedito video è il pianeta extrasolare battezzato Beta Pictoris b e ripreso nella singolare sequenza di immagini in movimento dal Very Large Telescope dell’ESO.

Il risultato, descritto sulla rivista Science dai ricercatori dell’Università Joseph Fourier di Grenoble, in Francia, è la prova che i pianeti giganti si formano nel disco di polveri che circonda le stelle molto rapidamente, in pochi milioni di anni: un tempo molto breve su scala cosmica. Infatti la stella madre ha solo 12 milioni di anni, meno di tre millesimi dell’età del Sole che ne ha cinque miliardi, pur essendo del 75% più massiccia. Si trova a circa 60 anni luce verso la costellazione di Pictor (il Pittore) ed è uno degli esempi più noti di una stella circondata da un disco di detriti polverosi.

Una immagine artistica di Beta Pictoris (Crediti: ESO)

Il pianeta extrasolare colto in movimento è un gigante gassoso che ruota a una distanza paragonabile a quella di Saturno dal Sole. Molto ravvicinata.  Il team, che ha descritto i risultati sulla rivista Science, ha utilizzato uno strumento montato su uno degli UT (Unit Telescopes) di 8,2 metri del VLT in Cile per studiare le immediate vicinanze di Beta Pictoris nel 2003, 2008 e 2009. Immagini di questo tipo sono disponibili per circa dieci pianeti extrasolari. Tra questi  Beta Pictoris b ha l’orbita più corta finora conosciuta, a una distanza compresa tra 8 15 volte quella tra il Sole e la Terra, pari a circa la distanza di Saturno.

Gli altri pianeti ripresi sono tutti più lontani dalla loro stella. Per intenderci, se si trovassero nel Sistema Solare, si posizionerebbero oltre l’orbita di Nettuno, il pianeta più lontano. I processi di formazione di questi lontani pianeti possono essere molto diversi da quelli che hanno caratterizzato il nostro Sistema Solare e quello di Beta Pictoris.

“Le recenti immagini, in presa diretta, dei pianeti extrasolari, molte di esclusiva competenza del VLT, illustrano la diversità dei sistemi planetari”, ha detto Anne-Marie Lagrange, che ha guidato la ricerca.  “Tra questi, Beta Pictoris b è il caso più promettente di un pianeta che potrebbe essersi formato nello stesso modo dei pianeti giganti del nostro Sistema Solare.”

Guarda il video dell’orbita di Beta Pictoris B

La notizia sul sito Ansa.it e sul sito di ESO

Articolo originale apparso su Media INAF

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Getti potenti dai buchi neri supermassicci

di Sabrina Masiero

Un’immagine artistica che mostra una galassia con un buco nero supermassiccio nella sua regione centrale che sta emettendo onde radio. Crediti: NASA/JPL-Caltech.

Una nuova ricerca, pubblicata il 27 maggio scorso sul Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (MNRAS), porta ad avvalorare l’ipotesi secondo cui i buchi neri supermassicci controrotanti, ossia che ruotano in senso contrario al disco galattico, possano produrre dei potenti getti di gas. I risultati hanno implicazioni enormi anche su come le galassie possano cambiare nel corso del tempo.

La maggior parte di quello che succede in una galassia dipende dai fenomeni che avvengono in una regione centrale molto piccola, sede del buco nero centrale” afferma David Garofalo, astrofisico teorico del Jet Propulsion Laboratory della NASA, Pasadena (California).  

Da oltre un decennio è noto che tutte le galassie, compresa la nostra, ospitano al loro centro un buco nero supermassiccio con una massa dell’ordine di milioni fino a miliardi di masse solari, circondato ed alimentato da dischi di gas e polvere, chiamati “dischi di accrescimento”. Potenti getti escono sia sopra che sotto il disco galattico, mentre forti venti soffiano verso l’esterno dai dischi stessi.

I buchi neri possono ruotare nella stessa direzione dei dischi. Questi vengono chiamati “buchi neri progradi” (prograde black holes) oppure in direzione opposta, “buchi neri retrogradi” (retrograde black holes). Per decenni si era ritenuto che più alta era la rotazione del buco nero, più potente era anche il getto. Vi erano comunque dei problemi con il modello teorico della rotazione, il cosiddetto “spin paradigm model”. Per esempio, alcuni buchi neri progradi erano stati scoperti privi di getti.

Garofalo ed i suoi colleghi nel primo articolo avevano concluso che buchi neri retrogradi emettevano i getti più potenti, mentre quelli progradi erano più deboli o privi di getti.
Il nuovo studio permette una correlazione tra la teoria e le osservazioni delle galassie a varie distanze dalla Terra. Inoltre, si sono analizzate sia galassie “radio-loud” con getti relativistici, sia “radio-quiet” senza getto relativistico. Il termine “radio” deriva dal fatto che questi particolari getti vengono emessi principalmente nella regione delle onde radio.

I risultati mostrano che la maggior parte delle galassie distanti di tipo radio-loud sono caratterizzate da un buco nero retrogrado, mentre oggetti radio-quiet relativamente più vicini presentano buchi neri progradi. Secondo il gruppo di ricercatori, i buchi neri supermassicci evolvono nel tempo da uno stato di tipo retrogrado a quello progrado. E sembra che le cose funzionino anche con il vecchio modello teorico.

Getti e venti giocano un ruolo estremamente importante nel destino delle galassie. Alcuni ricercatori affermano che i getti possono rallentare e perfino ostacolare la formazione di stelle non solo nella galassia che ospita il buco nero, ma anche nelle galassie vicine.

I getti trasportano un’enorme quantità di energia nella periferia delle galassie, spostando vasti volumi di gas intergalattico e agendo da feedback tra il centro galattico e l’ambiente galattico su grande scala” ha affermato Sambruna del gruppo di ricercatori. “Capire la loro origine è l’interesse principale della moderna astrofisica“.

Fonte JPL-NASA: http://www.jpl.nasa.gov/news/news.cfm?release=2010-186 .

Sabrina

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Chi consuma idrogeno ed acetilene su Titano?

Due nuovi articoli basati sui dati della sonda Cassini ci portano dritti nell’intricato regno della complessa attività chimica sulla luna di Saturno chiamata Titano. Sebbene altre ipotesi siano pienamente sostenibili, nondimeno alcuni scienziati ritengono che le abbondanze chimiche rilevate sulla superficie diano nuova linfa agli argomenti in favore dell’esistenza di una forma di vita primitiva – o di “precursore” di forme di vita – su Titano.

In sostanza, l’interesse degli scienziati si concentra su due questioni, riguardanti le basse abbondanze di idrogeno e dell‘acetilene. In particolare, la mancanza di acetilene è importante perché potrebbe interpretarsi come il segnale della presenza di una forma di vita basata sul metano, dicono gli astrobiologi della NASA. E’ infatti già dal 2005 che è stato proposto uno schema di “condizioni necessarie” per la vita in presenza di metano. Una interpretazione  dei dati relativi all’acetilene è che tale idrocarburo sia consumato come.. “cibo” da questa ipotetica forma di vita. Ma l’astrobiologo Chris Mckay asserisce che la quantità di idrogeno è ancora più critica, semplicemente perché tutti i meccanismi proposti implicano di fatto il consumo di tale elemento.

Una immagine artistica della superficie di Titano (Crediti: NASA/JPL)

“Noi suggeriamo il consumo di idrogeno perché è un gas ovvio per il consumo da forme di vita su Titano, in maniera analoga a quanto avviene sulla Terra con l’ossigeno” dice McKay. “Se questi segnali fossero indicativi di una forma di vita, sarebbe doppiamente eccitante, perché rappresenterebbe una seconda forma di vita indipendente da quella terrestre, basata sull’acqua”

Al momento, forme di vita basate sul metano rimangono solo a livello di ipotesi. Va detto infatti che gli scienziati non hanno ancora rilevato simili forme di vita da nessuna parte, sebbene vi siano forme di vita microbiche – sempre basate sull’acqua – che però si sviluppano nel metano,  o lo producono. Su Titano, dove la temperatura si aggira sui 90 gradi kelvin appena, una forma di vita basata sul metano avrebbe l’indubbio vantaggio di poter sfruttare tale elemento allo stato liquido, laddove l’acqua sarebbe disponibile solo in forma di ghiaccio (e troppo fredda per supportare forme di vita come le conosciamo al momento).

La lista dei candidati “liquidi” è del resto piuttosto ristretta: solo metano liquido oppure molecole simili, tipo etano. Per quanto l’acqua allo stato liquido sia largamente ritenuta necessaria per la vita, vi sono ormai diverse speculazioni nella letteratura scientifica secondo le quali vi sarebbe possibilità di forme di vita “alternative” anche in assenza di acqua liquida.

Anche l’analisi accurata delle abbondanze di idrogeno, appunto, sarebbe consistente con le condizioni che potrebbero essere prodotte da una forma di vita esotica basata sul metano, anche se è bene dire che è lungi dal costituire una prova della sua esistenza.

Comunque sia, un fatto è già certo, come sottolineano gli scienziati NASA: i nuovi risultati di Cassini sono sorprendenti ed eccitanti. Vi sono ancora, in programma, diversi passaggi ravvicinati della sonda a Titano, che potrebbero aiutarci a capire cosa sta davvero succedendo sulla superficie…

NASA JPL Press Release

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Lettera di Rilke ad un giovane poeta

Che ci azzecca il sottoscritto con una “antica” lettera (diranno subito i miei piccoli lettori.. no questa è copiata….) ? Ci azzecca parecchio, come ho avuto modo di scoprire negli ultimi tempi. Non c’è altro posto in cui ho trovato con tanta semplice umiltà, con una prosa piena di rispetto, dipanato il problema se scrivere o no, se insistere o lasciar perdere. E’ la lettera di Rilke ad un giovane poeta.  Ascolta:

“Lei guarda all’esterno, ed è appunto questo che ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consiglio o aiuto, nessuno. Non v’è che un mezzo. Guardi dentro di sé.”

Si respira una boccata d’aria leggendola, come sempre quando si è davanti ad una cosa vera, le inutili complicazioni cadono giù come un castello di carte ad un soffio di vento. Rimane l’essenziale. 


“…Si domandi, nell’ora più quieta della sua notte: devo scrivere? Frughi dentro di sé alla ricerca di una profonda risposta. E se sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità. “


Sono grato ad una cara amica che ha sottoposto questo scritto alla mia attenzione, forse intuendo alcuni dei miei ricorrenti dubbi. Vi ritorno da allora, di tanto in tanto, come si potrebbe risentire un bel pezzo di musica da camera, in cui senza tanto clamore ogni cosa si trova al suo posto, e la percezione di bellezza e verità diventa palpabile. Ristoratrice.

“…guardi dentro di sé, esplori le profondità da cui scaturisce la sua vita; a quella fonte troverà risposta alla domanda se lei debba creare. La accetti come suona, senza stare a interpretarla…”

Sto lavorando, quando posso, sul mio “manoscritto” stilato durante il concorso del NaNoWrimo 2009 (di cui ho già parlato su questo blog): è un’avventura affascinante e molto gratificante nel complesso – a condizioni di non lasciarsi paralizzare dalle imperfezioni. E in questo la lettera di Rilke si è rivelata ottima medicina, molto più di tante esortazioni trovate in tanti blog “motivazionali” che oggi vanno di moda nella rete. 

Quando un problema viene posto nei suoi termini corretti, si respira.. sempre!! In poche righe, vengono affrontate sommessamente problematiche che – nell’ambito della scrittura creativa – sembrano a volte “immense”.. non solo SE SCRIVERE, ma COME SCRIVERE e COSA… 

“rifugga dai motivi più diffusi verso quelli che le offre il suo stesso quotidiano; descriva le sue tristezze e aspirazioni, i pensieri effimeri e la fede in una bellezza qualunque; descriva tutto questo con intima, sommessa, umile sincerità, e usi, per esprimersi, le cose che le stanno intorno, le immagini dei suoi sogni e gli oggetti del suo ricordo…” 

E anche l’atteggiamento verso la vita (come potrebbe essere disgiunto dalla scrittura?)

“Se la sua giornata le sembra povera, non la accusi; accusi se stesso, si dica che non è abbastanza poeta da evocarne le ricchezze; poiché per chi crea non esiste povertà, né vi sono luoghi indifferenti o miseri…”

Cosa c’è di più bello? Passo e ripasso la lettera e trovo sempre nuovi motivi di stupore… Potrei parlarne ancora ma non è giusto: non sono le mie parole ad essere importanti, ma quelle delle lettera. Da lì le mie parole possono, semmai, (ri)partire… 

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La metamorfosi del neutrino

Dopo oltre tre anni di ricerche e miliardi di miliardi di particelle in viaggio da una parte all’altra delle Alpi,fin negli appennini dove si trovano i Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), per la prima volta al mondo è stata osservata, in modo diretto, una metamorfosi del neutrino. La trasformazione, cioè, di un neutrino in un altro.

Ad annunciarlo è l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare sottolineando che si tratta di una “scoperta che apre le porte a una nuova fisica”. “Serviranno ovviamente altre osservazioni di neutrini ‘mutanti’ – spiega l’Infn – per avere la certezza definitiva della scoperta”.

Una veduta dei laboratori sotto il Gran Sasso (Crediti: Media INAF)

Il fenomeno è stato osservato dall’esperimento internazionale Opera. Il neutrino, al termine di un viaggio che lo ha portato dal laboratorio europeo di Ginevra del Cern, da dove è stato ’sparato’ in fasci puntati verso il Gran Sasso, fino all’interno della montagna abruzzese a 732 chilometri di corsa sotto la crosta terrestre in soli 2,4 millisecondi, ha mutato la propria natura. È stata una impresa, continua l’Infn, “resa possibile dalla collaborazione tra Cern e Laboratori dell’Infn del Gran Sasso nel progetto Cngs, Cern Neutrino-Gran Sasso. Questo risultato, infatti, è una forte indicazione del fatto che i neutrini hanno una massa e che possono oscillare passando da una ‘famiglia’ a un’altra”.

Fu il fisico italiano Bruno Pontecorvo, del gruppo dei “ragazzi di via Panisperna” di Enrico Fermi, a proporre, verso la metà del Novecento, la possibilità di trasformazione dei neutrini. “Nel Modello Standard elaborato dai fisici per spiegare l’Universo, – continua l’Infn – i neutrini non hanno una massa. Occorrerà dunque rettificarlo in questo punto, fornire nuove spiegazioni e iniziare nuove ricerche con tutte le possibili implicazioni in cosmologia, nell’astrofisica e nella fisica delle particelle”.

“È un risultato importante – commenta Margherita Hack – è una conferma che i neutrini hanno una massa. Si pensava che la massa dei neutrini fosse un centomillesimo di quella dell’elettrone: per quanto piccola è pur sempre una massa e potrebbe contribuire in parte a spiegare di che cosa è composta la materia oscura” che costituisce il 25% dell’universo.

Guarda l’intervista a Natalia Di Marco per l’esperimento OPERA

Guarda il filmato sull’esperimento CNGS

Notizia ripresa dal sito Media INAF. Si può consultare anche l‘articolo su La Stampa o su Il Sussidiario.net sullo stesso argomento.

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